di Michele FRAZZI
I collezionisti privati del Caravaggio: i banchieri.
I Giustiniani
Accanto alle commissioni pubbliche con la fama arrivarono ben presto a Caravaggio le richieste dei privati; fra questi il più assiduo dei suoi collezionisti fu il Marchese Vincenzo Giustiniani. Di origini genovesi, i Giustiniani oltre ad essere famosi intenditori d’arte erano i più importanti banchieri di Roma. Per capire il potere che questa famiglia deteneva nell’ambito papale dobbiamo tener conto che alla fine del ‘500 essi prestarono gratuitamente 200.000 scudi d’oro a Clemente VIII per continuare la campagna militare contro i Turchi e anticiparono 400.000 scudi per finanziare le operazioni militari relative al recupero della città di Ferrara (Cfr, Treccani ad vocem ).
Nel 1596-97 Giuseppe, il padre di Vincenzo ricopriva la carica di Depositario generale del Papa, cioè era la persona che gestiva materialmente il denaro negli affari papali ed il figlio era già attivo negli affari al suo fianco (Cfr.,Treccani ad vocem), questo continuò fino al 1600, anno in cui Vincenzo assunse in prima persona la carica di Depositario papale; a quell’epoca Tiberio Cerasi, committente della seconda commissione pubblica del Caravaggio, ricopriva la carica di Tesoriere della Camera apostolica e quindi i due evidentemente si conoscevano bene.
Vale la pena a questo punto ricordare che durante il papato Aldobrandini il cardinale Matteo Contarelli aveva la funzione di Datario papale, in sostanza era a capo dell’odierna agenzia delle entrate, Melchiorre Crescenzi invece ricopriva l’incarico di Chierico di camera del papa, Pietro Vittrice era il Guardarobiere e suo nipote Gerolamo il Sottoguardarobiere (74) papale, Ermes Cavalletti era il Computista del pontefice, Giacomo Sannesio era il Segretario del Papa, Vincenzo Giustiniani era il Depositario generale e Tiberio Cerasi il Tesoriere generale, una carica questa che in passato aveva già ricoperto il fratello di Vincenzo: Benedetto Giustiniani, così come anche Ottavio Costa che fu Tesoriere del papa nel 1591.
In sintesi tutti i principali committenti e collezionisti del pittore avevano un ruolo importante all’interno della curia papale, ed ovviamente per questo motivo si conoscevano tutti, un fatto questo che è stato già acutamente evidenziato dallo Spezzaferro :
” In realtà tali nomi individuavano allora dei personaggi che, in quanto presenti con continuità nei Ruoli di famiglia del pontefice, appartenevano evidentemente alla ristretta élite che componeva la corte papale.”(75 ).
A questo si aggiunge il fatto che che Vincenzo Giustiniani conosceva bene anche un altro importante committente del pittore: Laerte Cherubini. E’ molto probabile dunque che oltre ad essere suoi assidui collezionisti, i Giustiniani abbiano giocato un ruolo di appoggio nel fare ottenere all’artista lombardo le commissioni dopo il 1600. Vincenzo ebbe sicuramente una parte attiva nella Cappella Cerasi dato che era previsto che nel contratto che si occupasse di saldare al Caravaggio l’anticipo di 50 scudi nel settembre del 1600, ovviamente su richiesta del Cerasi (76) e potrebbe dunque essere stato proprio Vincenzo a consigliare al Sannesio, che a quanto ne sappiamo non aveva mai avuto fino a quel momento rapporti col pittore, l’acquisto dei primi due laterali rifiutati della Cappella Cerasi.
Del resto fu proprio Vincenzo che1602 era intervenuto in favore del pittore acquistando di persona il dipinto del San Matteo Contarelli anch’esso rifiutato, e fu sempre lui poi a presenziare anche nel contratto tra il Caravaggio e Laerte Cherubini per la commissione della Morte della Vergine: dunque il marchese fu sicuramente dopo il Del Monte il più importante tra i protettori e promotori del pittore. Il Sandrart riporta addirittura la notizia che lo protesse dopo l’omicidio Tomassoni.
Mecenate delle arti il marchese fu in rapporti di amicizia con il poeta Marzio Milesi (Cfr., Treccani ad vocem) e fu tra i primi protettori anche del poeta Giovan Battista Marino, assieme alla famiglia dei Crescenzi che avevano il palazzo vicino al suo.
A ben vedere molti collezionisti privati di Caravaggio erano anche vicini di casa: il Cardinale del Monte aveva il palazzo di fronte a quello dei Giustiniani e degli Aldobrandini ed anche quello dei Crescenzi era poco lontano. I servizi resi al del Monte probabilmente aiutarono il Caravaggio ad entrare in contatto con questa facoltosa ed importante clientela. Ma il Baglione su questo aspetto ci fornisce anche un’altra spiegazione del tutto convincente e cioè che fu ancora una volta Prospero Orsi a muoversi attivamente come suo procuratore e a convincere il Giustiniani a comprare i dipinti del Merisi:
” il quadro d’un certo S. Matteo, che prima avea fatto per quell’altare di S. Luigi, e non era a veruno piaciuto, egli per essere opera di Michelagnolo, se ‘l prese; e in questa opinione entrò il Marchese per li gran schiamazzi, che del Caravaggio da per tutto faceva Prosperino delle Grottesche, turcimanno di Michelagnolo e mal affetto col Cavalier Gioseppe”.
