di Sergio ROSSI
La nostra indagine sulle condizioni della cultura nel nostro paese continua con questa conversazione tra Sergio Rossi, nostro valoroso collaboratore, già Docente di Storia dell’Arte Moderna alla Sapienza Università di Roma e Vittorio Sgarbi, da tempo amico e attento lettore di About Art; questo colloquio segue quello con Claudio Strinati (Cfr. https://www.aboutartonline.com/claudio-strinati-non-temo-un-attacco-alla-cultura-di-sinistra/ ) che ha ottenuto un notevole successo, essendo a tutt’oggi nella lista dei top ten di About Art.
D: Voglio iniziare questa mia intervista con una provocazione. Secondo me la presunta egemonia culturale della sinistra, di cui tanto si parla, non c’è e non c’è mai stata. Infatti, e da uomo di sinistra lo dico con cognizione di causa, molti tra i migliori intellettuali e artisti di sinistra sono stati emarginati non tanto dalla destra, quanto piuttosto proprio dalla sinistra, dai tempi del P.C.I togliattiano fino al P.D. attuale, che hanno sempre preferito alle menti veramente libere gli opportunisti di turno. Cosa hai da dire al riguardo?
R: In effetti la tua non è una domanda quanto piuttosto la constatazione amara di uno come te che ha fatto studi importanti e non ha tratto alcun beneficio, insieme a tanti altri del resto, dall’essere di sinistra. Ma va detto subito che vi è molta differenza tra l’ideologia intesa come visione del mondo e l’esercizio del potere. L’egemonia di cui stiamo parlando non è l’ideologia intesa come visione del mondo ma quella del potere che tende a servirsi di coloro che sono disposti ad assecondarlo e quindi parliamo di una serie di persone che si sono piegate e si piegano di volta in volta al potere di turno per trarne vantaggio. Ora, almeno fino al governo Meloni, la destra è sempre stata minoritaria e frazionata per cui si è creata un’identità politica che chiamiamo “sinistra” che altro non è che il potere, potere esercitato da potenti che si sono definiti di sinistra senza esserlo; mentre non vi è mai stato un destino favorevole a nessuno che fosse indipendente. D’altra parte tutte le principali figure di intellettuali liberi che hanno rappresentato l’Italia fin dal dopoguerra, da Moravia a Guttuso a Pasolini si sono sempre professate di sinistra, poi è chiaro che la loro forza individuale era superiore alla loro ideologia, e invece quelli che non erano né carne né pesce hanno aderito a quella che chiamiamo sinistra per trarne vantaggio, quindi da questo punto di vista il tuo pensiero è senz’altro condivisibile. Certo vi sono stati anche intellettuali di sinistra come Franco Fortini o Cesare Cases che sono rimasti effettivamente indipendenti, ma il problema è che i mondi della sinistra sono molti e in questo caso la sinistra ha due risvolti, quello che riguarda la cultura letteraria o filosofica e quello che riguarda l’azione della magistratura, due punti di potere di quella che chiamiamo sinistra che hanno determinato una serie di effetti. La destra invece è sempre stata divisa; ora, improvvisamente, con Berlusconi e con la Meloni, si è creata una cosa che si chiama destra che però non aveva presidi culturali, non aveva e non ha punti di riferimento per cui piuttosto che parlare di categorie come destra o sinistra bisognerebbe parlare di coloro che hanno esercitato il potere indipendentemente dalla loro ideologia di appartenenza o addirittura senza avere nessuna ideologia: dunque quello che tu dici è interessante, perché non basta essere di sinistra per essere tutelati, bisogna essere fedeli a quella sinistra che è al potere. La destra dal canto suo non rivendica di avere un ruolo intellettuale perché non ha rappresentanti; non vi è una “cultura di destra” come entità autonoma; quando Raboni anni fa ha scritto quell’articolo in cui diceva che tutti i grandi scrittori sono di destra in realtà parlava di singoli individui: Tomasi di Lampedusa, Guareschi, sono individui, non sono di destra o di sinistra. Ora dalla parte della sinistra vi è più una visione sistemica che ha fatto sì che si sia creato un sistema di potere che non corrisponde assolutamente ad una ideologia di sinistra, per cui tu da questo punto di vista hai senz’altro ragione.
