Leggere Caravaggio XIV. Le committenze delle grandi famiglie: i Massimi (e l’ “Ecce Homo”) i Costa, i Doria e Lanfranco Massa. Analisi e confronti inediti

di Michele FRAZZI

Con questo XIV saggio si chiude la straordinaria rassegna caravaggesca dedicata all’analisi della vita e dell’operra di Caravaggio che Michele Frazzi ha condotto sulla base di riscontri documentari mai pubblicati e valendosi di novità emerse nel corso di un lungo scavo archivistico durato svariati mesi, nonchè di un certosino riesame di pubblicazioni già note ma rilette e riproposte alla luce di quanto di inedito si veniva via via acquisendo. Nella fin troppo ampia congrega di studiosi della vita e dell’opera di Michelangelo Merisi da Caravaggio, il lavoro di Michele Frazzi – un ‘caravaggista’ che si può dire senz’altro autonomo e indipendente – si pone in modo del tutto originale, non ricalcando le tracce di una qualche particolare tendenza esegetica o scuola interpretativa, ma al contrario proponendo un metodo nuovo e attrattivo, arrivando a delineare le motivazioni e i contesti in cui vennero realizzate le straordinarie opere di una personalità complessa quale certo fu quella del genio lombardo, ma certamente riconducibile alle strutture mentali, sociali, culturali, associative di un’epoca dallo studioso ricostruita in modo dettagliato dentro la quale non poteva che maturare una autentica rivoluzione artistica in grado di segnare come poche altre volte il destino di un’epoca. I prossimi lavori del dott. Frazzi saranno ancor più determinanti nello stabilire l’analisi vera e propria della pittura caravaggesca, i suoi fondamenti, i suoi pilastri, con novità davvero rilevantissime inerenti le fonti e le radici autentiche in cui trasse le ispirazioni.

Leggere Caravaggio XIV  Analisi e confronti inediti

 Le altre commissioni private

La famiglia Massimi

I Massimi pur non essendo abituali collezionisti del Pittore acquistarono da lui due opere, ed anche in questo caso il tramite più probabile tra loro ed il Merisi fu ancora Prospero Orsi dato che i contatti con questa famiglia sono documentati. Prospero compare nel 1604 come testimone in un contratto firmato da  Massimo Massimi, inoltre molto probabilmente egli  lavorò al loro servizio assieme a Tarquinio Ligustri nel 1602-3, periodo in cui Ligustri era anche impegnato nella decorazione della Basilica di San Vitale a Roma (104 ).Questa famiglia  commissionò  al Caravaggio una Coronazione di Spine ed un Ecce Homo la cui identificazione ha suscitato  molte controversie: tentiamo ora di riordinare le idee e fare il punto su queste intricate situazioni attributive.

L’Incoronazione di spine

Fig. 88, L’Incoronazione di spine, olio su tela, 178×125 cm. Prato

Per quanto riguarda l’Incoronazione di spine fu il Longhi a rendere nota la sua immagine in uno scritto del ‘43 sulla rivista “Proporzioni”, pubblicando l’esemplare Cecconi (178×125 cm. Fig.88) come copia dall’originale; successivamente il dipinto, a causa delle pressioni del Cecconi fu esposto alla famosa mostra del ‘51 come attribuito, ma il Longhi non ne fu mai completamente convinto (105) infatti non lo incluse nella sua monografia. Marini aggiunse la notizia che il dipinto acquistato dal Cecconi aveva una provenienza napoletana.

La prima pubblicazione dell’opera Cecconi come un originale del Caravaggio fu fatta da Mina Gregori nel 1976. La Gregori ebbe modo di esaminare il dipinto durante la pulitura ed il restauro di Schnider (1974-75), la studiosa fu subito seguita nella sua convinzione da Mahon, Nicolson e Rosemberg, poi la ripropose in seguito nella mostra da lei organizzato del 1991. La maggior parte degli studiosi è ora concorde su questo (106). Di questa composizione esiste anche una copia che è conservata a Genova nella chiesa di Rivarolo. La postura del busto del Cristo pare essere ripreso dalla Incoronazione di spine di Tiziano già utilizzata come modello per realizzare l’Incoronazione di spine viennese (Fig.63), che anche nella sua organizzazione compessiva assomiglia molto a quella Cecconi.