Riguardo al fatto che fu Prosperino a propiziare questo contatto non abbiamo altre notizie, ma due indizi risalenti ad episodi che avvennero alcuni mesi prima dell’entrata a servizio di Del Monte ci portano su questa strada. Il primo riguarda il famoso calcio del Cavallo ed il ricovero all’ospedale della Consolazione verso la fine del ’96, in quel frangente sappiamo che l’incidente occorso al Caravaggio si verificò nelle scuderie dei Pinelli o dei Giustiniani; la seconda notizia riguarda un’opera molto precoce: il Suonatore di liuto che fu dipinto proprio in casa di Prospero Orsi all’inizio del’ 97, che, se non emerge un altro esemplare, essendo il primo originale conosciuto, dovrebbe essere proprio quello appartenuto ai Giustiniani e conservato all’Hermitage, del resto Prosperino potrebbe essere entrato facilmente in contatto con il Marchese per il tramite dei Vittrice. Dal Suonatore Giustiniani fu poi derivato quello del Monte; vi era un’ottima ragione per il fatto che entrambi fossero interessati a questi soggetto musicali, infatti i due cardinali oltre ad essere in ottimi rapporti e collezionare dipinti erano anche accomunati dalla passione per la musica. Il marchese scrisse addirittura un lavoro teorico: il Discorso sopra la musica che si affianca ad altri suoi Discorsi realizzati in campo artistico, sulla pittura e sulla scultura, da parte sua il Del Monte ricoprì incarichi ufficiali anche in quest’ambito, infatti a partire dal 1594 fu il protettore della Accademia di Santa Cecilia (77) ed inoltre ricevette l’incarico di riformare il canto sacro ( 78 ).
I Giustiniani furono i più avidi collezionisti dei quadri del pittore, Vincenzo ne possedeva 11: Il suonatore di Liuto che abbiamo già avuto modo di studiare, il S. Matteo con l’angelo distrutto nel rogo di Berlino nel 1945, “Un quadro di mezza figura di Sant’Agostino” perduto, “Un ritratto di Gismondo Todesco Pittore“ perduto, l’Amor vincitoredella Gemäldegalerie di Berlino, l’Incredulità di S. Tommaso ( 107×146 cm.)( Fig.60) della Bildergalerie von Sanssouci di Potsdam, “Un quadro di una mezza figura, Ritratto di una cortigiana famosa ancora imperfetto“, perduto, “Un altro quadro con un ritratto di una cortigiana chiamata Fillide” (Fillide Melandroni) distrutto nel rogo di Berlino del 1945; un “Ritratto di una matrona con un velo bianco in testa e suo nome scritto, Marsilia Sicca“, perduto, “Un quadro col ritratto del Farinaccio Criminalista […] si crede di Michelang(el)o da Caravaggio“.
Suo fratello Benedetto invece ne possedeva quattro : “un quadro grande in tela d’una Maddalena nel deserto nuda e scapigliata con un Cristo in mano” perduto, “un quadro di San Girolamo”( 118×81 cm.) (Fig.61) conservato a Monserrat,”un quadro di nostro Signore nel orto con l’apostoli che dormeno”distrutto nel 1945, “un quadro del Cardinale Giustiniano naturale a sedere” perduto, e una l’Incoronazione di spine (127×165 cm) (Fig.62) da identificarsi con quella del Kunsthistorisches Museum di Vienna, la cui struttura pare proprio derivare in controparte dall’identico soggetto realizzato da Tiziano ( Fig.63) e conservato oggi al Louvre che il Caravaggio vide sicuramente dato che a quell’epoca il dipinto del veneto era conservato a Milano in Santa Maria delle Grazie. Con l’Incoronazione di spine inizia nell’opera di Caravaggio una serie di dipinti che traggono l’ispirazione dalle creazioni del cadorino, si tratta di un filone di ambito veneziano che si affianca a quello già visto del Tintoretto.
I Costa
Un’altro importante banchiere ligure fu un appassionato estimatore e collezionista del Caravaggio, si tratta di Ottavio Costa, che fu anch’egli Depositario della camera Apostolica tra il ‘90 ed il ‘91 ( 79).
Ottavio era il proprietario del Banco Herrera e Costa assieme al suo socio Juan Enriquez de Herrera, il Banco era situato nel palazzo di via di Santo Spirito 41 a Roma che era di proprietà di altri banchieri, i fiorentini Bandini.
Herrera e Costa lo avevano preso in affitto almeno a partire dal 1590. Il Costa conosceva bene Vincenzo Giustiniani, sia per posizione di preminenza di quest’ultimo nel panorama dei banchieri genovesi a Roma ( 80), sia per il fatto che la sorella Caterina Giustiniani aveva sposato nel 1587 Pietro Antonio Bandini e dunque in qualche modo era anch’essa sua padrona di casa.
Anche Prospero Orsi conosceva bene Ottavio Costa dato che il Cardinal Montalto si serviva di questo Banco per pagarlo e può dunque essere stato anche in questo caso Prospero a fare incontrare il Costa ed il Caravaggio, come suggerisce Cristina Terzaghi ( 81).
Ottavio era in ottimi rapporti anche con i Cavalieri di Malta con i quali intratteneva rapporti finanziari, questo accadde sia per merito di suo fratello Pier Francesco Costa che aveva ricoperto l’incarico di delegato apostolico dell’isola di Malta che di Ottavio stesso che aveva sposato Laura Spinola la nipote di Ippolito Malaspina che era il Balì dell’Ordine a Napoli; da Ippolito egli aveva anche comprato una casa a Malta, che forse potrebbe aver ospitato il Caravaggio durante il suo soggiorno maltese. Suo figlio Alessandro Costa nel 1606 diventò addirittura il paggio del Gran maestro Alof de Wignacourt probabilmente quello ritratto dal Merisi, Alessandro passerà tutta la sua vita fra i cavalieri (82); a conti fatti i Costa dunque avevano legami molto rilevanti con l’Ordine. A questi fatti si aggiunge che il banco Costa intratteneva ottimi rapporti anche con i banchieri fiorentini dell’Antella ( 83), fu Francesco dell’Antella, anche lui cavaliere di Malta e segretario per la lingua italiana del Wignacourt, che commissionò l’Amorino dormiente realizzato dal Caravaggio a Malta ora conservato a palazzo Pitti.