D: Ecco un’altra domanda che in parte si riallaccia alla prima. Penso che tutti noi condanniamo senza se e senza ma la criminale aggressione all’Ucraina da parte della Russia, ma se solo provi a dire “però”, ecco che sei accusato di essere un filo putiniano, un traditore della patria, eccetera, e ancora di più se trovi anacronistica la censura verso gli artisti russi come Valery Gergiev, uno dei più grandi direttori d’orchestra del mondo, o l’autodafé cui si è dovuta sottoporre Anna Netrebko per poter tornare a cantare in Occidente, degna del peggior stile staliniano. Ora io trovo che essere contrari a questa sorta di caccia all’intellettuale russo non ha niente a che vedere con l’essere filoputiniani. Sei d’accordo?
R: Qui bisogna immaginare che nessun regime di sinistra ha mai pensato di non rappresentare Pirandello: Pirandello era fascista ma giustamente lo si è continuato a mettere in scena. Per cui quest’idea di poter censurare un intellettuale russo perché crea o perché usa le proprie idee è una forma di razzismo culturale, come se si possa essere colpevoli solo perché si ha nelle vene del “sangue russo”; o come se potessimo giudicare i grandi scrittori russi da Chechov a Dostoevskij colpevoli di qualche cosa che naturalmente non li può riguardare, appunto perché russi; e del resto gli stessi soldati russi mandati a morire da Putin sono delle vittime perché eseguono solo degli ordini. Ora Putin ha una sua posizione politica che va guardata con molta attenzione, e che riguarda il suo rapporto complesso con la NATO e con gli Stati Uniti da cui deriva una guerra con gli Stati Uniti di cui Zelenski è solo il veicolo: d’altra parte è chiaro che non si può pensare di cercare la pace solo continuando a mandare le armi, perché questo non fa che acuire le contrapposizioni tra i due poli e in definitiva favorire gli Stati Uniti. Ora tutto questo è difficile dirlo ma il paradosso è che non lo può dire nemmeno un pacifista che non è di sinistra come Berlusconi, che è spinto dal legittimo timore che questo conflitto possa condurre alla fine al pericolo concreto di una guerra atomica; ebbene Berlusconi questo non può dirlo né nei suoi giornali né nelle sue televisioni, perché nei giornali e nelle televisioni di Berlusconi non vi è spazio per le idee di Berlusconi; per cui io gli ho proposto il paradosso, dopo la morte di Maurizio Costanzo, di assumere Michele Santoro che secondo me oggi è l’unico che può autorevolmente stabilire un dialogo con Berlusconi e dove Berlusconi può esprimere liberamente le sue idee, che non sono certo quelle di un vecchietto che è contrario alle posizioni del suo stesso partito, delle sue televisioni e dei suoi giornali ma è il pensiero lucido di chi ritiene che il protrarsi senza fine di questo conflitto rappresenti un autentico pericolo per tutti noi; per cui Santoro potrebbe essere il cavallo di Troia in cui si possono specchiare tutte quelle persone che sono autenticamente pacifiste senza essere minimamente filo putiniane ma che ritengono che il modo per ottenere la pace non possa essere quello di un continuo invio di armi. Io del resto non lo so quale possa essere la soluzione e non lo sa in questo momento nemmeno chi ha il potere: certo il disarmo deve essere bilaterale, e se non lo vuole Putin non lo vuole nemmeno l’altro e corriamo veramente il rischio di impantanarci in una situazione simile a quella del Vietnam. D’altra parte è impensabile pensare che Putin possa perdere la guerra: forse non può vincerla, ma certo non la può perdere, per cui l’errore di Zelenski è quello di continuare la guerra pensando di poterla vincere, errore che si avvantaggia della solidarietà e della visione armata degli Americani e dei suoi alleati. Pe cui anche qui avere una posizione laica è molto difficile.
D: Una cosa che ad uno come me che ha insegnato per quarant’anni fa imbestialire è il sentir denigrare la scuola italiana, che rimane nonostante tutto una delle migliori del mondo (almeno dieci volte superiore a quella finlandese che io conosco bene), anche da parte di troppi intellettuali che invece dovrebbero difenderla. Dico nonostante tutto perché questo dato non si deve certo ai governi, di destra, centro, sinistra e delle grandi ammucchiate, che la scuola hanno cercato in tutti i modi di calpestare e avvilire, ma si deve ai docenti di ogni ordine e grado, dalle materne alle superiori, che benché malpagati, umiliati e offesi ancora svolgono coscienziosamente il loro lavoro. Secondo te cosa si dovrebbe fare per porre finalmente rimedio a questa situazione?
