di Michele FRAZZI
Con questo numero riprendiamo la pubblicazione dei saggi con cui Michele Frazzi ripropone con argomenti nuovi e molto spesso inediti il tema della vicenda umana ed artistica di Michelangelo Merisi da Caravaggio. Rispetto ai numerosissimi studiosi che si sono cimentati con diverse prospettive a questa ormai conosciutissima questione, il lavoro di Frazzi si caratterizza per la originalità e la diversità d’approccio, grazie ad un caparbio lavoro archivistico che lo ha tenuto occupato diversi mesi in varie città d’Italia, e che gli ha consentito di esplorare ambienti e situazioni quasi mai prese in esame dagli studi precedenti.
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1600
L’anno 1600 fu un passaggio molto importante nella vita del Caravaggio e più in generale per la cultura a Roma, infatti fu l’anno del Giubileo, che diede luogo ad una notevole concentrazione di manifestazioni significative nel campo delle arti. Per quanto riguarda il nostro discorso risulta ovviamente fondamentale la consegna da parte del Caravaggio delle tele della Cappella Contarelli, che diedero modo al Merisi di mostrare per la prima volta le qualità della sua pittura in un luogo pubblico e questo segnò una svolta decisiva per la storia della pittura. Altro fatto non trascurabile sempre lo stesso anno vide la nascita di un circolo di eruditi e di artisti molto importanti che fu il nucleo fondativo dell’Accademia degli Humoristi che aveva sede a Palazzo Mancini in via del Corso; l’Accademia fu un formidabile centro aggregativo di menti e motore propulsore per le innovazioni artistiche, fu la più famosa ed apprezzata Accademia europea, modello ispiratore per tanti altri circoli di cultura in Italia ed in Europa, come ad esempio accadde per la famosa Académie francaise, che non a caso quando ce ne fu la possibilità scelse proprio il palazzo dove si riunivano gli Humoristi per la propria sede a Roma.
Caravaggio ed il circolo degli Humoristi
In questo paragrafo tratteremo in prima battuta ed in maniera sintetica le relazioni che legarono il Caravaggio a molti esponenti degli Humoristi; per chi fosse interessato ad una trattazione più ampia rimando ad un altro mio articolo già pubblicato in questa stessa rivista: (https://www.aboutartonline.com/laccademia-degli-humoristi-una-illustre-istituzione-nella-roma-del-600-con-numerosi-sodali-di-caravaggio/)
Fra i fondatori della Accademia degli Humoristi vi furono alcune personalità di rilievo per le vicende del Caravaggio: Andrea Ruffetti, Marzio Milesi e Giovanni Zaratino Castellini che erano in ottimi rapporti di amicizia con Onorio Longhi, anche lui membro del consesso (6). Essi si conoscevano già da lungo tempo prima della nascita di questa associazione dato che erano tutti laureati in legge alla Sapienza ed anche poeti dilettanti, e dunque formavano una cerchia di amici con conoscenze ed interessi comuni, queste persone furono anche il cerchio di amicizie più stretto frequentato dal Caravaggio dopo il 1600, Ruffetti per un certo periodo addirittura ospitò il pittore a casa sua.
Approfondendo le ricerche sui componenti della Accademia, potremo trovare i nomi di molte altre interessanti personalità che entrarono in relazione col Merisi. Vi ritroviamo in primo luogo i suoi più importanti biografi italiani contemporanei: Giulio Mancini (33), quindi il pittore Giovanni Baglione ed anche Gaspare Celio (in “Dizionario biografico Treccani” alla voce Gian Vittorio Rossi detto Eritreo e Gaspare Celio), di cui è stata recentemente portata alla luce la preziosa biografia caravaggesca per merito di Riccardo Gandolfi.
Inoltre, come detto più sopra, a questa accademia appartennero molti importanti esponenti delle famiglie nobiliari romane più in vista, che in concreto gestirono il potere nella Roma del ‘600 e diversi di loro entrarono in rapporti e protessero il Caravaggio. Se vi fu una famiglia che più di tutte si distinse per il ruolo attivo in seno agli Humoristi, essa fu senza dubbio quella dei Colonna. A partire da Filippo I Colonna duca di Paliano, il nipote di Costanza la Marchesa di Caravaggio, che fu il principale protettore dell’Accademia fin dal momento della sua fondazione, ne divenne il Principe e ne scrisse anche lo statuto fondativo (Cfr. Le Leggi degli Humoristi).