Ottavio Costa ebbe la fortuna di possedere dei veri e propri capolavori del pittore come il poetico notturno del San Francesco in estasi di Hartford ( 92×128 cm.)( Fig.64), ritenuta da sempre un’opera precoce del pittore ma che recenti indagini scientifiche per via della tecnica utilizzata stanno spostando più avanti attorno al 1598-99 ( 84 ), di epoca successiva è la Giuditta che taglia la testa al generale Assiro Oloferne ( circa 1602; 145×195 cm.)( Fig.65), la cui vicenda è tratta dal libro veterotestamentario di Giuditta, questo splendido dipinto, apogeo del suo primo tenebrismo a destinazione privata è ora conservato alla Galleria Barberini.
Il soggetto di questo dipinto probabilmente ha un valore simbolico che è spiegato in una delle poesie toscane di Maffeo Barberini:
Quanto l’amor di sè stesso è nocivo all’anima Christiana
Non usan tanti mezzi, e prove fanno / L’armi d’alcun guerrier, c’ha per oggetto / Con pugna aperta, ò militar inganno / vincer nemico entro Città ristretto ,/ Con quante insidie intorno all’alma fanno / Pensier terreni, ed il tenace affetto / Del cieco Senfo oppugna l’intelletto , / Qual Duce , che minaccia estremo danno . / Or chi non meno, ch’a Betulia , ‘vede / Folto da schiere hostili assedio al core , / Per sottrarsi all’eccidio , che s’appresta / Di Zelo , e speme armato , e viva fede. / Perche indugia a troncar del proprio amore / Piu che la di Oloferne horribil testa ?
Dunque Oloferne per Maffeo rappresenta l’amore per sè stessi che rischia di fare prendere strade e decisioni sbagliate; per risolvere questo problema non rimane che una sola possibilità: eliminarlo di netto tagliando la testa di questo mostro, il che equivale a tagliar la testa al proprio egoismo.
Questa immagine allegorica descritta da Maffeo nella sua poesia colpì la fantasia del pittore dato che poi utilizzerà ancora in maniera similare questo simbologia in un successivo dipinto conservato alla Borghese, che raffigura una immagine iconograficamente piuttosto simile il Davide e Golia Borghese ( 125×100 cm.) ( Fig.66), dove Davide tiene in mano la testa del gigante dopo averla mozzata. In questo caso il riferimento alla simbologia appena descritto diventa esplicito e palese: sulla Spada infatti è scritto: HOS, che significa Humilitas Occidit Superbiam, una sigla che ci restituisce il senso del dipinto e cioè l’umiltà uccide la superbia. E’ qui reso del tutto ora evidente che la testa mozzata del nemico rappresenta l’egoistico e superbo amore di sè, come appunto indicato nella sua poesia del Barberini, e considerando che la testa mozzata è proprio quella di Caravaggio risulta chiaro che l’ammonimento ora è rivolto a sè stesso.
Qui, nel viso compassionevole del David, riemerge di nuovo tutta la sensibilità e l’empatia di cui il pittore è dotato, con grande evidenza emergono in questo caso due sentimenti, quello della Pietà e dell’Orrore, le due emozioni che Aristotele riteneva i pilastri del genere tragico; si tratta di due qualità che in fondo si ritrovano in tutta l’opera del Caravaggio. La filautia e cioè l’eccessivo amore di sè, da cui assolutamente guardarsi, è uno dei soggetti classici degli ammonimenti morali, come abbiamo visto negli Emblemata dell’Alciati che utilizza a questo scopo l’immagine del Narciso. Nel dipinto del Davide possiamo notare ancora una volta quanto il Caravaggio si sia ispirato alla statuaria antica ed in particolare alla statua di Apollo che scortica Marsia ( Fig.67) che appunto era conservata nella collezione dei Giustiniani, inoltre probabilmente fu suggestionato anche dalla visione dell’identico soggetto realizzata dall’Arpino (Fig.68)( 85).
Questi modelli gli servirono da rifermento anche per il dipinto conservato a Vienna (90x116cm.)(Fig.69) che è stato realizzato su tavola.
Caravaggio dipinse anche un’altra versione del Davide e Golia ( 116×91) ora conservata al Prado (Fig.69), probabilmente essa è relativa allo stesso periodo della Giuditta Costa, la radiografia del dipinto ( Fig.70) infatti mostra che sotto la testa del Golia madrileno era stata in un primo tempo dipinta una versione differente del suo volto, si noti quanto il viso e l’espressività sia vicina a quella dell’Oloferne ed anche alla Medusa ( Fig.71).
Altrettanto magnifico quanto la Giuditta è il corrucciato ed inusuale San Giovanni Battista (1603-4; 173×133 cm.) di Kansas City ( Fig.72), che pare prendere lo spunto in controparte da un dipinto di uguale soggetto: un San Giovanni Battista nella natura selvaggia realizzato da Marcello Venusti ( Fig.73), che è conservato nella Chiesa di santa Caterina dei Funari a Roma ( 86), anche qui Giovanni tiene la croce con il braccio destro, le gambe sono disposte in maniera simile ed ha il braccio sinistro piegato, un gosso tronco d’albero dietro di lui fa da sfondo alla composizione.
Il Caravaggio poi deriverà dalla parte superiore del san Giovanni di Detroit il san Giovanni Battista Corsini ( 94×131 cm.) ( Fig.74), avendo l’accortezza in questo caso di mutare l’orientamento della composizione da verticale ad orizzontale.
Il Costa possedette anche l’ultimo dei quadri romani realizzati dal Caravaggio la Cena in Emmaus (1606; 141×175 cm.)( Fig.75) passata quasi subito nella collezione dei Patrizi, l’opera fu dipinta durante la fuga nei feudi Colonna ed ora è conservata a Brera.
Anche in questo caso il Caravaggio fece ricorso ai suoi ricordi cremonesi, infatti se osserviamo questo disegno di Antonio Campi ( Fig.76) raffigurante una vecchia con la cuffia in testa, vi ritroveremo già tutt’intera la donna con la cuffia della Cena in Emmaus di Brera, sia nei lineamenti, che nella testa reclinata, che nell’ espressione pensosa, questo sarà un modello che ricomparirà spesso nei suoi dipinti successivi.