R: Anche in questo caso tu fai una domanda che contiene già una risposta e che va nella direzione di pensieri affini, che noi, pur frequentandoci poco, abbiamo su certi problemi. Io sono contrario alla riforma della scuola, perché questo è solo un palliativo per dire che cambia qualcosa quando non cambia niente. Infatti la scuola può cambiare attraverso il solo strumento che conta ed è quello della qualità degli insegnanti, per cui l’unica riforma possibile è quella di garantire che la scuola sia affidata a bravi insegnanti. Ora quello dell’insegnante è un mondo complesso, perché l’insegnante può avere essere spinto da un’autentica vocazione, può essere spinto dal desiderio di cambiare il mondo e quindi tramettere questo suo entusiasmo ai suoi studenti. Però ad un certo punto la scuola obbligatoria (io lo so perché mia madre ad un certo punto ha deciso di insegnare pur essendo laureata in Farmacia) ha determinato una femminilizzazione della scuola, perché l’uomo ha deciso che non era più conveniente fare l’insegnate, per cui è scomparsa la figura maschile; anche l’autorevolezza del padre o del preside hanno perso valore, e sono comparse al 90% donne che certo possono anche avere dei valori maschili, però nella maggior parte dei casi hanno inteso la funzione dell’insegnamento come qualcosa che consentisse loro di continuare ad essere casalinghe, una specie di cosa in più ma non il lavoro principale, per cui in tutte le scuole vi è stata una diminuzione di ruolo e di rango della figura degli insegnanti, che sono diventati come una specie di badanti dei ragazzi senza avere la possibilità di esercitare fino in fondo le loro capacità intellettuali; certo, che ci siano delle persone nel mondo maschile e nel vastissimo mondo femminile che sentano l’insegnamento come un impegno, come un dovere è senz’altro probabile, però che questo non premi l’insegnante né come stipendi, né come riconoscimento sociale è altrettanto vero e per l’insegnante non vi è nessuna possibilità di fare carriera; ad esempio nel mondo della politica un assessore vale molto più di un insegnate; questi nella società del dopoguerra era un punto di riferimento era un faro e oggi non è più così, la donna che ha preso il suo posto ha trovato un modo per lavorare, e quindi lo stipendio ha preso il posto del fuoco dell’insegnamento. Però fin quando noi non restituiremo all’insegnante, sia maschio che femmina, quella funzione, quel ruolo preminente che aveva in passato, fin quando non faremo di nuovo sentire all’insegnante di essere fondamentale è evidente che quel lavoro non sembrerà attraente. Ora secondo me la scuola di massa ci porta ad avere delle figure di insegnanti che non hanno una grande capacità di forza e di persuasione. D’altra parte che anche adesso ci siano degli insegnanti bravi e che sentano l’insegnamento come una missione è indubbio e quello va guardato come l’unica vera riforma della scuola. Del resto anche l’insegnamento universitario non è più attrattivo, tanto è vero che ad esempio nella nostra disciplina si preferisce intraprendere la carriera di direttore di Museo a quella del docente, qualunque lavoro è migliore che andare davanti a dei ragazzi, perché il rapporto con loro è sempre più difficile; d’altra parte la scuola ha perso la capacita di dire una verità definitiva perché i social, la televisione hanno spezzettato il sapere, e non c’è più il sapere di una volta. Quando io ero allievo di Arcangeli, Arcangeli era tutto, era un insegnante che aveva la capacità di coinvolgerti, era per noi un universo. Oggi questo non c’è più. E ripeto anche a livello universitario l’insegnamento ha perso la sua capacità attrattiva. Certo anche oggi ci sono dei professori che si sentono investiti di una missione e che vogliono tramettere agli studenti il loro sapere ma questa è sempre di più una scelta personale che certo andrebbe maggiormente tutelata e valorizzata.