Per capire quale fu l’importanza dei Colonna ed il loro ruolo preponderante in seno al consesso possiamo osservare che durante i suoi circa 70 anni di vita ad essa appartennero ben 10 membri della famiglia e 7 ne furono anche i Principi: oltre a Filippo lo furono Camillo, Federico, Giovanni Paolo, Giovanni Camillo, Marcantonio, Pietro, Cesare, oltre a loro vi appartennero anche Mutio e Pompeo che era il nipote di Marzio Colonna il duca di Zagarolo, che protesse il Caravaggio dopo la sua a fuga da Roma. Ne furono membri anche i componenti della casata dei Della Corgna e degli Sforza di Santa Fiora: cioè Fabio della Corgna (figlio di Francesca Sforza di Santa Fiora ed Ascanio II della Corgna; (34) e Pietro Sforza Pallavicino, che divenne principe della Accademia nel 1625 che era figlio di seconde nozze di Francesca Sforza di Santa Fiora, rimasta vedova. Quindi la famiglia dei Giustiniani nella persona del vescovo Bartolomeo Giustiniani, dei Giustiniani di Chio, che a partire dal 1600 venne mantenuto e fatto studiare a Roma dal Cardinale Benedetto Giustiniani: il collezionista del Caravaggio (35), Camillo Massimo II ( Carlo ), nipote e parziale erede anche di Vincenzo Giustiniani (“Dizionario biografico Treccani” ad vocem), appartenente alla famiglia dei Massimi che commissionarono al Caravaggio un Ecce homo ed una Incoronazione di spine.
Ad essi vanno aggiunti altre importanti personalità di spicco, come il famoso collezionista ed erudito Cassiano dal Pozzo e Alessandro Damasceni Peretti (36), oltre a Virginio Orsini che era cugino di Costanza Colonna e marito di Flavia Peretti, cioè la sorella della Marchesa del feudo di Caravaggio Orsina Peretti. Virginio era duca di Bracciano, nel suo territorio è incluso Palo laziale, che fu l’ultimo approdo del Caravaggio prima della morte (37).
Inoltre, Giulio Cesare, Luigi e Alfonso Gonzaga e Andrea Barbazza il braccio destro del Cardinale Federico Gonzaga che si prodigò per fare ottenere la grazia al Caravaggio: fu proprio per ricevere questo documento che egli andò a Palo nel territorio degli Orsini.
Berlingero Gessi Juniore (“Dizionario biografico Treccani” ad vocem), nipote del cardinale Berlingiero Gessi assegnò al Caravaggio l’incarico della Contarelli, del quale l’ altro accademico Antonio Bruni fu segretario. La nipote di Ippolito Aldobrandini cioè Papa Clemente VIII ( 38), Olimpia acquistò opere del Caravaggio. A questi si aggiungano Maffeo Barberini anch’egli collezionista del pittore, che divenne Papa Urbano VIII e i suoi nipoti: i cardinali Antonio e Francesco. E poi altri tre papi, Giulio Rospigliosi: papa Clemente IX, Fabio Chigi: papa Alessandro VII ( 39) ed infine anche il potente Cardinale Giulio Mazzarino.
Oltre ai già citati Milesi, Ruffetti e Onorio Longhi ( 40) che furono tutti e tre collezionisti dei dipinti del Caravaggio fecero parte della Accademia anche diversi altri suoi committenti. In primo luogo i Crescenzi, la famiglia che fu l’esecutrice testamentaria del cardinal Contarelli: il Caravaggio eseguì su loro commissione i ritratti di Virgilio, Crescenzio e Melchiorre che oltre ad essere un insensato fu anche un humorista assieme a Francesco Crescenzi il figlio di Virgilio (41). Fu humorista anche Giulio Strozzi il committente del ritratto di Fillide. (42), Mons. Niccolò Radulovich, il nipote del commerciante Niccolò Radulovich il primo a commissionare un’ opera al Caravaggio dopo la sua fuga a Napoli, (“Dizionario biografico Treccani” ad vocem), Giovan Battista Marino, al quale il Caravaggio fece un ritratto e dipinse una Susanna ed i Vecchioni. E così Ambrogio Nuti, con tutta probabilità il fratello minore di Fabio Nuti che commissionò al Caravaggio il 6 aprile del 1600 un quadro “cum figuris” saldato il 20 novembre dello stesso anno, e probabilmente non fu un caso che nel contratto come garante dell’esecuzione del dipinto vi fu un altro humorista: Onorio Longhi ( 42 ). Agli humoristi appartennero anche Camillo Pamphilj e Olimpia Aldobrandini Junior.
Risulta evidente dal lungo e significativo elenco che comprende molti dei nomi più rilevanti della cultura e del potere romani, quale fosse l’importanza dell’Accademia nell’ambito di Roma e del movimento Barocco più in generale. Non sarà dunque casuale che a conti fatti la Accademia degli Humoristi si riveli il perno attorno al quale ruotarono la maggior parte dei protettori relativi alla fase matura del Caravaggio (1600-1606), dei suoi biografi, dei poeti che lo celebrarono e soprattutto dei suoi amici, quelli che tra l’altro lo aiutarono dopo l’omicidio Tomassoni, nella fase finale della sua permanenza a Roma, così come coloro che ruotarono attorno al circolo degli Insensati furono i suoi protettori e gli acquirenti dei suoi quadri degli esordi.