I Mattei
La terza ed ultima famiglia di grandi collezionisti di Caravaggio furono ancora dei banchieri, i nobili romani Mattei, che erano in ottimi rapporti col del Monte, infatti una delle loro opere: il San Giovanni Battista Capitolino fu donata dal figlio di Ciriaco Mattei proprio al cardinale. Il Caravaggio nel 1601 lasciò il palazzo di Del Monte e si trasferì in quello dei Mattei dove rimase per un lungo periodo e cioè fino al 1604 quando affittò una casa da Prudenzia Bruni. Non sappiamo esattamente a quale titolo il pittore si trasferì nella casa dei Mattei dato che non era al loro servizio e non risulta neppure che egli pagasse loro alcuna pigione, inoltre i quadri realizzati per loro furono regolarmente acquistati e pagati.
Questo trasferimento comportò un importante cambiamento nella vita del Caravaggio, infatti se nel caso di Del Monte egli era al suo servizio e quindi doveve lavorare per lui, nel caso dei Mattei egli era solamente ospitato e quindi era libero di lavorare per chi voleva e questo forse fu anche il motivo per cui cambiò residenza. E’ molto probabile che ancora una volta, come già era avvenuto nel caso dell’entrata al servizio del cardinal Del Monte, ci sia stato l’intervento del suo turcimanno: Prospero Orsi nel propiziare il passaggio in casa Mattei, infatti egli dalla primavera del 1600 lavorava agli affreschi del loro palazzo (87). Questa mediazione in favore del Caravaggio ci viene confermata dal Baglione per il quale fu Prospero Orsi che:
” … fe cadere al rumore anche il Signor Ciriaco Matthei…; e intaccò quel Signore di molte centinaia di scudi”.
Il Marchese Ciriaco Mattei non fu solamente intrinseco di Del Monte, ma lo fu anche dei Crescenzi, dei Colonna e di Virginio Orsini ( 88), fu lui il committente dei dipinti le cui uscite monetarie sono state registrate nel suo banco. Ciriaco acquisì per prima la bellissima Cena in Emmaus (1601) (141×196 cm.) ( Fig.77) conservata ora alla National Gallery di Londra, quindi il San Giovanni Battista della Galleria Capitolina ( 1602) ( 129×95 cm.) ( Fig. 82) e da ultima la Presa di Cristo ( dicembre 1602) della National Gallery di Dublino ( 133×169) ( Fig.78).
A questa va accostata un’altra versione del dipinto di provenienza dai principi Ruffo ( 142×218 cm.) ( Collezione Bigetti) che presenta rilevanti ripensamenti iconografici e che da una parte non trascurabile della critica è ritenuta la prima versione del tema (89), per questo motivo il dipinto è stato oggetto di procedimento di notifica da parte dello stato italiano. In effetti i due dipinti sono dotati di una differente impostazione spaziale, quella di Dublino ha un taglio più ristretto, come ad esempio si vede nell’incredulità di san Tommaso di Potsdam ed in questo caso lo sfondo è composto da foglie ed alberi che identificano precisamente il luogo in cui ci si trova: l’orto degli ulivi. Mentre in quella Ruffo i personaggi si muovono in uno spazio completamente oscuro, indefinito e decisamente più ampio, il maggior spazio sui lati permette di percepire con chiarezza la forma a cuspide rivolta verso l’osservatore che possiede il gruppo dei personaggi. Proprio a causa della sua impostazione spaziale Roberto Longhi riteneva che questo dipinto fosse l’unico a restituire l’invenzione originale del Caravaggio, e così precisamente scriveva : “ Nessun dubbio che la copia Sannini sia l’unica a darci completo lo sviluppo dell’invenzione dell’originale del quale si deve perciò credere che venisse decurtato assai presto ( per renderlo forse più conforme ai normali formati di galleria) e, in tale stato ridotto, servisse poi per tutte le altre copie fino ad oggi rintracciate.” a giudizio di Longhi dunque questa composizione è quella che più di tutte si avvicina alle idee del pittore lombardo, un punto sul quale concorda anche Maurizio Marini, occorre infine osservare che come afferma lo stesso Benedetti che il quadro di Dublino non è stato decurtato. A questa considerazione occorre anche aggiungere che i due dipinti sono stati concepiti con una differente gradazione luminosa, quello di Dublino è dotato di una luce più intensa e chiara, per questo motivo le sue forme sono tutte ben delineate e ben distinguibili, mentre nel dipinto Ruffo è l’oscurità a prendere il sopravvento, i personaggi sono immersi ed avvolti da essa, per cui in alcuni casi le forme sono appena accennate e non complete.
L’idea per questa composizione riprende l’impostazione di alcuni pittori tardo manieristi. In primo luogo si deve citare a questo proposito l’opera con lo stesso soggetto realizzata dal Cavalier d’Arpino e datata dal Rottgen al 1696-97 (Fig.79) e cioè al periodo passato dal Merisi presso la sua bottega;
questa gli è simile sia per l’utilizzo della luce notturna, che nel particolare del giovane che fugge sulla destra che poi venne trasformato dal Caravaggio in un san Giovanni, ed anche nella idea della lampada che illumina il volto del soldato che sta sulla sinistra (Fig.80).
Quest’ultimo è un episodio tutt’altro che irrilevante anzi è un pezzo di bravura dell’Arpino e soprattutto uno sfoggio di cultura, dato che fa riferimento ad un famoso dipinto con un ragazzo che soffiava sul fuoco realizzato dal pittore greco Antifilo che venne proposto dal Ghiberti nei suoi Commentari al De Pictura ( I, 30) come esempio sommo:”Antiphylo è lodato in uno fanciullo soffiante nel fuoco”, a questo passo fanno riferimento anche i famosi dipinti di simile soggetto realizzati dal Greco o dai Bassano.