D: Rispetto a quando eravamo giovani l’insegnamento della storia dell’arte ha fatto certamente notevoli progressi. Sei d’accordo?
R: Alcune discipline come la nostra sono state favorite dal fatto che prima erano certamente sottostimate; oggi indubbiamente gli storici dell’arte sono molto agguerriti, ci sono persone che fanno ricerche molto significative; un tempo la materia era molto più ristretta, oggi la specializzazione e la profondità di analisi porta ad una quantità di studi settoriali molto importanti e sicuramente rispetto anche agli anni quaranta e cinquanta la nostra disciplina è molto cresciuta, è aumentata la curiosità grazie anche alla ricerca di temi minori che diventano temi fondamentali, e non so se questo vale lo stesso per la matematica o per la letteratura. Inoltre gli storici dell’arte hanno oggi maggiore visibilità e maggiore possibilità di far conoscere anche al grande pubblico le loro performances.
D: Tempo fa Giulio Carlo Argan sosteneva che la differenza tra la scienza e l’arte consiste nel fatto che nella prima due più due deve fare quattro, nella seconda può farlo. E di recente Claudia Ferrazzi scrive che è necessario che anche il mondo delle imprese benefici della capacità di innovazione propria della creazione artistica. E’ un po’ il sogno del Bauhaus che torna di moda. Con l’aggiunta che oggi la creatività umana deve essere assolutamente difesa contro l’ingerenza dell’intelligenza artificiale e quindi sostenere l’arte e la bellezza a tutti i livelli assume un ruolo decisivo per la stessa sopravvivenza del genere umano: sei d’accordo?
R: Il tema è abbastanza complesso, intanto Argan ha il sentore di una cosa molto lontana da noi rispetto a quello che siamo diventati. L’altra sera il premio Nobel Giorgio Parisi si augurava che la scienza potesse diventare cultura e io ho detto ma guarda che questo c’è da sempre, dai filosofi presocratici a Galileo, che hanno fatto sì che il pensiero scientifico sia cultura; che poi sia settoriale e non corrisponda al pensiero umanistico e che sia diverso rispetto all’arte, alla poesia e alla letteratura non vuol dire che abbia minor rango. Ma fin dall’antichità l’arte e la scienza hanno convissuto per diventare una sola visione del mondo e da questo punto di vista Caravaggio e Galileo sono un esempio abbastanza esemplare. Però il tema che pone Argan è interessante per una ragione, perché il primato della cultura che ingloba la scienza contraddice il primato della scienza come condizione di conoscenza compiuta. Noi abbiamo nella nostra disciplina una serie di abusi linguistici per cui abbiamo il restauro scientifico, il direttore scientifico, il curatore scientifico, il comitato scientifico, e in quest’ultimo caso si tratta di una serie di studiosi che si mettono insieme per affrontare un determinato argomento, si tratta di un comitato di studio che viene chiamato scientifico per corroborarlo con la forza che ha la scienza; per cui, ripeto, questo prevalere dell’attributo scientifico a garanzia della nostra funzione è un altro abuso perché non c’è nessun restauro scientifico, c’è un restauro e basta che viene compiuto da un bravo restauratore con la sua sensibilità e la sua manualità; gli studi sono fatti con la capacità di conoscenze che uno ha raggiunto: certo c’è il rigore della ricerca, ma c’è anche l’estro, e la fantasia del ricercatore, per cui ha ragione Argan nel dire che la pretesa di scientificità è un modo per diminuire la capacità creativa propria dell’atto critico; la scienza ha dei confini e l’arte non ce li ha, l’arte è sconfinata, l’arte erompe, ha la capacità di far saltare i confini per cui dovremmo avere l’orgoglio di una critica creativa, di una capacità di capire se vogliamo anche fideistica e irrazionale, perché non c’è bisogno della scienza per capire l’arte, altrimenti abbiamo solo una serie di studi che affrontano i problemi in modo meccanicistico e ripetitivo. Quando abbiamo riconosciuto il primato di Roberto Longhi abbiamo dovuto apprezzare il primato della letteratura non della scienza, di aver affrontato la pagina critica sul piano emotivo, quindi credo che Argan da questo punto di vista avesse colto un problema reale cioè quella della funzione creativa dell’opera d’arte.