L’Accademia degli Humoristi, oltre a contare fra i suoi membri quasi tutti gli appartenti romani alla Accademia perugina degli Insensati, per le affinità degli scopi ne costituisce di fatto la naturale prosecuzione (43) e molte delle persone frequentate dal Caravaggio in questo secondo periodo della sua esperienza romana vi appartennero. Questo accadde in continuità con le relazioni che avevano legato il pittore a quei membri degli Insensati che poi divennero anche Humoristi, e queste sue prime relazioni costituirono le basi che gli permisero di estendere in maniera proficua la sua rete di conoscenze anche ai membri appartenenti al cenacolo culturale di Palazzo Mancini.
Per approfondire ulteriormente quanto fossero importanti le relazioni tra il Caravaggio e gli appartenenti a queste due congregazioni culturali possiamo anche osservare che i poeti che celebrarono le sue opere facevano tutti parte di queste due accademie: Murtola era un insensato, Milesi e Giovanni Zaratino Castellini facevano parte degli Humoristi, e Marino apparteneva ad entrambe. Anche i pittori che lui stimava , i famosi “valent’huomini” citati da lui stesso nel famoso processo del 1603 appartenevano a queste due Accademie: Federico Zuccari e il Cavalier d’ Arpino fecero parte degli Insensati, mentre Annibale Carracci ed il Pomarancio furono Humoristi. Considerando poi che in concreto l’Accademia degli Humoristi, come fa giustamente notare Nardone, fu senza dubbio uno dei luoghi di aggregazione del potere più importanti della Roma dell’epoca, è del tutto naturale, per un pittore ambizioso come era Caravaggio, cercare di stabilire solide relazioni con i suoi membri, avvantaggiandosi delle entrature già acquisite con gli Insensati.
La matrice lombarda e quella romana
La matrice lombarda della sua pittura
Le caratteristiche della maniera con cui Caravaggio rappresenta le scene nei suoi dipinti sono chiaramente di matrice lombarda; dal punto di vista estetico le sue opere si apparentano soprattutto con quelle dei pittori bresciani e bargamaschi. La pittura del ‘500 di questa regione ha una personalità e una fisionomia ben definita all’interno del panorama artistico italiano, basta osservare un soggetto legato alla realtà come sono i ritratti e confrontare quelli realizzati dal Moroni ( Fig. 1), dal Savoldo (Fig.2)
o anche dal Moretto con la ritrattistica del Pulzone (Fig.3) o dell’ Arpino (Fig.4) per capire tutta la distanza che divide la Lombardia da Roma.
La precisione realistica dei dettagli, la definizione nella resa della luce che è ben distinguibile in tutte le sue varie declinazioni, la naturalezza della posa e dell’espressione, per non parlare poi della morbidezza palpabile delle carni e della resa dello spazio, rendono il panorama lombardo molto diverso dall’artificioso ed immaginario mondo tardo manieristico; la continua ricerca dell’aderenza alla realtà divide in maniera piuttosto netta la pittura lombarda dal mondo pittorico astratto del centro Italia alla fine del ‘500.
Questo vale non solo per i canoni generali della rappresentazione ma anche per quello che concerne la scelta dei soggetti rappresentati, infatti l’interesse per il realismo spinge i lombardi a ritrarre anche persone sgraziate o malate come nel caso delle persone affette dal gozzo come vediamo in questo dipinto del Peterzano (Fig.11), o dai tratti visibilmente brutti quasi caricaturali che affollano senza alcuna difficoltà i dipinti dei Cremonesi o quelli degli appartenenti alla accademia milanese dei Rabisch, il principio greco del bello e buono (kalos kai agathos) è qui completamente abbandonato.
E’ con questo bagaglio culturale e soprattutto visivo sulle spalle che Caravaggio approda a Roma e si può ben comprendere dunque quali pensieri e quale meraviglia suscitasse la sua arte nelle menti degli artisti di quella città; la sua idea di che cosa la pittura dovesse rappresentare ed i mezzi espressivi da lui utilizzati erano del tutto differenti e nuovi rispetto a quanto gli artisti romani avevano potuto sperimentare fino ad allora. I capisaldi fondamentali e le differenze della pittura lombarda nei confronti di quella romana sono talmente chiari ed riconoscibili nell’arte del Merisi, che emergono perfetttamente delineati dalle parole del Bellori:
”E perché egli aspirava all’unica lode del colore, sichè paresse vera l’incarnazione, la pelle e il sangue e la superficie naturale, a questo solo volgeva intento l’occhio e l’industria, lasciando da parte gli altri pensieri dell’arte… né cessavano di sgridare il Caravaggio e la sua maniera, divulgando ch’egli non sapeva uscir fuori dalle cantine, e che, povero d’invenzione e di disegno, senza decoro e senz’arte, coloriva tutte le sue figure ad un lume e sopra un piano senza degradarle: le quali accuse però non rallentavano il volo alla sua fama …
Molti nondimeno, invaghiti della sua maniera, l’abbracciavano volentieri, poiché senz’altro studio e fatica si facilitavano la via al copiare il naturale, seguitando li corpi vulgari senza bellezza. Così sottoposta dal Caravaggio la maestà dell’arte, ciascuno si prese licenza, e ne seguì il dispregio delle cose belle, tolta ogni autorità all’antico e a Rafaelle, dove per la comodità de’ modelli e di condurre una testa dal naturale, lasciando costoro l’uso dell’istorie che sono proprie de’ pittori, si diedero alle mezze figure, che avanti erano poco in uso. Allora cominciò l’imitazione delle cose vili, ricercandosi le sozzure e le deformità, come sogliono fare alcuni ansiosamente: se essi hanno a dipingere un’armatura, eleggono la più rugginosa, se un vaso, non lo fanno intiero, ma sbeccato e rotto. Sono gli abiti loro calze, brache e berrettoni, e così nell’imitare li corpi si fermano con tutto lo studio sopra le rughe e i difetti della pelle e dintorni, formano le dita nodose, le membra alterate da morbi.”.