Ma il Caravaggio guardò certamente anche ad un’altro pittore, un manierista che fu anche un collaboratore dell’ Arpino: Paris Nogari, ed all’affresco a lui attribuito che è conservato nella chiesa di Santa Prassede a Roma ( circa 1595 ) (Fig.81), in questa stessa chiesa lavorò anche l’Arpino negli anni ‘90. Le tangenze della composizione paiono anche in questo caso rilevanti: si noti l’atteggiamento e la postura obliqua del Cristo del tutto inerte, ad essa si aggiunge la fisionomia del viso e l’ azione compiuta da Giuda, anche qui i due soldati in primo piano sono dotati di elmo Caravaggio vi aggiunge delle armature contemporanee, i loro corpi si frappongono a quello di uno spettatore dell’evento che sta all’estrema destra col capo scoperto, di fronte a lui spunta un braccio che nel dipinto del Caravaggio tiene una lampada, sostituita nell’affresco del Nogari da una fiaccola che occupa la parte superiore della composizione assieme ad una selva di lance, come quelle che si vedono nell’opera dublinese.
Qui possiamo notare bene ancora una volta tutta la distanza che divide lo stile di Caravaggio dai suoi contemporanei e soprattutto riflettere sul fatto che più che la narrazione o la disposizione organizzativa con cui si descrive un fatto, che a ben vedere nei due dipinti è è praticamente la stessa, è importante la maniera e le forme con cui la composizione viene realizzata.
Nel San Giovannino realizzato per i Mattei nel 1602 ( 132×97, cm.) ( Fig. 82) ed ora conservato alla galleria Capitolina, il Caravaggio continua il suo dialogo con Michelangelo Buonarroti dal quale prenderà a modello un affresco degli ignudi della Sistina ( Fig.83), anche in questo caso egli fu preceduto da Annibale Carracci che utilizzò lo stesso modello michelangiolesco nelle sue figure ad affresco della Galleria di Palazzo Farnese (Fig.84). Successivamente però sarà Annibale ad inseguire le idee del Caravaggio dato che egli utilizzerà questa stessa immagine per realizzare il suo San Giovanni Battista ( Fig.85), che secondo Mahon e Pepper fu eseguito tra il 1607 e il 1608 e quindi dopo la realizzazione del lombardo.
In questo dipinto ( qui ruotato per armonizzarlo con le altre immagini) Annibale dal punto di vista iconografico si avvicina decisamente alla interpretazione caravaggesca anche nell’impiego della pelle animale e del panno rosso che scende a fianco del suo piede, ma il tutto è trasposto in una visione classicista; da questo fatto si potrebbe perciò anche pensare ad una aperta sfida alla maniera del Caravaggio.
Il pittore bolognese sembra in questo frangente voler mettere a confronto l’eccellenza del suo stile classico rispetto a quello proprio del Merisi, e a questo proposito tornano alla mente le parole che secondo il Malvasia Annibale pronunciò riguardo alla pittura del Caravaggio:
“Saprei ben io, soggiuns’egli un altro modo per far gran colpo, anzi da vincere e mortificare costui: a quel colorito fiero vorrei contrapporne uno affatto tenero: prende egli un lume serrato e cadente? io lo vorrei aperto, e in faccia: cuopre quegli le difficoltà dell’arte fra l’ombre della notte? ed io a un chiaro lume di mezzo giorno vorrei scoprire i più dotti ed eruditi ricerchi. Quanto ved’egli nella natura, senza isfiorarne il buono e ’l meglio, tanto mette giù; ed io vorrei sciegliere il più perfetto delle parti, un più aggiustato, dando alle figure quella nobiltà e armonia di che manca l’originale.”( 91 ).
Effettivamente nell’ultima parte della sua vita le opere di Annibale si spogliarono del primitivo naturalismo dei suoi esordi per cercare di pervenire all’ideale perfezione e purezza del classicismo.
L’iconografia del dipinto di Annibale è da identificarsi con certezza con quella dell’opera realizzato dal pittore per Corradino Orsini, come è stato avanzato per primo da Posner, questo fatto è comprovato dalla descrizione del Bellori, dalle numerose copie esistenti e dall’incisione a Bulino di Pietro del Po che la dettaglia senza alcun dubbio ( 92). Entrambi i pittori sia Caravaggio che Carracci furono però preceduti nell’utilizzo del modello michelangiolesco dal Cavalier d’Arpino che lo ripropose in controparte in questo giovane ignudo coperto da un panno in un affresco realizzato nel 1584 nella chiesa di Trinità dei monti ( Fig.86),
Se portiamo alla mente ora anche tutte le altre volte che Annibale e Caravaggio sembrano essersi concentrati sulle stesse idee, cosa che accadrà anche in futuro (a Malta), appare piuttosto interessante l’ipotesi che esistesse un confronto a distanza fra i due, per decidere quale tipo di pittura dovesse primeggiare a Roma.
Caravaggio inoltre fu certamente in gara ideale anche con l’altro artista che portava il suo stesso nome: il Buonarroti, una cosa che doveva essere piuttosto nota ai contemporanei, a tal punto che un amico del Merisi, il letterato Marzio Milesi ( 93) la riporterà in una composizioni poetica del 1601
“Michel , Angel voi siete, e siete uguale di chi fu al mondo tale…”.
Vale infine la pena spendere due ulteriori parole anche sull’iconografia del sorridente e gentile san Giovanni Battista. L’opera infatti ha spesso suscitato discordie e dibattiti riguardo alla sua identificazione data la sua inusuale iconografia e Valeska Von Rosen ha dedicato una ricerca proprio a questo argomento (94).
Per andare a fondo su questo tema cerchiamo ora di fare il punto della situazione sui suoi attributi iconografici. Quando il Battista viene rappresentato singolarmente il suo attributo più frequente è la croce di legno, gli altri elementi normalmente utilizzati sono l’agnello, un manto di pelliccia, il cartiglio che di solito accompagna la croce, una ciotola (95), ed infine un manto rosso simbolo del suo martirio. Vediamo ora quale è il significato di ciascuno di questi elementi per capire la loro funzione e quindi anche il motivo della loro presenza. La croce è il simbolo del Cristo di cui San Giovanni è il precursore, sul cartiglio che la accompagna infatti usualmente compare la scritta:”Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccatum mundi” (Vangelo di Giovanni 1, 29), che sono la parole pronunciate dal Battista nei riguardi di Gesù. Anche l’agnello è un simbolo del Cristo, poichè Gesù è appunto l’agnello sacrificale, la vittima volontaria destinata a cancellare il peccato originale che grava su tutta l’umanità in quanto discendenza di Adamo, a beneficio di tutti coloro che credono in lui.
