Leggere Caravaggio XII. I dipinti pubblici; seconda parte: dalla Cappella Cerasi alla “Morte della Vergine”. Analisi e confronti inediti

di Michele FRAZZI

Continuando il discorso che riguarda le commissioni pubbliche di Caravaggio (Cfr., https://www.aboutartonline.com/leggere-caravaggio-parte-xi-il-1600-un-anno-determinante-il-giubileo-la-cappella-contarelli-laccademia-degli-humoristi/), i due quadri laterali della cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo: La Caduta di san Paolo e la sua Crocefissione costituirono la sua impresa successiva.

Per queste tele il  Caravaggio ricevette l’incarico il 24 settembre del 1600, subito dopo il gran “romore” causato dai teleri della Contarelli, il pittore firmò il contratto con il tesoriere di Papa Clemente VIII Aldobrandini, monsignor Tiberio Cerasi, le opere dovevano essere terminate nel termine di un anno. Come  avvenne anche nel caso del San Matteo e l’angelo  Contarelli le  prime versioni dei dipinti furono rifiutate; di queste prime versioni ci rimane solo La caduta di san Paolo (Fig.42) ( 237×189 cm.) ora di proprietà Odescalchi. Dopo il rifiuto le due opere vennero acquistate dal Cardinal Sannesio che ricopriva un altro incarico in seno alla Corte papale, quello di Segretario (57 ), le due versioni definitive invece vennero accettate e  si trovano ancora oggi in situ. Nella prima versione de La caduta di San Paolo realizzata su tavola sono ancora i cremonesi a tenere il campo, infatti osservando attentamente l’opera si scoprirà che deriva da una invenzione di Vincenzo Campi ( Fig.43) che influenzò il Caravaggio almeno per quanto riguarda la parte sinistra del dipinto.

Figura 42 Caravaggio, La caduta di San Paolo, versione Odescalchi, olio su tavola, 237×189 cm
Fgura 43, Vincenzo Campi, La Crocefissione, olio su tela, 197×137 cm, certosa di Pavia

Infatti il vecchio armigero  pare proprio derivare dall’omologo presente nel Cristo inchiodato alla croce di Pavia: lo dichiarano apertamente, la stessa postura, la stessa fisionomia del viso barbuto e perfino le stesse morbide piume: bianca quella centrale ed arancio le laterali, (58), mentre il san Paolo che è sdraiato a terra ricalca la posizione del carnefice del Campi anch’egli sdraiato a terra sotto il soldato; qui possiamo osservare anche il bel dettaglio dei guanti sdruciti che ritroviamo nel dipinto dei Bari, mentre proprio sotto il Cristo si trova un tasso barbasso, simbolo della sua luce del Cristo che lo abbaglia.

Per quanto riguarda invece la seconda versione di questo soggetto e cioè quella  definitiva della Caduta ( Fig.44) ( 230×175 cm.); questa potrebbe essere stata suggestionata da un affresco del Romanino conservato a Brenno ( Fig.45) che raffigura un soldato atterrato con il suo elmo rotolato al suo fianco, illuminato dal bagliore luminoso del un fuoco.

Figura 44, Caravaggio, Caduta di San Paolo, olio su tela, 230×175 cm., Santa Maria del Popolo, Roma
Figura 45 Girolamo da Romano (Romanino); affresco

Questa scena potrebbe essere servita anche a suggerire l’atmosfera luministica del dipinto, dove in maniera inconsueta non viene rappresentato il Cristo ma solo l’effetto della sua luce, ulteriori confronti utili possono essere stabiliti anche con la figura centrale del Miracolo dello schiavo del Tintoretto (Fig.46) e con  la Conversione di san Paolo di Taddeo Zuccari come suggerito da Hibbard ( Fig.47) ( 59) che il Caravaggio ebbe sicuramente modo di vedere.

Figura 47, Taddeo Zuccari, Caduta di San Paolo, olio su lavagna, particolare, San Marcello al Corso, Roma,
Figura 46, Tintoretto, il Miracolo dello schiavo, particolare, olio su tela, Venezia

Il dialogo con Michelangelo già visto nella Contarelli continua anche nella cappella Cerasi dove l’altro dipinto che l’adorna: il Martirio di San Pietro (Fig.48) (230×175 cm.)  appare proprio desunto specularmente dall’analogo affresco della Cappella Paolina ( Fig.49), osserviamo ad esempio l’ identica posa della figura inginocchiata nell’atto di sollevare la Croce e l’azione dei personaggi che avviene seguendo un andamento circolare, un dettaglio che il Caravaggio ha cercato di mantenere anche nel suo dipinto.

Figura 48,Caravaggio, Martirio di San Pietro, 230×175, olio su tela, Santa Maria del Popolo
Figura 49, Michelangelo, Martirio san Paolo, affresco, Cappella Paolina, Vaticano

Il pittore sempre attento e preciso anche nei dettagli e nell’utilizzo delle simbologie, pone una grossa pietra in primo piano che sembra proprio alludere al nome cristiano del santo: Pietro, come è stato avanzato da Hibbard ( 60).