Possiamo ben capire da queste parole quale fosse il punto di vista: egli aveva un concetto molto diverso di quali fossero gli scopi della pittura ed i soggetti adatti ad ottenere questi scopi. Le caratteristiche pittoriche lombarde che abbiamo appena sopra elencate sono facilmente osservabili nelle opere del Merisi e costituiscono gli elementi distintivi che legano tutti i suoi dipinti. Il Caravaggio conserverà non solo le modalità realistiche della rappresentazione tipiche della pittura lombarda, ma conserverà anche nella sua memoria tutte le forme, le idee e gli esempi che aveva avuto modo di vedere durante la sua giovinezza, insomma le sue radici giovanili rappresentano un lascito solido e profondo su cui si appoggerà la sua pittura in maniera duratura durante tutte le fasi della sua carriera.
La matrice romana
Accanto al robusto realismo lombardo conosciuto in gioventù si fa strada un’altra vena di ispirazione questa volta di tipo classico, frutto della esperienze successive cioè delle cose che l’artista vide dopo il suo trasferimento a Roma, a cominciare dalla statuaria romana e dalle straordinarie opere dei maestri di pittura che adornavano la città. Il lombardo riprende questi esempi perchè è ben conscio del loro importante valore iconico anche se a parole apparentemente dichiara il contrario e cioè di non volersene curare affatto. In realtà molto probabilmente non ne rifiutava valore, quello che non sopportava era piuttosto l’atmosfera di irrealtà, quello sorta di mondo inesistente nel quale tali modelli erano normalmente collocati dalla pittura manierista, ossia il contesto astratto della loro rappresentazione, questo infatti andava apertamente in conflitto con il suo istinto verso il realismo di matrice lombarda. Per questo motivo egli in concreto ne utilizza le forme e le posture, calandole però nella realtà, facendole diventare di carne e sangue.
Come potremo verificare durante lo svolgimento di questo capitolo, il Caravaggio ha fatto ampio ricorso a queste immagini, soprattutto a quelle create da Michelangelo, rappresentandole però realisticamente, come se fossero persone che popolavano le strade di Roma; per fare questo e cioè rendere queste forme vere, metteva probabilmente nella stessa posa degli esempi classici dei modelli in carne ed ossa, li vestiva alla moda dell’epoca e poi li ritraeva: i lineamenti dei personaggi da lui rappresentati sono dunque diversi dalla perfezione immutabile ed apollinea degli originali, al contrario di questi essi sono invece persone reali con i loro difetti, tutto deve essere realistico e perfettamente riconoscibile come tale da chiunque, tutto questo con l’obiettivo di persuadere lo spettatore di trovarsi di fronte esattamente alla apparenza della realtà.
In questa sua posizione possiamo intravedere in controluce lo stesso atteggiamento mentale tenuto dal Lomazzo ed il suo richiamo alla verità del realismo più concreto, che si oppone ai “sofismi dei pedanti”. Anche la maniera del Caravaggio di personalizzare ed “attualizzare” questi esempi ideali risponde alle linee guida tracciate dal Lomazzo nel suo Trattato, come vedremo in dettaglio più avanti.
Le opere pubbliche
La cappella Contarelli
Il volgere del nuovo secolo costituisce un passaggio fondamentale per la carriera del Caravaggio; l’assegnazione dei dipinti della cappella Contarelli è la prima opera pubblica di rilievo che gli viene affidata e questa prima commissione sarà il trampolino di lancio per la definitiva affermazione del pittore; per mezzo di questi lavori e con la sua innovativa maniera di dipingere raggiungerà la fama, infatti già dalla commissione successiva, quella relativa alla cappella Cerasi nel settembre del 1600 egli viene descritto come “Egregius in Urbe pictor”(44) e negli negli avvisi pubblici relativi a questa cappella del maggio del 1601 viene definito “famosissimo pittore” (45 ), come logica conseguenza di questa notorietà gli vennero affidate altre commesse pubbliche importanti che subito fecero seguito a queste prime due.