D: Veniamo a Roma: la città ha ora un’occasione unica per risollevarsi visto che il Giubileo è alle porte anche se nessuno sembra accorgersene. Ormai quasi due anni fa Carlo Calenda aveva lanciato la proposta di un grande Museo di Roma ricevendo più insulti che commenti pacati. Tu, partendo anche dal dato inoppugnabilmente folle che il patrimonio archeologico romano è oggi diviso in almeno undici sedi diverse avevi proposto di riunire tutto quello che è trasportabile nell’area del Campidoglio, spostando la politica da Palazzo Senatorio e creare così una sorta di Louvre dell’antichità romana, da inserire in un percorso didattico-museale che includa anche luoghi come l’Ara Pacis o Villa Giulia. Sei ancora di questo parere?
R: Io ho già fatto una parte dell’impresa e quindi da parte mia ho già chiuso un capitolo; un altro che non ho ancora aperto riguarda il Giubileo, ed io penso che più che i musei, perché a Roma indubbiamente vi è un’offerta museale più ricca di quando io ero studente, bisogna rivolgere lo sguardo alle chiese, quindi io più che i musei aperti farei le chiese aperte, prenderei dei ragazzi a studiare sistematicamente l’immenso patrimonio che abbiamo nelle nostre chiese; del resto il Giubileo è un evento essenzialmente cristiano, quindi deve tendere ad includere, ad aprire, appunto. L’altro capitolo che mi riguarda è piuttosto un’intuizione: di recente io ho incontrato Paglia, ho incontrato Parolin ed avendomi lui chiesto un progetto per il Giubileo, io gli ho fatto una proposta per le Scuderie del Quirinale che lui ha accettato ed è quella che affronta l’arte degli artisti nella loro tarda età, il tardo Bellini, il tardo Tiziano, il tardo Guido Reni, il tardo Renoir; ma questo non riguarda solo il tema della vecchiaia, da cui sono partito, ma anche gli artisti che sono morti giovani, pensiamo a Caravaggio, alla differenza che vi è tra il Ragazzo con il cesto di frutta e la Decollazione di Malta o il David e Golia della Borghese, sono opere estreme in cui sembra che egli già avesse coscienza della fine, così come Giacomo Leopardi che è morto a trentasette anni ed ha prodotto capolavori assoluti come il Pensiero dominante, La Ginestra o Il tramonto della luna. [E pensiamo al Mozart della Messa da Requiem, agli ultimi lieder di Schubert ndr]. E allora abbiamo preparato questo progetto e faremo questa mostra che certamente farà discutere perché il tema della vecchiaia, delle opere finali, non è mai stato affrontato in modo sistemico. E poi c’è questo problema del Giubileo. Ora io dal punto di vista personale sono pressoché ateo, e però sono cristiano, sono cristiano perché ogni credente crede nel suo Dio che spesso non corrisponde alla Chiesa che vorrebbe, perché la Chiesa si occupa di denaro, c’è il problema dei pedofili, e allora ognuno crede nel suo Dio e va benissimo, io invece sono clericale e credo più nella Chiesa che in Dio, nella Chiesa come istituzione storica e allora col Giubileo la Chiesa ha una grande occasione e questa idea di tenere tutte le chiese aperte secondo me è fondamentale, perché la Chiesa come dicevo prima deve aprire, deve includere ed allora, insisto, io metterei dei giovani a studiare sistematicamente questo immenso patrimonio e farei chiese aperte. L’altro aspetto di cui parlavo è questa intuizione delle opere terminali, perché nella tarda età indubbiamente si perde la carica di vitalità, la carica erotica e allora si diventa più meditativi. Non so, l’ultimo Reni è impressionante, l’ultimo Monet è meraviglioso, l’ultimo Music, l’ultimo Morandi che guarda solo all’anima delle cose non al loro corpo. Insomma io sul Giubileo sono attrezzato.
D: A Roma abbiamo il paradosso che il più grande museo della città si trova all’estero, cioè nello Stato della Città del Vaticano.
R: Sì questo è un paradosso perché quando si stilano le classifiche dei musei più visitati, vi è il Louvre, vi è il Metropolitan, ma tra i Musei italiani non vengono citati i Musei Vaticani che hanno circa sei milioni e mezzo di visitatori all’anno e sono a tutti gli effetti uno dei musei più visitati e importanti del mondo.