Dunque la funzione principale assegnata nel Vangelo a San Giovanni è quella di essere il precursore e cioè di aprire la strada al Cristo (Vangelo di Marco,1):
”Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio. Come sta scritto nel profeta Isaìa: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati”.
Data la sua funzione di precursore non può quindi mancare in alcun modo nella sua iconografia un simbolo del Cristo, che sia la croce, oppure un agnello oppure la figura vera e propria di Gesù stesso. Anche il mantello di pelo è derivata in maniera fedele dalla scrittura, infatti:
“Giovanni era vestito di pelo di cammello, con una cintura di cuoio intorno ai fianchi, e si nutriva di cavallette e di miele selvatico.” (Marco 1,6 ).
L’ultimo attributo è la ciotola che normalmente è associata all’acqua, questo oggetto allude alla attività che Giovanni svolgeva come precursore del Cristo è cioè all’utilizzo dell’acqua (da cui prende l’epiteto: Il Battista), per il battesimo di conversione e purificazione:
“Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco” ( Luca, 3, 10);
il battesimo di fuoco a cui allude l’evangelista è quello che poi avverrà durante la Pentecoste.
Spiegati i significati dei suoi attributi e il loro valore simbolico, passiamo ora ad esaminare la maniera specifica con cui il Caravaggio ritrae san Giovanni nei suoi dipinti, che furono oltre a quello della Capitolina, quello conservato a Kansas City, quello della Corsini e quello Borghese. Gli elementi accessori utilizzati dal pittore sono un manto rosso che è presente in tutte le sue raffigurazioni come simbolo del martirio, il tasso Barbasso e le foglie di vite che sono sempre presenti in questi dipinti tranne nel caso dell’esemplare Corsini; il tasso è il simbolo della luce perché il Cristo è la Luce:
”Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui,eppure il mondo non lo riconobbe” ( Giovanni, I , 9-10),
ed anche la vite è il simbolo del Cristo, come è scritto ancora in Giovanni 15:
“Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiuolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto… Io sono la vite, voi siete i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porta molto frutto; perché senza di me non potete far nulla”
ed esattamente così è stato raffigurato da Lorenzo Lotto nell’affresco della cappella Suardi a Trescore in provincia di Bergamo a circa 30 km. dal paese di Caravaggio ( Fig.87).
Nell’esemplare Capitolino e in quello Borghese non è presente la croce ma invece in entrambi i casi al suo posto troviamo un ariete, oltre a questi elementi il mantello di pelo è presente nel dipinto capitolino ed in quello di Kansas City ed infine la ciotola per l’acqua che è presente solamente nell’esemplare Corsini.
La prima considerazione che viene da fare da fare è che il Caravaggio caratterizza il Santo in maniera piuttosto eterogenea, gli unici due dipinti che contengono tutti gli stessi elementi e cioè la vite, il tasso, il manto di pelliccia e l’ariete sono l’esemplare Capitolino e quello Borghese, ed a questo punto l’ulteriore considerazione che sorge spontanea è perchè non sono sorti dei dubbi anche sull’identificazione del san Giovannino Borghese ? Come il capitolino è privo di croce ed accompagnato da un ariete e non da un agnello, seguendo la logica se non si accetta l’identificazione del primo allora non si deve accettare neppure quello Borghese ( 96).
Occupiamoci ora ora di capire il significato di alcuni simboli non tipici dell’iconografia di san Giovanni introdotti dal Caravaggio. Normalmente è l’agnello il simbolo del Cristo che accompagna il santo ma nel dipinto Borghese ed in quello capitolino troviamo un ariete, un elemento apparentemente anomalo come rappresentazione del Cristo, ma l’ariete nella Bibbia è il simbolo del sacrificio di riparazione:
“L’uomo condurrà al Signore, all’ingresso della tenda del convegno, in sacrificio di riparazione, un ariete”( Esodo, 29; Levitico, 5,8,9,16, Numeri, 6,28,29).
Occorre inoltre tenere presente che l’ariete è il simbolo del Redentore al pari dell’agnello per tutta la tradizione patristica (97). Amplissime e molteplici sono le motivazioni per cui l’ariete rappresenta il Cristo che è il capo della chiesa e come pastore guida il gregge dei fedeli alla stessa maniera in cui il montone guida quello delle pecore, ricordiamo a questo proposito la frase rivolta da Gesù a Pietro:“Pasci i miei agnelli, Pasci le mie pecorelle” (Gv. 21, 15-17). Inoltre l’ariete è il simbolo del Cristo per sant’Ambrogio ( 98 ) che è stato il vescovo di Milano e ne è il patrono, fu lui a creare lo speciale ed unico rito liturgico ambrosiano che ancora oggi viene osservato dalla chiesa milanese, e che la distingue dalle altre, esiste quindi nella tradizione lombarda una fondata ragione perché l’ariete sia conosciuto come simbolo del Cristo; ricordiamo anche che il fratello del Caravaggio era un ecclesiastico, aggiungiamo poi un ultima osservazione: l’agnello che è il simbolo più diffuso del Battista non compare mai, in nessuno dei dipinti del Caravaggio.
Tra le diverse possibili motivazioni storiche che giustificano questo legame simbolico aggiungiamo qui solo altri due altri esempi di identificazione cristica, in primo luogo occorre ricordare che l’ariete è il simbolo del sacrificio che avvenne in luogo dell’uccisione di Isacco, l’ariete è dunque la prefigurazione del sacrificio supremo del figlio di Dio al posto del sacrificio umano, nel caso specifico di Isacco, in questo frangente si manifesta un importante aspetto divino, quello del Jahvè–Jireh. “Il Signore provvederà” e questa fu appunto la risposta che Abramo diede al figlio quando gli chiese cosa avrebbero dovuto sacrificare: il Signore provvederà al sacrifico.