Le opere della Contarelli furono un raggiungimento determinante per lo sviluppo del suo modo di dipingere, che proprio nel corso della loro realizzazione arrivò a definirsi completamente e pervenne ad un tale grado di maturazione che fece uscire allo scoperto tutta la portata rivoluzionaria delle sue idee sulla pittura. Il ciclo della Contarelli ed in particolare il Martirio di San Matteo (323×343 cm.), segnano una svolta capitale e definitiva nella pittura del ‘600, il suo sconvolgente realismo, il contrasto luminoso della luce, la sua violenta espressività ebbero conseguenze definitive sulla pittura del secolo; queste tele fecero un gran rumore in città e dopo che furono esposte tutti i pittori dell’Urbe si recarono a vederle incuriositi dalla novità.
Per quanto riguarda la storia di questa impresa decorativa sappiamo che la cappella fu acquistata da monsignor Contarelli nel 1565 ed alla sua morte non era ancora stata addobbata, toccò quindi ai suoi esecutori testamentari, i Crescenzi, assolvere questo compito. Il Baglione ci dice che il pittore ottenne la commissione per intercessione del cardinal del Monte e questa è una notizia attendibile dato che anche il cardinale fu un esecutore testamentario del Contarelli e conosceva molto bene i Crescenzi.
In un primo tempo essi affidarono gli affreschi a Girolamo Muziano, poi al Cavalier d’ Arpino che però tardava a portare a termine la sua opera, facendo crescere il nervosismo della congregazione di San Luigi che sovraintendeva alla chiesa; a questo punto intervenne il Pontefice trasferendo le decisioni in merito all’esecuzione dei lavori alla reverenda fabbrica di San Pietro nella persona di Berlingiero Gessi, un ecclesiastico bolognese gravitante nell’orbita del cardinal Paleotti, che favorì proprio il Caravaggio come esecutore della commessa. Il contratto venne firmato da Pietro Paolo Crescenzi nel luglio del 1599, i dipinti furono terminati nel giro di un anno circa, i soggetti rappresentati dovevano essere la Chiamata di San Matteo ed il Martirio di San Matteo ( Fig.12) che secondo la tradizione fu ucciso sull’altare da un sicario del re d’Etiopia Istarco mentre officiava una messa. Al Caravaggio venne poi successivamente affidato anche il terzo quadro della Cappella quello dell’altare che doveva raffigurare san Matteo nell’atto di scrivere il Vangelo guidato da un Angelo.
Le due tele suscitarono molto clamore in Roma, probabilmente soprattutto il Martirio, a causa del suo eclatante realismo e della sua violenza: la azione della scena è organizzata per mezzo di un moto centrifugo che amplifica la veemente energia della rappresentazione, e serve ad aumentare il disorientamento emotivo dell’osservatore; dal punto di vista della sua struttura organizzativa la scena fa ricorso anche all’incrocio delle diagonali.
Volendo ora cercare di approfondire le matrici culturali dell’opera, potremo accorgerci del rapporto di filiazione tra la rappresentazione centrale di questo dipinto ( Fig.13) e il primo piano sinistro dell’affresco del Cristo inchiodato realizzato dal Pordenone nella cattedrale di Cremona (Fig.14).
Fig.13 Caravaggio, Martirio di San Matteo, Particolare ; Fig.14 Il Pordenone, Cristo inchiodato, affresco, particolare, Cremona, Cattedrale
Identica è la posizione dello sgherro con la bocca aperta nell’atto di urlare, il carnefice avanza sulla persona stesa a terra e la domina scavalcandone il corpo, la sua mano destra impugna un spada pronta a colpire, mentre l’altra mano tiene saldamente la sua vittima che cerca di alzare il braccio per trovare riparo; sempre nell’affresco alla loro sinistra troviamo anche il busto di uno spettatore che spunta di tre quarti in diagonale allargando le braccia con la bocca aperta per il terrore o lo stupore, mentre sopra di lui spunta la testa barbuta di un ulteriore osservatore che scruta gli avvenimenti, tutto esattamente come accade anche nella scena della tela di San Luigi.
La figura seminuda che sta al di sotto di questo gruppo ( Fig. 15) invece pare piuttosto discendere da quella posta sul lato destro alla base della Ascensione nella Scuola grande di San Rocco del Tintoretto ( fig.16), forse per il tramite dalla Incoronazione di spine ( 1583) di Giovanni da Monte che ebbe frequentazioni veneziane e fece ritorno da Praga in Italia nel 1583 e quindi può benissimo aver visto l’opera del Tintoretto ( 46 ).
Fig 15 Caravaggio, Martirio di san Matteo, particolare; Fig. 16 Tintoretto, Ascensione, particolare, olio su tela, Scuola Grande di san Rocco, Venezia
Il soldato (Fig.17) disteso di traverso, che si appoggia sulle braccia e sta con le gambe in posizione incerta e complessivamente in equilibrio precario, potrebbe aver influenzato la strana posa della figura in basso a sinistra nel San Matteo. L’opera del da Monte rientra nel contesto culturale delle Angeliche di San Paolo Converso di Milano ( 47 ), un cantiere molto importante dove lavorarono sia i Campi che Simone Peterzano è quindi naturale che il Caravaggio conoscesse il quadro.La figura del Tintoretto dovette essere notata anche da Annibale Carracci, che utilizza questa idea per un soldato della sua Resurrezione del Louvre ( Fig.18).