D: Non trovi anacronistico che una grande metropoli come la nostra non abbia assolutamente un grande Museo d’arte contemporanea degno di questo nome, perché né la GNAM per come è gestita attualmente, né il MACRO né il MAXXI, con tutto il rispetto, possono definirsi tali
R: Però, per esempio rispetto a Milano, indubbiamente in questi ultimi anni Roma è andata avanti; vi è il Museo del Novecento che è la GNAM, con tutto che la sua gestione attuale si può discutere, vi sono il Macro ed il Maxxi, certo poi devi dargli i contenuti adeguati e non bastano gli spazi, però ripeto Milano si è fermata, così altre città, mentre Roma è andata avanti quindi è difficile pensare di fare altri musei.
D: Ed ora una domanda su quello che con termine orribile si chiama Jus Soli o Jus Scholae, ma prima ti voglio raccontare una storia vera che sembra una barzelletta. So di un egiziano che è diventato cittadino italiano dopo aver sposato una bosniaca che aveva sposato un italiano da cui aveva divorziato poco dopo; ora anche questa signora e l’egiziano hanno divorziato per cui se quest’ultimo si sposa, metti con un’altra egiziana, lei diventerà cittadina italiana per avere sposato un egiziano che ha sposato una bosniaca che ha sposato un italiano. Invece un ragazzo nato in Italia, che sta completando con merito il suo ciclo di studi nel nostro paese, che magari parla l’italiano meglio di tanti suoi compagni italiani non può avere la nostra cittadinanza. A me sembra non solo profondamente ingiusto ma anche masochistico visto che con il nostro crollo delle nascite noi dovremmo includere e non respingere.
R: No, no, capisco: questo secondo me è un errore nel senso che questa che sembra una forzatura della sinistra alla destra in realtà è solo il riconoscimento di una condizione di vita che si è svolta in Italia, nelle scuole italiane, con la lingua italiana e quindi se ben interpretata dovrebbe essere accolta anche dal centro destra e non vedo perché un ragazzo che nasce in Italia, vive e ha vissuto in Italia non debba essere considerato italiano; non bisogna guardare al sangue. Quindi in effetti non capisco e non ho mai capito bene cosa spinge la destra ad avversare questa che è semplicemente la valutazione fotografica di una vita; e non si capisce perché un ragazzo che frequenta le scuole italiane non debba essere considerato italiano, dal momento che la sua percezione del mondo è legata a quella dei suoi compagni di scuola che hanno fatto le stesse scuole e quindi non può essere una questione di sangue, una questione geografica, ma ripeto di visione del mondo, di quello che si ha in testa. Quindi io penso che questa è una posizione che col tempo anche la destra dovrà rivedere e penso anche che la Meloni sarà abbastanza intelligente da capire che non vi è alcun motivo per cui un ragazzo che ha vissuto 18 anni in Italia non debba essere considerato italiano.
D: Veniamo a una domanda che nessun intervistatore può evitare di fare. Quale libro stai leggendo o hai appena letto.
R: Mah, i libri sono talmente tanti che si affollano, sto leggendo Geminello Alvi che è uno scrittore particolarmente sofisticato, leggo Antonio Delfini, leggo Röttgen; il mio è un procedimento molto rapsodico, leggo dei saggi sul Quattrocento ferrarese che è un argomento di cui mi sto occupando, leggo gli studiosi che sono andati oltre Roberto Longhi, che hanno allargato la sua visione, leggo Testori e sto leggendo proprio un libro di Alessandro Gnocchi su Testori; sai per uno come me che non legge i libri per diletto ma per rendersi conto di quello che succede nel mondo non vi è un solo libro in particolare.
D: Per finire ti chiedo se c’è una “mostra impossibile” che ti piacerebbe organizzare?
R: In realtà io ho una visione molto concreta e realistica, quello che ho voluto fare l’ho fatto, forse perché non mi è mai venuto in mente di fare mostre impossibili; certo ho il privilegio di ottenere quello che altri non possono ottenere e ovviamente non è che ne approfitto, ma direi che le mostre che avrei voluto fare si sono tutte realizzate.
Sergio ROSSI Roma 2 Aprile 2023