Fig. 89, Tiziano (attribuito), Ecce Homo, olio su tela, 100×100 cm. Prado

A questa prima indicazione tizianesca se ne aggiunge una ulteriore, infatti anche la figura che nella Cecconi sta in basso è stata certamente derivata in controparte da un dipinto di Tiziano (Fig.89) che ora è conservato al Prado, questi due personaggi sono praticamente identici sia nella posizione che nella forma della testa, che nel tipo di scorcio obliquo, ed anche nella posizione delle braccia. Le dimensioni dell’esemplare Cecconi sono del tutto coerenti con quello che doveva essere il suo pandant e cioè il dipinto del Cigoli (178×135 cm.) ( 107).

Per quanto riguarda le notizie, la prima citazione inventariale in ordine cronologico di questo soggetto avviene a Genova nel 1648 nella collezione di Vincenzo Imperiale dove figura una “coronatione di Cristo” del Caravaggio, la successiva è a Napoli nella collezione di Giovanni Toffetti dove è documentata una copia: “Un Quadro de palmi 5 in circa, con l’Jmagine di Cristo, coronato di spine, copia del Caravaggio” e successivamente ancora a Napoli è descritto nel 1688 nella collezione di Giovanni Vandeneynden dove è citato un originale :

” Un altro di pal. 8 e 10 con cornice indorata consistente l’Incoronazione di spine di N.S. mezze figure al naturale mano di Michel’Angelo Caravaggio”

( le misure di questo inventario sono approssimative).

E quindi a Roma nel 1740 nella collezione del marchese Antonio Nunez:

“Altro quadro circa d’imperatore per alto rappresentante la coronazione di Spine di Nro. Sig.re in mezze figure originale di Michelangelo da Caravaggio

ed infine nel 1773 a Siena nella collezione di Ottavio Sansedoni:

Un quadro grande, con cornici dorate, rappresentante una Coronazione di spine. Opera del Caravaggio”.

L’Ecce Homo

Fig. 90, Ecce Homo, olio su tela, 128×103 cm., Palazzo Bianco, Genova

L’Ecce Homo di Genova ( 128×103 cm.) ( Fig.90) fu anch’esso identificato ed attribuito al Merisi da Longhi  dopo una lunga ed attenta analisi pubblicata nel 1954. Si tratta di in un dipinto nella cui  iconografia compaiono tre figure: Pilato, un aguzzino, e la bellissima invenzione di un Cristo quasi adolescente; ora questa opera è conservato a Palazzo Bianco a Genova, concordano con Longhi (con varie datazioni) Moir, Mina Gregori, Schneider, Ottino dalla Chiesa, Mia Cinotti, Berenson, Fagiolo dell’Arco, Spike, Barbiellini Amidei, Federico Zeri, Boccardo, Orlando, Manzitti e Marini che fa coincidere l’esecuzione del dipinto in un momento successivo alla permanenza di Caravaggio a Genova a causa della vicinanza tra la figura di Pilato e quella del ritratto di Andrea Doria di Sebastiano del Piombo conservato appunto a Genova ( Fig.90 bis).

Fig. 90 bis, Sebastiano del Piombo, Ritratto di Andrea Doria, Villa del Principe, Genova

Anche il Moir è dello stesso parere riguardo alla discendenza dal prototipo di Andrea Doria, contrari all’autografia sono invece Spear, Christiansen, Hibbard, Vodret, Cappelletti ed Ebert Shifferer, il dipinto mostra una gamma cromatica estermamente ridotta, che tende al terreo, quasi un monocromo.