La Deposizione

Nel caso della successiva commissione pubblica (1602-04) una Deposizione (Fig.50) (300×203 cm.) ritroviamo coinvolti alcuni vecchi estimatori del pittore, i Vittrice, Pietro il guardarobiere di Papa Aldobrandini e suo nipote Girolamo il sottoguardarobiere; occorre notare che questa fu l’unica commissione pubblica che non fece clamore o suscitò aspre critiche, anzi l’opera ebbe molti elogi e in questo caso il Caravaggio, forse per riconoscenza e per riguardo all’aiuto che gli fornirono quando era nel bisogno, oppure per il rispetto dovuto a Prospero, loro parente, evitò accuratamente che questa sua opera pubblica desse motivo di scandalo, a differenza di tutte le altre.

Anche questa pala a mio avviso è debitrice della sua formazione lombarda ed in particolare  di un lavoro conservato al museo di San Fedele realizzato dal suo maestro: il Peterzano: questa opera venne creata per la chiesa di san Fedele tra il 1584 ed il 1588, cioè durante gli anni di apprendistato del Caravaggio che quindi ebbe certamente occasione di vederla. Se osserviamo  la sua Deposizione (Fig.51) potremo trovare diverse assonanze, in primo luogo nella figura della Vergine, nell’atteggiamento del suo volto e nella gestualità delle braccia aperte, ma anche nella figura del Cristo,  con il viso un poco largo; in entrambi i casi il suo corpo è dotato della  stessa perfetta definizione anatomica, ma cambia di posizione, il Merisi lo ruota verso l’alto ponendolo in parallelo rispetto al terreno, le gambe invece di appoggiare sulla pietra sono sostenute dal ginocchio da Giuseppe, mentre  il suo braccio cade identicamente a piombo sulla lastra di pietra del sepolcro che è ugualmente posta di traverso con la cuspide  rivolta in direzione dell’osservatore.

Figura 50, Caravaggio, Deposizione nel sepolcro, olio su tela, 300×203 cm. Musei Vaticani
Figura. 51 Simone Peterzano, Deposizione. olio su tela, chiesa di San Fedele, Milano

Anche l’atteggiamento della Maddalena ripiegata su sé stessa mentre appoggia la testa reclinata sul fazzoletto e sulla mano del Cristo, mi pare simile a quello adottato dalla  figura centrale nel quadro del Merisi, così come anche la terza delle Marie con le braccia  e gli occhi rivolti al cielo mostra similitudini con l’atteggiamento del San Giovanni posto a destra  nel dipinto del Peterzano, anch’egli  con gli occhi rivolti al cielo e le braccia aperte.

Questa posa in realtà è simile a quella di un’altro san Giovanni dipinto dal Merisi pochi anni prima, quello dipinto nella Presa di Cristo Mattei. Il confronto con il suo maestro sullo stesso tema ci fornisce la possibilità di comprendere ulteriormente tutta la distanza che esiste tra la pittura dei tardo manieristi e l’invenzione pittorica del Caravaggio che rivoluziona totalmente gli strumenti e gli scopi dell’arte: se i primi mirano alla piacevolezza estetica e ricercano la bellezza lontana di un ideale che non esiste in natura, tutto il contrario avviene nell’arte del genio di Lombardia che non aderisce a null’altro che non sia la verità del reale e si cura solo del risultato che questa è in grado di suscitare sulle emozioni dell’osservatore. Sebbene nei due dipinti vi siano quelle affinità di cui abbiamo appena parlato, la distanza tra i due concetti di pittura è evidente ed amplissima.

In primo luogo vi è una sostanziale differenza nella gestione della luce, in entrambi i casi la scena si svolge in uno spazio buio, ma se in Caravaggio la distribuzione delle luci e delle ombre è perfettamente precisata e del tutto veritiera, non altrettanto avviene nell’opera del Peterzano, dove la luminosità serve solo a definire le forme e la sua distribuzione è irrealistica, artificiale. Questo dato si riflette anche sulla scelta dei colori: nel dipinto del Caravaggio la luce calda e gialla funziona da dominante, da sottofondo, e fa virare tutto verso toni terrei, l’opposto avviene in Peterzano che non preoccupandosi affatto degli effetti che la luce provoca sulle forme la distribuisce in modo immaginario con il risultato di utilizzare dei colori attraenti e brillanti che non si potrebbero vedere dal vivo.

Per quanto riguarda i vestiti, in Caravaggio viene mostrata la  diversa consistenza di ciascun tessuto, le loro pieghe sono casuali, sgraziate e si adattano solo parzalmente alla forma dei corpi sottostanti avendo essi stessi una loro propria forma, che interagisce con quella del loro possessore. Questo fenomento si vede benissimo nel Giuseppe d’Arimatea in primo piano che sembra quasi deforme ed il suo vestito un sacco che lo contiene. In Peterzano invece tutte le pieghe sono di una perfezione esemplare, sembrano appena inamidate e seguono percorsi ben precisi ed aggraziati c’è come una sorta di armonia geometrica che tutte le guida, le armonizza ed unifica il loro andamento in modo immaginario.