Così infatti avvenne, Dio stesso ha provveduto a fornire la vittima sia nel caso del sacrificio di Abramo: un ariete, come anche in quello successivo e definitivo del Cristo, fornendo suo Figlio come vittima sacrificale definitiva in luogo dei figli dell’uomo. (99).
L’ altra tradizione simbolica importante per questa identificazione è di tipo astrologico e riguarda la congiunzione dell’equinozio primaverile con la costellazione dell’ Ariete, che allude alla rinascita della luce dopo l’oscurità invernale, e lega questo momento al Cristo. Questa simbologia la si incontra ad esempio nel primo canto del Paradiso di Dante:
”Surge ai mortali per diverse foci la lucerna del mondo; ma da quella/che quattro cerchi giugne con tre croci,/con miglior corso e con migliore stella/esce congiunta, e la mondana cera/più a suo modo tempera e suggella./Fatto avea di là mane e di qua sera/tal foce, e quasi tutto era là bianco/quello emisperio, e l’altra parte nera,/quando Beatrice in sul sinistro fianco/vidi rivolta e riguardar nel sole:/aguglia sì non li s’affisse unquanco”.
Il poeta in questa complessa allegoria ci parla di un preciso momento temporale, quello in cui la lucerna del mondo: il sole, sorge per gli uomini in un punto in cui si congiungono quattro cerchi (l’eclittica, l’equatore celeste, il coluro equinoziale e l’orizzonte) formando tre croci (simbolo del Cristo), in congiunzione con una buona stella (costellazione).
Il preciso momento in cui il sole sorge in maniera così speciale è l’Equinozio di primavera che segna il passaggio dall’oscurità dell’inverno alla luce e alla rinascita della vita nella natura: la costellazione con cui è in congiunzione è l’Ariete, questo è il giorno più favorevole dell’anno, infatti all’epoca si riteneva il mondo fosse stato creato proprio nell’equinozio di primavera e dunque in questo momento avesse anche ricevuto la vita. Dal punto di vista della “Divina Commedia” questo è anche il momento in cui inizia la sua ascesa verso il paradiso e la sua luce ( 100).
Il tasso barbasso che si trova nei due dipinti sotto di lui è perfettamente in accordo con questa simbologia dato che come abbiamo già visto allude anch’esso al Cristo come simbolo della luce, Egli è appunto secondo Giovanni la Luce venuta ad illuminare il mondo. Anche le foglie di vite che si trovano sulla destra sono sicuramente ancora il simbolo del Cristo. Dunque gli oggetti simbolici introdotti dal Caravaggio nel san Giovannino Mattei: la vite, l’ariete e il tasso barbasso sono chiari e tutti precisamente concordi, essi rappresentano Gesù. Il manto rosso è presente in tutti e 4 i dipinti poiché è il simbolo del martirio a cui venne sottoposto il Battista (101), lo vediamo come suo attributo tipico utilizzato anche da Annibale Carracci.
Passiamo ora alla analisi del gesto compiuto dal ragazzo, egli abbraccia un ariete, anche questo è un atto tipico del Battista che però normalmente abbraccia un agnello simbolo del Cristo, nel caso del Caravaggio l’agnello è stato semplicemente sostituito con un ariete. Si tratta di una iconografia ampiamente diffusa come si vede in questo dipinto conservato al Prado ed attribuito ad Andrea del Sarto ( fig.88), atteggiamento ripetuto nello Sposalizio mistico di Santa Caterina i Dresda, anche qui san Giovanni Battista guarda l’osservatore mentre sorride e abbraccia un agnello, un gesto che si vede anche nel quadro di Bernardino Luini dell’Ambrosiana (102), questo è esattamente ciò che avviene anche nel dipinto del Caravaggio. Si può fare riferimanto anche ad altri esempi contemporanei, a Schedoni (Fig. 89), o alla diffusa stampa di Rubens-Galle, a Giulio Cesare Procaccini o a Mattia Preti e Murillo, gli esempi sono tanti.
In altre raffigurazioni invece San Giovanni abbraccia Gesù in persona e non il suo simbolo, questa è una idea ampiamente conosciuta e diffusa nell’ambiente milanese dato che deriva con tutta probabilità da un prototipo leonardesco, per cui lo si trova comunemente nei dipinti dei suoi allievi, Marco d’ Oggiono o Bernardino Luini, nel dipinto di Luini ( Fig.90) distinguiamo in alto a destra delle piccole foglie simili a quelle della vite, oltre al giglio mariano. L’abbraccio tra san Giovanni ed il Cristo fanciullo ( od un suo simulacro) è una immagine che ha un fondamento pseudo-scritturale, infatti è un episodio che è inserito in un testo cristiano apocrifo del XIV° secolo, le Meditationes Vitae Christi dello Pseudo Bonaventura.
Invece per quanto riguarda le notizie storiche sul dipinto, in tutti gli inventari dei Mattei sia di Ciriaco che di suo figlio l’opera viene descritta come un San Giovanni ed essendo loro i committenti dell’opera appare piuttosto logico pensare che essi sappiano cosa raffigura il dipinto, a meno di non voler pensare che essi non sapessero cos’avevano comprato, pur avendo avuto come ospite nella loro casa il Caravaggio per diversi anni.
Anche nell’inventario (post mortem) del suo successivo proprietario e cioè il cardinal del Monte il quadro viene descritto come un san Giovanni ed anche lui era uno che il Caravaggio lo conosceva bene. Per quanto riguarda le date di queste citazioni la prima notizia del dipinto compare nell’inventario dei beni redatto alla morte del suo committente Ciriaco (1616), qui viene descritto come un San Giovanni Battista, poi compare nelle volontà di suo figlio ed erede che fra l’altro si chiama proprio Giovanni Battista che lo cita una prima volta (1624) in un suo scritto con la stessa indicazione ed ancora identicamente una seconda volta nel suo testamento; il suo erede è il cardinal del Monte e il quadro compare descritto fra i suoi beni nel 1627 ancora come un san Giovanni Battista.