Il Longhi così come anche il Moir nella loro analisi ravvisano la dipendenza di questo dipinto dall’opera tizianesca  di stesso soggetto conservata al Prado  (vedi Fig.89) dalla quale, come abbiamo appena visto, è stata ripresa la figura la figura del giovane di spalle utilizzata dal Caravaggio per realizzare l’altro quadro Massimi:l’Incoronazione. Longhi aveva indicato questo dipinto di Tiziano come modello per l’Ecce Homo di Genova a causa del suo  andamento sghembo, asimmetrico, per la digradazione su vari piani dei personaggi e per l’atteggiamento del Cristo  (108), come d’abitudine le indicazioni del Longhi appaiono corrette, infatti alla fine le iconografie di entrambi questi due dipinti sia quello Cecconi che l’Ecce Homo di Genova traggono lsi ispirano alla stessa fonte e cioè lo stesso dipinto tizianesco.

Sarebbe interessante riuscire capire come Caravaggio possa averlo visto: la scheda del Prado riporta che probabilmente entrò nelle collezioni reali alla metà del ‘600, vi è anche da segnalare che un’ opera di Tiziano con questo soggetto figurava nella collezione di Olimpia Aldobrandini nel 1626.

Fig. 91, Aurelio Luini Ecce Homo, affresco, particolare in controparte, Chiesa di San Maurizio, Milano

Occorre infine aggiungere  che le tre figure della composizione di Genova con tutta probabilità  sono state riprese da quelle di un dipinto realizzato a Milano da Aurelio Luini (del 1560-65), il Compà Lovign dei Rabisch; questo affresco è conservato nella chiesa di San Maurizio a Milano   (Fig.91; in controparte).

Fig. 92 Ecce Homo, olio su tela, copia del dipinto di Genova, 150×110 cm., Museo di Messina

Questo del Luini è un affresco che il Caravaggio vide sicuramente dato che il Monastero di san Maurizio è nel centro di Milano ad un kilometro di distanza da piazza del Duomo, nei dintorni della quale era posizionata la bottega del Peterzano che era anche il domicilio dove abitava il Caravaggio; a questo si aggiunge che il Peterzano lavorò proprio in San  Maurizio nel 1573. Qui  si può notare la somiglianza nelle caratteristiche somatiche dell’aguzzino, con  il viso triangolare ed allungato, il naso adunco e i baffi, anche lui porta sulla testa una fascia che gli raccoglie i capelli, si trova nella stessa posizione e compie lo stesso gesto di coprirlo (o scoprirlo) col mantello, le somiglianze continuano nell’atteggiamento del Pilato con la barba bianca,  rivolto a guardare il popolo con le braccia poste in un gesto ostensorio, si noti in particolare la mano in basso che è identica nel gesto a quella di Genova, ed infine la figura silente del Cristo (ripresa specularmente rispetto alla foto) vestito di un perizoma bianco annodato su un fianco con la testa e gli occhi rivolti verso il basso, la canna ritta in una mano, ed un atteggiamento dimesso ed arrendevole che si percepisce anche dal gesto delle sue mani, questo fatto testimonia l’origine milanese dell’iconografia del dipinto di Genova.

L’opera di palazzo Bianco però non corrisponde alle misure  teoricamente previste nel contratto che dovevano essere simili alla Incoronazione di spine e al dipinto del Cigoli che misurano entrambi circa 175×125 cm. mancano 50 cm. In altezza e 20 in larghezza, bisogna però aggiungere che noi oggi non siamo in grado di valutare la dimensione originale del dipinto genovese dato che è stato decurtato, nè siamo in grado di valutare l’epoca in cui è avvenuta la decurtazione, il Moir a questo riguardo pensava che la sua iconografia originale comprendesse anche lo spazio vuoto in alto, come del resto avviene anche nell’iconografia del quadro del Cigoli, e dunque le sue dimensioni originali fossero simili a quelle della copia conservata a Messina (109 ) che senza l’aggiunta  in basso (posteriore) misura 150×110 cm. circa (Fig. 92). In aggiunta a questo il dipinto gode di altri vantaggi rispetto alle altre iconografie caravaggesche proposte per il concorso Massimi, oltre ad essere quella di dimensioni maggiori, la sua organizzazione compositiva si sviluppa con maggior decisione in senso verticale rispetto alle altre, sia nella figura del Cristo che nella parte bassa arriva fin sotto la cintura, che soprattutto per il fatto che il carnefice è posto più in alto rispetto alle altre due figure, come indicato dal Longhi, inoltre i personaggi dopo la decurtazione risultano molto compressi e senza spazio attorno, per questi motivi la struttura dell’opera può sopportare meglio delle altre il formato grande richiesto dal concorso. Teniamo anche conto che quella genovese è l’unica iconografia di un Ecce Homo riferito al Merisi  da fonti storiche pubbliche almeno a partire dal 1756 da  Gallo, nel 1792 (Hackert), nel 1821(Cacopardo), nel 1907 ( Saccà) ( 110).