La differente concezione della luce e della sua funzione all’interno dei dipinti si riflette anche sulle carnagioni  dei personaggi, tutte realistiche in Caravaggio; ad esempio si noti l’abbronzatura che ricopre il volto del Giuseppe o le rughe di Maria, l’opposto avviene in Peterzano dove le carnagioni sono tutte uniformemente pallide e brillanti, la pelle è tutta tirata, non una ruga, non una grinza solca i loro volti da statue di marmo la cui brillante compattezza ben si accorda a quella delle vesti. La stessa cosa riguarda le loro espressioni, affettate, in posa, viste tante volte in altri dipinti; se si distoglie per un attimo lo sguardo non ci si ricorda nemmeno di uno di quei volti che non hanno saputo incidere per nulla sulle nostre emozioni, non hanno saputo toccare il nostro animo. Tutto l’opposto avviene in Caravaggio dove è impossibile cancellare dalla memoria lo sguardo scrutatore di Giuseppe d’Arimatea, un gigante ben piantato sulle sue gambe tozze, rese scabre dalle pieghe della pelle e dal disegno delle vene, le sue gambe con la loro palpabile consistenza sanno incidere sul nostro animo e servono a renderci presente il vissuto di quest’uomo, e proprio esse, poste in primo piano, diventano le protagoniste del dipinto, così come la sua faccia abbronzata e rugosa dallo sguardo così umano ed intenso.

Insomma Caravaggio dipinge uomini in carne ed ossa e non statue frutto di un ideale inesistente; tutto nella sua arte è orchestrato e si deve accordare al principio guida del realismo: luce, colori, atteggiamenti non sono più la libera espressione del gusto e della fantasia del pittore ma devono rimanere entro i limiti che vengono loro imposti dalla realtà, in questo modo si passa da una concezione di pittura che ha il suo pregio nella ricerca della bellezza estetica, nella piacevolezza, ad un capolavoro tragico che fortemente ci impressione e segna profondamente chi lo guarda.

Due parole infine sulle simbologie che sono presenti nell’opera. In basso sotto la pietra del sepolcro troviamo il tasso barbasso simbolo della luce del Cristo che scompare nel tumulo nell’ attesa della resurrezione, mentre in alto a destra scorgiamo una pianta di fico con le sue foglie verdi; nel Vangelo il fico, come anche la vite,  è  la pianta che deve portare frutto, quando questa comincerà a dare i suoi rutti e cioè quando il suo ramo metterà le foglie allora vi sarà il secondo avvento di Cristo sulla terra ed anche il giudizio finale, come descritto nel Vangelo di Marco:

Dal fico imparate questa parabola: quando gia il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l’estate è vicina; così anche voi, quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, alle porte.” (Cap.13, 28).

Nel dipinto quindi è contenuta anche la prefigurazione della resurrezione e del secondo ritorno del Cristo, simboleggiata dal fico con le foglie verdi. Infatti il dipinto è stato descritto con questi intrinseci valori simbolici anche in una epigrafe che gli fu dedicata  dal padre teatino Giuseppe Silos nella sua Pinacotheca sive Romana pictura:

Vedi andare verso il pegno d’amore degno di pietà del sepolcro del Signore esanime, pegno eterno e degno di pianti./Dopo la rabbia degli uomini, dopo le ferite del duro ferro/lo accolgono i freddi sassi nell’aspra cavità/Così desideroso e così senza dubbio fu assetato di dolori che anche se morto rimase quella sete./Ma tu, chiunque sia, guardi che mentre un Dio degno di compianto viene seppellito /E risolve la sciagura accanto a Dio/Non credere che sia morto; Così il pittore esprime la sua arte cosicchè l’esanime (Gesù) tu già ritieni risorto.( 61).

Nel dipinto scorgiamo anche numerose grosse pietre, che tengono sollevata e bilanciano la gigantesca pietra posta d’angolo, anche in questo caso sono simboliche del Cristo infatti anch’egli è una pietra: “la pietra d’inciampo, il sasso di scandalo, la testata d’angolo” ( I Lettera di Pietro, cap. 2) ed in conseguenza di questo anche la lastra di Pietra sulla quale si svolge la scena è posta ad angolo rispetto all’osservatore ed ha la stessa forma angolare di quella che viene utilizzata per simboleggiare appunto il Cristo nella terza incisione della Caduta dell’uomo di Wierix (come è scritto appunto a chiare lettere nella stampa) e dunque anche la sua forma e la sua posizione rivestono un significato dal punto di vista simbolico assolutamente preciso.

La Madonna dei Pellegrini

Il successivo dipinto pubblico: La Madonna dei pellegrini ( Fig. 52) fu commissionato da Orinzia de’ Rossi alla fine del 1603, forse seguendo l’ indicazione del defunto marito: il marchese Ermete Cavalletti, che apparteneva anch’egli ai ruoli della famiglia del Papa, con l’incarico di Computista della Camera Apostolica ( 62) l’opera fu consegnata prima del 2 marzo 1606 ( 63).