Vi è ulteriormente da notare che Giulio Bora collega al dipinto di da Monte, un’altra opera di Annibale Carracci la sua Incoronazione di spine ad acquaforte ( Fig.19) ( 48) almeno per quanto riguarda lo sgherro con i guanti di ferro (Fig.20) ideato dal lombardo ( 49 ).
A questo riguardo si deve tuttavia notare che anche un affresco di Marcello Venusti (Fig.21) può essere servito per la realizzazione di questa incisione che appunto appartiene al periodo romano di Annibale, la stessa figura compare infatti in un suo dipinto in Santa Maria Sopra Minerva ( 50) a Roma.
Ritornando ora al duomo di Cremona ed alla crocefissione del Pordenone che adorna la controfacciata, potremo scorgere sulla sua destra un ragazzo che fugge con il busto e le mani protese in avanti e la testa rivolta all’indietro verso la scena principale ( Fig.22), questa figura rappresenta un valido precursore per il ragazzo che fugge, ugualmente posto all’estrema destra nel Martirio di San Matteo del Caravaggio. Inoltre appena sopra di lui vi e un monaco intento nel gesto della enumerazione, che pure servirà da spunto per un altro dipinto realizzato dal Caravaggio per la Cappella Contarelli, la seconda versione del San Matteo e l’angelo che qui compie lo stesso gesto del monaco (Figg. 23 – 24)
Fig 22 Caravaggio,Martirio di san Matteo, particolare; Fig. 24 Caravaggio San Matteo e l’angelo, particolare, olio su tela, Roma, San Luigi dei Francesi
Sempre nell’ affresco del Pordenone il cavallo bianco imbizzarrito visto da terga che volge la testa indietro (vedi Fig. 22), potrebbe esser servito da spunto per la posizione del cavallo nella prima versione della Caduta di San Paolo della Cerasi.
Ricordiamo a proposito degli affreschi del Pordenone, che il paese di Caravaggio faceva parte della diocesi di Cremona e che suo fratello Giovan Battista Merisi era un ecclesiastico che ricevette dal vescovo la tonsura proprio nella città di Cremona e dunque il Caravaggio dovette per forza vedere gli affreschi della Cattedrale.
Rimane da fare una ulteriore osservazione che riguarda gli affreschi cremonesi del Pordenone, nei quali egli dispone alcuni elementi della scena in modo da dare l’illusione che escano dal piano della tela per entrare in quello dell’osservatore. Caravaggio dovette anche lui riflettere sull’utilizzo di questi espedienti prospettici proprio durante l’esecuzione dei dipinti Contarelli: lo si vede nello sgabello rimasto in bilico sul piano di appoggio su cui si sorregge il San Matteo nella seconda redazione della pala sull’altare: infatti lo sgabello sembra oltrepassare lo spazio del quadro per invadere quello dell’osservatore, proponendosi dunque come trait d’union tra i due ambienti, riproponendo dunque la stessa idea usata dal Pordenone nei suoi affreschi.
Questo concetto introdotto dall’artista friulano è piuttosto interessante, infatti l’artista si interroga sul rapporto esistente tra lo spazio rappresentato nel dipinto e quello reale del luogo dove esso è posto. Questo problema fu tenuto in considerazione e ben compreso dal Caravaggio, infatti il legame tra lo spazio rappresentato e quello reale sarà una delle questioni fondamentali a cui cercherà di dare risposta il pittore lombardo. Ora a conti fatti se escludiamo la figura di schiena posta a destra che invece riprende un modello antico, il primo piano del martirio di San Matteo deriva da modelli generati dall’ ambiente culturale cremonese.
Queste considerazioni sul Martirio di San Matteo ed il ciclo della Contarelli invitano a riflettere in maniera ponderata sulla ampiezza e sulla durata della influenza della pittura lombarda sul Merisi ed in particolare di quella di ambiente cremonese. A ben osservare anche i diversi strumenti musicali che giacciono ai piedi dell’Amore Vincitore probabilmente provengono da una invenzione di Antonio Campi, la Allegoria della città di Cremona ( Fig.25), che fa parte del libro celebrativo della città: Cremona Fidelissima, come già evidenziato da Calvesi nel suo testo Le Realtà del Caravaggio ( 51). Mentre l’apostolo disteso che occupa tutta la lunghezza del dipinto nella perduta Orazione nell’orto di Berlino (Fig.26) ricalca la postura della rappresentazione simbolica del fiume Adda contenuta nella stessa stampa, probabilmente anch’essa fu derivata dalla figura di una di divinità fluviale romana come ad esempio quella che adorna la piazza del Campidoglio, che anche il Caravaggio dovette conoscere.