La notizia che i Mattei possedevano un san Giovanni Battista del Caravaggio era molto diffusa, tanto che aveva valicato anche le Alpi, infatti nell’inventario madrileno di Juan de Matute del 1628 compare:
Mas otro quadro de S. Ju.o desnudo encarnes abrazado con el cordero copiado de aquel famosa q tienen Los ss Matheis en Roma es de mano de michael Angelo caravacho.
Nel 1628 sono trascorsi oramai 25 anni dalla sua esecuzione e l’opera è passata attraverso le mani di tre proprietari, al quarto passaggio che è quello relativo alla vendita fatta dagli eredi di Del Monte viene mutata per la prima volta e non sappiamo da chi, la sua identificazione, infatti qui è descritto come un Coridone (un pastore, personaggio della mitologia greca) ed è l’unico caso di un inventario che riportata una identificazione diversa dal Battista. Il dipinto venne comprato poi da Carlo Emanuele Pio e nei suoi successivi inventari viene descritto o come un san Giovanni Battista o come Un giovane con un angelo ( sic).
Gli storici Bellori e Baglione lo identificano entrambi come un San Giovanni Battista. Solo il Celio lo cita diversamente :
”Pitture nel Palazzo vecchio del Signor Marchese Matthei . . . Quella del Pastor friso (nda, frigio), ad olio, di Michelangelo da Caravaggio”.
Questo avviene nella sua Memoria delli nomi dell’artefici delle pitture, che sono in alcune chiese, facciate e palazzi di Roma, redatta in forma di manoscritto nel 1620. Come lui stesso afferma, all’epoca della redazione del manoscritto il dipinto era ancora nelle mani dei Mattei, che come noi sappiamo lo identificavano senza alcun dubbio come un san Giovanni e quindi non si capisce il motivo per cui Celio abbia mutato la sua descrizione contraddicendo la convinzione della proprietà; una possibile spiegazione è che anch’egli sia stato tratto in inganno dalla confusione generatasi dopo la vendita Del Monte del 1628 e che abbia quindi successivamente modificato la sua identificazione in un pastore frigio prima della pubblicazione della guida avvenuta per la prima volta solo nel 1638 o che all’opposto la sua idea abbia influenzato quella dell’estensore del catalogo degli eredi Mattei.
Per quanto riguarda invece l’altro dipinto che ha gli stessi simboli di quello Mattei: il San Giovannino Borghese non esiste alcun dubbio sulla sua identificazione fin dal momento in cui era fra le proprietà dello stesso Caravaggio che lo aveva con sè sulla feluca nel suo viaggio di ritorno a Roma; questa descrizione viene poi mantenuta in tutte le notizie degli storici ed anche negli inventari della collezione Borghese del’600 e ‘700 fino ai giorni nostri, anche nella critica moderna non c’è mai stato nessun dubbio su questo.
A questo punto mi pare che la soluzione più ragionevole per questi due dipinti è che entrambi rappresentino san Giovanni Battista.
Le tre famiglie di cui abbiamo appena parlato furono i più importanti collezionisti privati del Caravaggio dopo il 1600, essi ebbero tutti in comune il fatto di essere tutti dei banchieri. Non dobbiamo pensare però che fosse il denaro a convincere Caravaggio ad accettare le loro commissioni, nè che queste gli mancassero; infatti sappiamo che il pittore rifiutò richieste pervenute dal Cardinale Borromeo, inoltre nel 1602 non eseguì una pala d’altare chi gli venne richiesta dalla famosa Confraternita della Santissima Trinità dei Pellegrini ed un’altra per i Cappuccini di Tolentino ( 103) e soprattutto declinò la richiesta del principe Doria che gli offrì la astronomica cifra di 6.000 scudi per dipingere una sua loggia. Non si può dunque pensare che Caravaggio fosse a corto di committenti, oramai era un pittore famoso e molto richiesto a Roma ed in Italia.
Non era il denaro dunque a muovere la volontà di Caravaggio, ma che cosa inseguiva allora? Forse il desiderio della fama, del successo, infatti dipinse per i più importanti e raffinati collezionisti privati di arte contemporanea dell’epoca e per i loro conoscenti, tutte persone molto in vista della Roma di allora, che avevano in animo di creare, ed in effetti poi crearono, collezioni importanti. Inoltre dipinse per i luoghi pubblici, con lo scopo di aumentare la sua fama. Aspirò anche a distinguersi, a diventare per esempio un cavaliere, come lo furono l’Arpino ed il Baglione e dopo essere diventato egli stesso un cavaliere, in Sicilia portava con fierezza gli attributi dell’ordine anche dopo che ne era stato espulso; inoltre desiderò sempre di ritornare a Roma, che era la capitale artistica dell’epoca, insomma voleva diventare una persona in vista.
E’ possibile che l’attività del Caravaggio presso i Mattei non si limitasse solo ai tre dipinti descritti, infatti Prospero Orsi eseguì delle grottesche per decorare il loro giardino, in collaborazione con un altro pittore chiamato Michel Angelo, ma non abbiamo certezza della sua identità, nei conti Mattei risulta:
Adi 21 di Lug.o 1603 e pui deve havere ruberto primij sc. quindici di moneta p. tanti pagati a Michel Angelo pittore p. conto della pittura del Cortile del giard.o a grotesche sc. 15
Adj 2 di agosto 1603 et pui devono havere sc. Quindici di moneta p. tanti pagati a ms Prospero pittore a conto della pittura del giard.o dico sc. 25;
Adj detto ( 2 di agosto 1603) et pui devono havere sc. Dieci di moneta p. tanti pagati a ms Mich’Angelo pittore a conto dei lavori del giard.o dico sc. 10;
Adj 12 di Ag.o et pui devono havere sc. dieci di moneta p. tanti pagati a ms Prospero p. conto della pittura del giard.o sc. 10
Michele FRAZZI Parma 23 Giugno 2024