Figura 52 Caravaggio, Madonna di Loreto (o dei Pellegrini) 1604, basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio, Roma

Nel dipinto che raffigura la Madonna di Loreto a cui il Cavalletti e sua moglie erano devoti, vediamo la Vergine in piedi posta sullo stipite di una porta che con forza e stabilità monumentale domina lo spazio del quadro. Per la sua particolare postura si possono citare due esempi, in primo luogo la scena di Cimone e Pero (Fig.53) dipinta da Perin del Vaga a Palazzo Doria, che il Caravaggio vide durante la sua fuga a Genova nel Luglio-Agosto 1605; la protagonista posta di lato sta appoggiata sullo stipite, questa volta di una finestra e reclina  la testa verso il basso come accade nel dipinto.

Sicuramente il pittore dovette vedere questo affresco di cui si ricorderà anche successivamente quando a Napoli dipingerà la stessa identica scena di Cimone e Pero nell’ambito delle Sette Opere di Misericordia; anche in questo caso infatti la figlia allatta l’anziano padre barbuto attraverso una grata.

Figura. 53, Perino del Vaga, Cimone e Pero, affresco, Palazzo Doria, Genova
Figura 54, Thusnelda, Loggia dei Lanzi, Firenze

In secondo luogo si può citare la statua romana della Thusnelda (Fig.54), da cui anche Perin del Vaga trasse esempio,  che attualmente è conservata sotto la loggia dei Lanzi a Firenze ma che all’epoca si trovava a Roma, a villa Medici (64 ).

Ai piedi della Madonna si trovano inginocchiate due figure molto realistiche di pellegrini in atto devozionale, dotati dei caratteristici e necessari bastoni; i loro piedi appaiono sporchi e anneriti dalla polvere presente nelle strade come appunto accade ai veri pellegrini che arrivavano nella città. Caravaggio sceglie ancora una volta di aderire perfettamente al principio del  realismo non solo nelle figure dei due fedeli ma anche nell’ambientazione, che è costituita da un  muro privo di intonaco e di uno stipite sbeccato, una scena che potrebbe essere quello che si vede normalmente nell’angolo semibuio di un vicolo romano.

Questa raffigurazione della Madonna farà anch’essa scalpore a Roma ed attirerà molte critiche a causa del particolare dei piedi sporchi e dei panni sdruciti e consunti dei due pellegrini, che non apparivano decorosi all’interno di una chiesa. Un’ultima nota per dire che il bambino che la Madonna tiene in braccio è dotato di una spiccata e quasi ingombrante fisicità ed appare un po’ troppo cresciuto rispetto alle sue comuni rappresentazioni; forse questo fu dovuto ad una ripresa dal vivo, ma anche in questo caso esiste almeno un precedente si tratta della Madonna col  Bambino di Tiziano conservata a Monaco, che mostra delle interessanti consonanze anche con la struttura della Madonna di Orazio Gentileschi conservata alla Galleria Corsini.

Nelle peculiarità rappresentative e nelle caratteristiche dell’ambiente in cui si svolge la scena realizzata da Caravaggio vediamo qui emergere con sempre maggiore insistenza le sue radici lombarde, egli prende ancora una volta come riferimento questa cultura dove si parte dal presupposto che la riproduzione del brutto non è una cosa da evitare ma è una parte accettata della vita quotidiana, senza censure o tagli, e questo al  mondo idealizzante della contemporanea cultura classicista non poteva certo andare bene e quindi venne disprezzata. Il buon realismo lombardo appare con tutto il  suo vigore soprattutto nelle figure dei pellegrini con i vestiti poveri e i piedi sporchi, nello stipite sbeccato, nel muro scrostato. Una testimonianza puntuale e precisa di queste sorgenti lombarde emerge nelle idee espresse dal Lomazzo, che nei suoi Sogni e Raggionamenti  scrive che se avesse dovuto raffigurare gli apostoli li avrebbe fatti “con le facce arrossate dal sole” come si vede appunto nel volto di Giuseppe d’Arimatea nella Deposizione, e con “i piedi pulverulenti”, come il Caravaggio dipinge esattamente nella Madonna dei dei Pellegini  (65).

La Morte della Vergine

Nello stesso periodo il Pittore realizzò il bellissimo dipinto della Morte della Vergine (Fig.55) (369×245 cm.) per la chiesa di Santa Maria della Scala; il committente in questo caso fu il giurista Laerte Cherubini, anche lui legato agli ambienti curiali vaticani dato che vi svolgeva la sua professione di avvocato.

Figura 55, Caravaggio, Morte della vergine, olio su tela, 369×245 cm, Louvre
Figura 56, Taddeo Zuccari, Morte della Vergine, affresco, Particolare, Chiesa della Trinità dei monti, Roma

Cherubini in realtà commissionò il dipinto parecchio tempo prima e cioè il 14 giugno del 1601, ma la sua realizzazione fu decisamente posteriore e si deve situare attorno al 1604-5; questa dunque fu di fatto la terza importante commissione pubblica  dopo quella della Cappella Cerasi e fu in quella occasione che vedemmo per la prima volta  Vincenzo Giustiniani assumere un ruolo importante nel contratto di assegnazione, una cosa che si ripeté anche in questo caso nella terza commissione in ordine cronologico, relativa alla Morte della Vergine.  Infatti il marchese era presente alla stipula del contratto con un ruolo decisamente attivo dovendo stabilire il valore del quadro, ed è quindi probabile che  sia stato proprio lui a suggerire al Cherubini il nome del pittore.