Appare ora del tutto evidente come le invenzioni dell’ambiente artistico cremonese abbia fortemente inciso e lasciato un ricordo duraturo nella memoria del Caravaggio. Senza dilungarci troppo ricordiamo come durante lo svolgimento dei nostri saggi abbiamo già avuto modo di apprezzare l’apporto di Antonio e Vincenzo Campi nel caso dell’affresco Ludovisi, le suggestioni della Sant’ Agata in carcere realizzato da Giulio Campi per quanto riguarda la Medusa, così come il Fanciullo morso da un granchio di Sofonisba Anguissola rappresenta un valido antecedente per il Ragazzo morso da un ramarro. Diventa del tutto logico allora ricercare nelle fruttivendole che portano le ceste di frutta o sbucciano un pomo di Vincenzo Campi, gli spunti visivi per il Fruttarolo o Mondafrutto ( 52 ). Del pari è da considerarsi coerente vedere i precursori della Fiscella nelle ceste di frutta e verdura di sempre di Vincenzo come quella conservata a Brescia nella collezione Faroni, ( 53 ) o nel piatto con le pesche del milanese Ambrogio Figino ( 54 ).
Ancora in lombardia e nello specifico alle invenzioni del bresciano Romanino abbiamo dovuto rifarci per spiegare soggetti come quelli dei Bari, o al Lomazzo ed il suo autoritratto per giungere al Bacchino malato senza tralasciare ovviamente gli innumerevoli spunti ripresi dal suo maestro: il Peterzano. Insomma le invenzioni iconografiche della pittura lombarda furono per Merisi indubbie protagoniste della sua maniera di fare arte, come del resto è del tutto logico aspettarsi.
Accanto a queste fondamentali suggestioni compaiono i più recenti (nella sua memoria visiva) influssi della cultura romana di cui riconosciamo un rilevante esempio nel personaggio posto di schiena sulla destra del Martirio di san Matteo (Fig.27) che è da mettere in relazione con una scultura antica di epoca romana, quella del Galata morente (Fig.28) di cui ancora oggi esiste un esemplare a Roma conservato ai Musei Capitolini.
Questa statua proviene dalla raccolta Ludovisi e fu ritrovata negli Horti Sallustiani su cui sorge villa Ludovisi dove Caravaggio realizzò il suo affresco con gli dei; questo modello verrà utilizzato dal Pittore anche per un’altra opera più tarda realizzata a Napoli, le Sette Opere di Misericordia.
Una alternativa altrettanto valida per questa figura è quella posta alla estrema destra nel Miracolo dello schiavo del Tintoretto ( Fig.29) , che come nel dipinto Contarelli si appoggia su di un panno, forse anch’essa è debitrice della scultura romana. Probabilmente anche la posa dell’angelo con la palma che nel Martirio si appoggia in alto sulle nubi ( Fig.30) è stata presa da un altro maestro che operava a Roma e cioè dalla Adorazione dei Magi di Taddeo Zuccari da cui Cornelis Cort trasse una incisione (1529 ) che vediamo qui in foto ( Fig.31), anche l’angelo col cartiglio della perduta Natività realizzata dal pittore a Palermo ( Fig.32) si dimostra debitrice in controparte dell’angelo col cartiglio di Cort-Zuccari.
Ma è soprattutto nel dipinto in contraltare: la Chiamata di Matteo ( 322×340 cm.) ( Fig.33) che gli esempi antichi assumono una particolare importanza;
in questa opera prosegue il dialogo- confronto con Michelangelo, infatti la gestualità delle mani di Matteo e del Cristo riprendono quelle dipinte dal fiorentino nella Creazione di Adamo della Cappella Sistina ( Fig.34), in questo caso però a parti invertite.
Questa scelta è dotata di un forte valore simbolico dato che il gesto di Adamo diventa nel dipinto il gesto compiuto dal Cristo, mentre quello di Dio si trasforma qui in quello di Matteo. Cristo infatti è il Dio che si è incarnato e si è fatto uomo, egli perciò è dal punto di vista scritturale il nuovo Adamo come viene denominato appunto da San Paolo nel Cap. 5 della Lettera ai Romani e nel Cap. 15 della Prima lettera ai Corinzi.
Gesù è venuto per riportare l’uomo dopo il peccato che lo ha corrotto, alla sua condizione primigenia di perfezione, infatti come dice il Cristo nel “Vangelo di Giovanni” Cap.10 ”Voi siete Dei” (riprendendo il Salmo 82). Questo è il motivo per cui i gesti sono stati invertiti, Cristo è il Dio che si è fatto uomo ed è venuto a trasformare gli uomini in dei a sua immagine e somiglianza.
Cristo è anche la Luce che squarcia le tenebre e viene ad illuminare il mondo, a risvegliare il divino che è nell’uomo, rendendolo di nuovo cosciente della sua vera natura, non più servo ( del peccato) ma erede. Nel preciso momento in cui Matteo viene chiamato dal Cristo egli viene anche illuminato dalla luce, come si vede dal raggio divino che si stampa sulla parete, e come poi accadrà anche nel caso della Caduta di San Paolo della Cerasi, Gesù è la Luce che annienta le tenebre e scopre la verità; questo schema simbolico verrà ripetuto dal Caravaggio anche nella siciliana Resurrezione di Lazzaro.