Laerte Cherubini era anche il proprietario della casa in vicolo San Biagio presso cui andò ad abitare Caravaggio nel maggio del 1604, Cherubini aveva ceduto poco tempo prima la proprietà utile (Enfiteusi) della casa a Prudenzia Bruni che poi la diede in affitto al pittore. Nel contratto di locazione egli aveva ottenuto anche di poter scoperchiare metà della sala, probabilmente per poter eseguire questo grande dipinto, il Merisi abitò in quell’alloggio sino alla fine dell’estate del 1605 quando venne sfrattato per morosità (66).

La Morte della Vergine è una delle opere più liriche del pittore; non era sicuramente la prima volta che che veniva rappresentato il tema, ma fino a questo momento non era mai stato raggiunto un tale grado di crudezza, con la figura della Madonna in primo piano completamente abbandonato sopra ad un tavolaccio, i suoi piedi scoperti sporgenti dal tavolo e rivolti verso l’osservatore, essa è il centro di una scena dove il realismo fa detonare una carica di sconvolgente tragicità. Gli astanti si raccolgono intorno al suo corpo dimessi e tristi, immersi nella penombra di una stanza disadorna esattamente come lo sono i loro animi; qui per la prima volta nella pittura caravaggesca l’ambiente gioca un ruolo importante e viene utilizzato come un agente attivo della rappresentazione, la sua povertà  serve ad amplificare l’effetto dello stato d’animo derelitto dei presenti.

La Maddalena e gli Apostoli anch’essi coi piedi nudi vengono ritratti realisticamente con le più dure espressioni di dolore, ciascuno lo manifesta con pose ed espressioni differenti ed in questa caratterizzazione psicologica emerge ancora una volta la radice più profonda dell’arte lombarda, che fa del realismo nella figurazione dei moti uno dei suoi aspetti più caratteristici. In questo dipinto risulta particolarmente evidente anche lo studio della gestualità di carattere retorico di cui si vedono gli esempi in alcuni atteggiamenti  degli apostoli, come il tenere la mano sotto la gola, la fronte bassa, l’inarcare le sopracciglia, un fatto che  è stato messo in evidenza dall’ analisi di Stefania Macioce, che  rileva queste gestualità.

La massima espressione del dolore qui è espressa nell’atto di coprirsi il volto con una mano, che  appunto è l’azione che compiono i tre personaggi in primo piano, che sono straziati, sfiniti, piegati dal dolore. Questo gesto è l’ esempio principe della gestualità retorica, infatti Quintiliano lo prende a modello per indicare la massima disperazione, e cita a questo proposito un’opera del pittore greco Timante: il Sacrificio di Ifigenia, dove veniva adottata questa gestualità. Ed era una modalità di espressione del dolore ben nota anche al Marino che la descrive nelle sue Dicerie Sacre (1618, pag.6, 64). Leon Battista Alberti nel suo Trattato riprende molti principi della Institutio Oratoria di Quintiliano e sarà proprio il fiorentino a mettere in connessione ed istituzionalizzare il legame tra pittura e arte oratoria :

E farassi per loro dilettarsi de’ poeti e degli oratori. Questi hanno molti ornamenti comuni col pittore….

Accanto all’ Ut pictura poesis l’Alberti pone quindi l’altro principio fondamentale per il pittore: l’Ut pictura rethorica, che proprio in questo dipinto appare con assoluta evidenza sotto forma di molteplici esempi; come evidenziato dalla Macioce veramente qui viene allo scoperto tutta la conoscenza delle figurazioni  oratorie da  parte del Caravaggio. Questo dimostra nei fatti tutta l’attenzione che il Caravaggio, ha posto allo studio dei principi della retorica, che si aggiunge alla sua attenzione verso la poesia di cui abbiamo già parlato, egli dunque aveva pieno accesso alle fonti culturali e teoriche della pittura di alto livello, che voleva praticare e per mezzo della quale egli voleva distinguersi ed innalzare il valore della sua arte.

Possiamo inoltre da ultimo notare quanto la scena del Caravaggio sia debitrice dell’affresco di Taddeo Zuccari (vedi Fig. 56) realizzato nella chiesa di Trinità dei monti nel 1563 (67): la Madonna è posta trasversalmente al centro su di una portantina di legno, con i piedi  rivolti verso lo spettatore, san Giovanni è in piedi sulla destra e due figure stanno sedute ai suoi piedi, in alto compare un grande drappo. Ancora una volta possiamo toccare con mano tutta la differenza che divide il lombardo dalle idee manieriste, dalle loro pose stereototipate, dai loro colori di fantasia e dalla loro totale mancanza di attenzione al fenomeno luminoso, tutte queste condizioni situano la scena  di Zuccari nel campo dell’irreale, questo la rende emotivamente neutra agli occhi dell’osservatore, ed essendo palesemente fantastica essa non provoca alcun pathos.

Il contrario accade nel caso del Caravaggio e per questo motivo la tela  fu probabilmente rifiutata e l’opera di Zuccari accettata, pur essendo di fatto le due scene piuttosto simili, infatti  la Madonna è anche in questo caso abbandonata sopra un tavolo di legno con i piedi scoperti e rivolti verso l’osservatore, ma la tecnica narrativa del Caravaggio dotata di un realismo così estremo porta a tutt’altri risultati, l’asprezza emozionale che si genera dagli atteggiamenti dei personaggi e dal realismo del lombardo non poteva essere sopportata dai suoi contemporanei. Inoltre secondo le fonti coeve nella modella prescelta per la figura della Madonna fu riconosciuta una prostituta, e dopo una breve esposizione nella loro chiesa i Carmelitani decisero di venderla per 300 scudi al Duca di Mantova che la acquistò su consiglio di Rubens nel gennaio del 1607.  Che il motivo del rifiuto sia stato questo ci viene tramandato dal biografo Mancini, uno spettatore imparziale e per nulla interessato a denigrare il pittore ma piuttosto ad esaltarlo dato che aveva un particolare interesse proprio per questo dipinto che avrebbe voluto assolutamente acquistare anche a costo di sacrifici e per questo motivo offrì senza successo 270 scudi.  Mancini riconosce senza alcun problema che che vi era rappresentata una prostituta, “…qualche meretrice sozza degli ortacci, da lui amata…”, una opinione che ribadisce anche in una lettera privata inviata al fratello Deifobo il 6 ottobre 1606:

”La Madonna attorno con li apostoli, quale andava nalla Madonna della Schala a Trastevere, che per esser stato spropositata di lascivia e di decoro, il Frate Scalzo l’ha fatta levare.” (68).

Un ulteriore elemento decisamente inusuale è rappresentato dal corpo della Madonna che appare quasi incinta, come hanno notato sia il Baglione che la definisce “gonfia”, che il Bellori che parla di “una donna morta gonfia”; potrebbe trattarsi di Anna Bianchini una prostituta dai capelli rossi che morì gravida nel 1604 a 24 anni ( 69 ), ed in effetti la Madonna nel dipinto ha i capelli biondi rossastri, che all’epoca erano ritenuti un simbolo di disordine sessuale, anche questo particolare può aver contribuito alla sfortuna del quadro (70). Anna era una amica di Fillide Melandroni è probabile dunque che il pittore fosse a conoscenza delle modalità della sua morte e che abbia preso spunto da questo tragico vissuto per la realizzazione del dipinto.

Quello che vorremmo ulteriormente far notare è  che raffigurare la Madonna gravida ha un preciso valore simbolico come è stato delineato per primo da Calvesi, secondo il quale la Vergine gestante del figlio rinasce attraverso il figlio stesso, come accade ad esempio in Dante: “Vergine madre, figlia del tuo Figlio” (Paradiso, XXXIII, 1-3).

Questa tradizione ideale della madre che rinasce nei figli è anche il tema centrale di una delle Rime (1603) dell’Insensato Filippo Alberti che egli dedica ad una “Donna morta di parto che rinasce nella figlia che nacque”. La figura della Maddalena che ha il volto nascosto, riprende l’abbigliamento e l’acconciatura di una delle modelle presenti nella deposizione ed anche quella di Marta nel dipinto di Marta e Maddalena. Questa fu la prima opera del Caravaggio dove, con l’introduzione della trama a cassettoni del soffitto, si descrive in maniera precisa il piano prospettico superiore cercando in questo modo di dare una connotazione abbastanza precisa dell’ambiente in cui ci si trova e cioè una camera. Qui per la prima volta il pittore si preoccupa di rappresentare quello spazio scatola di cui parlava Spezzaferro e che fino a questo momento era stato accuratamente evitato. Inoltre come abbiamo già detto l’ ambientazione scarna e povera   gioca un ruolo attivo nella definizione psicologica del momento rappresentato, insomma qui l’ambientazione spaziale inizia ad assumere nei suoi dipinti un ruolo importante.

La Madonna dei Palafrenieri

Ora veniamo all’ultima delle commissioni pubbliche del Merisi in ordine di tempo, si tratta della la Madonna del serpe o Madonna dei Palafrenieri ( 292×211 cm.) ( fig.57), che fu commissionata il 31 ottobre 1605 dalla Congregazione dei Palafrenieri del cardinale Ascanio Colonna (il fratello di Costanza) che ne aveva la funzione di protettore (71 );

Figura 59 Caravaggio, Madonna dei Palafrenieri 1605, Galleria Borghese, Roma

date le nostre conoscenze attuali questo fu il primo dipinto in cui un esponente della famiglia Colonna intervenne per una sua commissione pubblica, da questo momento in avanti la famiglia Colonna sarà sempre più apertamente a fianco del pittore fino al momento della sua morte.