Per quanto riguarda l’altra parte del dipinto e cioè la tavolata degli astanti, seguendo Sandrart viene chiamata generalmente in causa come precedente iconografico una stampa di Hans Holbein, mi pare però complessivamente più avvicinabile alla parte sinistra di un dipinto del Tintoretto: l’Ultima cena di San Marcuola (Fig.35). Possiamo notare le somiglianze nella persona di spalle seduta in primo piano che si appoggia con la mano sullo sgabello che ha pure una forma molto simile a quello dipinto dal Caravaggio, gli altri personaggi sono chini sul tavolo mentre nell’angolo un’altra persona sta in piedi ed osserva attentamente ciò che sta accadendo sul tavolo, tutti atteggiamenti e pose che ritroviamo anche nel dipinto del Merisi.
Al Caravaggio verrà successivamente commissionata anche la terza tela presente nella Cappella, quella che adorna l’altare, si tratta del san Matteo che scrive il vangelo, guidato dalla mano di un angelo, un gesto che potrebbe essere stat0 suggerito da un dipinto di Sofonisba Anguissola. La prima versione di questo tema realizzato dal Caravaggio per l’altare centrale della Cappella fu rifiutato dalla committenza e successivamente fu comprato dal Giustiniani, purtroppo andò distrutto nel corso della seconda guerra mondiale. La prima versione del San Matteo che scrive il vangelo (Fig.36) appare nel suo complesso debitrice degli esempi di Raffaello, del Pitagora raffigurato nella scuola di Atene o di un affresco della Farnesina (Fig.37) od in alternativa di un dipinto con lo stesso soggetto ed il relativo disegno di un angelo realizzati dal suo maestro il Peterzano.
L’ultima opera di questo ciclo fu la versione definitiva del San Matteo e l’angelo ( 296,5×195 cm.) (1602) (Fig.38) posta sopra l’altare, questo sembra piuttosto prendere l’abbrivio dalle comuni rappresentazioni di San Girolamo che scrive al tavolo come ad esempio quella del Veronese nella Gallerie dell’Accademia ( Fig.39).
Mentre la forma dell’angelo incorniciato dal tondo delle sue morbide vesti può ricordare le invenzioni dell’affresco sistino di Michelangelo o dei contemporanei manieristi come gli Zuccari o quelle di Gaudenzio Ferrari (Fig.40) che il Lomazzo nel suo Trattato indica come l’ esempio a cui far riferimento per la foggia dei panni:
“E si veggono ben fatti e probabili senza che si vedano certi storpiamenti, come eccellentemente fece Gaudentio che tenne una certa via nelle pieghe dei panni, che altro che lui non la poteva tenere, cioè una maniera conforme alla natura, e all’arte congiunta con lei;”( Trattato pag. 255).
Le possiamo osservare negli angeli da lui dipinti nella Crocefissione del Sacro Monte di Varallo o in quella Galleria Sabauda che fu un dipinto deteterminante per la pittura lombarda, così infatti su di esso scrive Testori:
”uno dei quadri fondamentali a intendere bene la prosecuzione della pittura in Piemonte ed Lombardia per più di un secolo…ogni studio sul manierismo del Nord-Italia deve, se non partire, certo passare per questa tempera e farne i conti dovuti “( 55).
A questo punto vale la pena fare una riflessione sul fatto che nel momento in cui il Caravaggio si trova ad affrontare per la prima volta tele di grandi dimensioni, cioè quei teleri che sono tipici della tradizione veneta; coincide anche il con momento in cui avviene una svolta radicale nella sua tecnica pittorica che, come vedremo fra breve, si avvicina proprio a uno dei più famosi creatori veneti di queste grandiose rappresentazioni: il Tintoretto. Inoltre come abbiamo potuto constatare durante l’analisi questo è anche il momento in cui emergono con più evidenza anche le suggestioni iconografiche dell’arte veneta.
Vi è a questo proposito una ulteriore considerazione da fare che riguarda il Martirio di San Matteo, l’organizzazione generale della scena scelta dal Caravaggio mostra una vicinanza non trascurabile con quella il Trasporto del corpo di san Marco (Fig.41) del Tintoretto ( 108x125cm.) conservato nei musei reali del Belgio.
Infatti si possono notare molte affinità, entrambe le tele sono state organizzate per mezzo dello stesso moto centrifugo dei personaggi che fuggono dall’azione centrale, mentre in primo piano distese per terra sono state poste due figure appoggiate su gradini che fungono da base per le due quinte laterali della scena, inoltre al centro sulle scale si può notare anche una stola di colore nero adornata di una coce d’oro simile come quella indossata da san Matteo nel dipinto del Caravaggio, a questi dati concreti si aggiunge il fatto che anche Tintoretto utilizza un intenso chiaroscuro per esaltare la drammaticità dell’avvenimento ( 56).
Michele FRAZZI Parma 12 Maggio 2024