L’opera venne eseguita mentre il Merisi era ospite dell’amico e avvocato Andrea Ruffetti, che si stava occupando anche di conciliare i dissidi con Prudenzia Bruni che lamentava il mancato pagamento dell’affitto. Ruffetti colpito dalla bellezza del dipinto diede l’incarico all’altro loro amico Marzio Milesi di  scrivere una poesia in suo onore. Il quadro fu consegnato entro l’aprile del 1606 ed anche questo fu rifiutato dalla committenza perchè le figure della Madonna e del Bambino furono giudicate sconvenienti; rimosso dall’altare in San Pietro dove originariamente doveva venire collocato, fu venduto nel giugno dello stesso anno al cardinale Scipione Borghese per 100 scudi, e fu anche uno dei primi dipinti acquistati dal Cardinal nepote che incominciò ad interessarsi all’opera del pittore lombardo dopo il suo rientro a Roma avvenuto il 16 maggio 1605 ( 72). La scena della Madonna col bambino che schiaccia il serpente è tratta da un brano della Genesi (3,15):

”Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe:questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”.

Il fatto che il bambino tenga il piede sopra quello della Madonna, significa che è per mezzo della forza del Cristo che essa può compiere questo atto. La rappresentazione del dipinto riprende in controparte e molto fedelmente un opera  di Girolamo Figino (Fig. 58),il pittore lombardo allievo del Lomazzo che la cita come esempio nel suo Trattato:

una tavola dove ha dipinto la Vergine col figliuolo appresso che calca con un piede il collo dell’antico serpente, la quale si ritrova nella chiesa di San fedele a Milano (pag 438),

si tratta della stessa chiesa dove si conservava anche la Deposizione del Peterzano.

Figura 58, Ambrogio Figino, Madonna del serpe, Olio su tela,210x 150 cm. San Nazaro, Milano
Figura 59, Statua di Demostene, Musei Vaticani

Per quanto riguarda invece la monumentale sant’ Anna il pittore prese a riferimento un’ altra scultura romana, si tratta della statua di Demostene ( Fig.59) conservata  ora ai Musei vaticani. A questo punto verrebbe da chiedersi come mai  il dipinto del Caravaggio sia stato rifiutato e quello del Figino accettato,  probabilmente fu a causa dell’ostentata e totale nudità del bambino che fu giudicata sconveniente, a questo credo che vada aggiunto il realismo dei personaggi e la loro semplice gestualità famigliare, priva di quella grazia che invece caratterizza le figure Figino e le dota un’aura superna, i gesti del Caravaggio sono invece quelli che potrebbero essere visti comparire in una qualunque madre col suo figlioletto a Roma, le sue figure sono poste sul piano della concretezza e non su quello etereo: si tratta di un cambiamento non piccolo dal punto di vista del concetto dell’immagine.

Il rifiuto della sua pittura

Si pone a questo punto l’interessante interrogativo di come mai i suoi dipinti pubblici fossero per lo più rifiutati od aspramente criticati mentre al contrario il pittore godeva di una fama vastissima presso i collezionisti privati che facevano a gara per acquistare i suoi quadri.

Occorre osservare che i rifiuti  hanno riguardato solo le commissioni esposte al  pubblico, e queste pale venivano create con lo scopo di educare i fedeli, la scandalosità delle sue opere invece non aveva molte conseguenze sul versante privato, infatti i dipinti oggetti di rifiuto vennero poi alla fine acquistati da potenti Cardinali o da uomini con importanti incarichi curiali, come il cardinal nepote Scipione Borghese, il Cardinal Sannesio o Vincenzo Giustiniani.

Mi pare quindi che la motivazione più ragionevole per il loro rifiuto sia proprio quella espressa dagli storici contemporanei e cioè fu per una questione di decoro pubblico. Su questo punto essi sono tutti d’accordo, ad esempio Mancini riguardo ad un dipinto che egli stesso aveva cercato di comprare scrive:

La Morte della Madonna nella Scala, che l’ha adesso il Serenissimo di Mantova, fatta levar di detta chiesa da quei padri perché in persona della Madonna havea ritratto una cortigiana da lui amata e così scrupolosa, e senza devozione et in particolare appresso quei buoni padri”

ed ancora

”…alcuni moderni faccin male quali, per descrivere una Vergine e Nostra Donna vanno retrahendo qualche meretrice sozza degli ortacci, come faceva Michelangelo da Caravaggio e fece nel transito di Nostra Donna, in quel quadro della Madonna della Scala che per tal rispetto quei buoni padri non lo volsero…”.

Così anche il Baglione:

…il quadro d’un certo S. Matteo, che prima avea fatto per quell’altare di S. Luigi, e non era a veruno piaciuto…Nella prima cappella della chiesa di Sant’Agostino alla man manca fece una Madonna di Loreto ritratta dal naturale con due pellegrini, uno co’ piedi fangosi, e l’altra con una cuffia sdrucita e sudicia, e per queste leggerezze in riguardo delle parti, che una gran pittura haver dee, da popolani ne fu fatto estremo schiamazzo … Fece anch’egli in S. Pietro Vaticano una Sant’Anna con la Madonna, che ha il Putto fra le sue gambe, e che con il piede schiaccia la testa ad un serpe; opera da lui condotta per li palafrenieri di palazzo, ma fu levata d’ordine de’ Signori Cardinali della fabbrica … Per la Madonna della Scala in Trastevere dipinse il transito di Nostra Donna, ma perché havea fatto con poco decoro la Madonna gonfia, e con gambe scoperte, fu levata via, e la comprò il Duca di Mantova e la mise in Mantova nella sua nobilissima Galleria.

Infine il Bellori che è il più caustico di tutti avverte:

Qui avvenne cosa che pose in grandissimo disturbo e quasi fece disperare il Caravaggio in riguardo alla sua riputazione; poiché avendo egli terminato il quadro di mezzo di San Matteo e postolo su l’altare, fu tolto via da i preti con dire che quella figura non aveva decoro né aspetto di Santo, stando a sedere con le gambe in cavalcate e co’ piedi rozzamente esposti al popolo … Per le quali lodi il Caravaggio non apprezzava altri che se stesso, chiamandosi egli fido, unico imitatore della natura; contuttociò molte e le migliori parti gli mancavano, perché non erano in lui né invenzione né decoro né disegno né scienza della pittura mentre tolto da gli occhi suoi il modello restavano vacui la mano e l’ingegno … Per li quali modi il Caravaggio incontrò dispiaceri, essendogli tolti li quadri da gli altari, come in san Luigi abbiamo raccontato. La medesima sorte ebbe il Transito della Madonna nella chiesa della Scala, rimosso per avervi troppo imitato una donna morta gonfia. L’altro quadro di Sant’Anna fu tolto ancora da uno de’ minori altari della Basilica Vaticana, ritratti in esso vilmente la Vergine con Gesù fanciullo ignudo, come si vede nella Villa Borghese. In Santo Agostino si offeriscono le sozzure de’ piedi del pellegrino; ed in Napoli fra le Sette Opere della Misericordia vi è uno che alzando il fiasco beve con la bocca aperta, lasciandovi cadere sconciamente il vino.

Non ci sono  molti dubbi dunque che il motivo principale per cui i suoi quadri furono rifiutati derivi da questioni di convenienza pubblica, una decisione perfettamente comprensibile dato che il decreto del Sacro Concilio Tridentino stabiliva che le pitture sacre dovevano essere realizzate

“in modo che nulla appaia disordinato o acconciato alla rinfusa e alla rovescia, nulla di profano, e nulla di indecente”.

Lo stesso cardinal Borromeo, aderente entusiasta al principio del bello e buono, nel suo De pictura Sacra sul concetto di decoro ancora scriveva:

Un requisito necessario del bello si è l’evitare ogni nudo che non sia strettamente richiesto della verità del mistero, o che possa…scemare la devozione degli osservatori… Non pochi poi ritraggono persino nude le gambe di santi o sante(73).

Sappiamo dalle sue stesse parole il suo giudizio sulla maniera del Caravaggio di rappresentare i soggetti, che egli definisce sozza.

Il cardinal Paleotti nel suo Discorso intorno alle immagini Sacre e profane (1582) spiega ulteriormente che il verosimile non può essere disgiunto dal decoro, ma questo fu un aspetto a cui il Caravaggio non fece molto caso dato che effettivamente fece molta attenzione al verosimile come richiedeva il cardinale, ma non certo al decoro:

Altri hanno confuso il decoro col verisimile, pigliando indifferentemente l’uno per l’altroNon diciamo però che, per piacere a simil sorte di persone, s’abbia da lasciare indurre a rappresentare danze lascive, devoratori o ebrii, o altre sorti d’intemperanze; ma più tosto che, stando sempre col decoro e dignità del soggetto, cerchi di accompagnare l’opera sua con quelle cose che più sogliono dilettare agli occhi popolari, e tra l’altre procuri che quello che vuole rappresentare imiti vivamente il vero, talché, se è possibile, resti ingannata la vista loro con la somiglianza, sì come, oltre varii esempii che si leggono anticamente…Ma da questa loro ingordigia di laude propria e desiderio di farsi celebri al mondo scorrono in un altro errore grandissimo e totalmente contrario alla professione dell’arte, peccando notabilmente nella imitazione; imperoché, dipingendo imagini de’ santi… e dove quelli furono sempre onestissimi e che mai non si lasciorono vedere scoperta parte alcuna del corpo che non convenisse, essi li formano con le gambe e spalle ignude, e peggio; e dove i medesimi santi, pieni di modestia et umiltà, appena ardivano alzar gli occhi da terra, essi li figurano con aspetti e gesti e moti più che licenziosi”, in questo passo che sembra essere stato scritto apposta per il Caravaggio è ben chiaro che per il cardinale che le immagini devono essere si verisimili ma sempre entro  dei limiti e questi limiti non dovevano essere superati per “il desiderio di farsi celebri al mondo.

Michele FRAZZI  Parma 16 Giugno 2024