Fig. 93, Ecce Homo, già Ansorena, olio su tela, 111x 86 cm. Collezione privata

Accanto a questo tentativo di identificazione ne è stata tentata recentemente un’altra (Pulini in Aboutart online, 2021; Sgarbi, Ecce Caravaggio; autografia successivamente approvata da Christiansen, Papi, Terzaghi, Porzio) relativa ad un dipinto passato in un’asta spagnola (Ansorena) ( Fig.93), la cui immagine è un po’ differente da quella genovese, infatti assieme a Cristo e Pilato è presente un ragazzo con la bocca aperta in preda allo stupore, un atteggiamento di tipica invenzione caravaggesca ( ad es. la Medusa, Giuditta ed Oloferne, la Resurrezione di Lazzaro, il Martirio di San Matteo, ecc.).

Decisamente contrario a questa attribuzione è Manzitti che sostiene invece l’esemplare di Genova; lo studioso fa uno studio del dipinto molto dettagliato dal punto di vista pittorico, nella sua puntuale analisi fra le altre cose fa rilevare l’incongruenza logica della posizione delle mani del Pilato che non sono poste in direzione del Cristo https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/riflessione-sull-ecce-homo-di-madrid-non-e-di-caravaggio. Come ha precisato Sgarbi anche l’idea del dipinto Ansorena con tutta probabilità deriva dai modelli Tizianeschi conservati al Prado (111).

Per quanto riguarda il concorso Massimi  anche in questo caso le dimensioni non tornano dato che il dipinto ex Ansorena è ancora più piccolo di quello genovese  (111×86 cm.) ed anche dal punto di vista stilistico non sembra appartenere al periodo romano.  Di questa iconografia sono emerse due copie una di dimensioni maggiorate (130×110 cm.) passata nel 2013 presso la casa d’aste il Ponte ed un altra più piccola e parziale (58×77 cm.) passata in asta a londra nel 2022 presso Rosebery’s.  Longhi conosceva questa iconografia e la pubblicò nel 1954 come una derivazione siciliana dell’esemplare di Genova (114).

Per questo soggetto caravaggesco accanto queste prime due iconografie ne sono state  avanzate altre due,  una  che Papi ha ragionevolmente ipotizzato appartenere alla sua fase giovanile (1593-94), si tratta sempre di una composizione a tre figure dove accanto al Cristo e a Pilato si vede un soldato di profilo con un elmo (112) ( fig.94) ( 90×65 cm.).

Fig. 94, Ecce Homo, olio su tela, 90x 65 cm. Collezione privata
Fig. 95, Tiziano, Ecce Homo, olio su tela, 103×89 cm.

Il soldato ha la stessa foggia e la stessa posizione di quello che si vede  nell’affresco del Luini, ma occorre aggiungere però che lo stesso soldato compare anche in un Ecce Homo di Tiziano passato nel 2023 da Sotheby’s. ( olio su tela,103×89 cm.) ( Fig.95 ) che Joannides e Humphrey datano agli anni ‘60 del ‘500, per cui questa iconografia potrebbe anche derivare da questo modello, la presenza del soldato nell’Ecce Homo in effetti è frequente nell’ambiente culturale veneto, inoltre la figura del Cristo nel dipinto di Tiziano è piuttosto simile a quella del dipinto Ansorena, la derivazione da Tiziano dunque parrebbe l’ipotesi più probabile.

Calvesi pubblicò  un’altra copia di questa iconografia come copia del dipinto originale Massimi disperso, anche Moir  (Cfr. The Italian followers of Caravaggio vol I,pag-184, nota 6) e Longhi ritengono questa iconografia derivata da un originale ( “Un’altra versione di questo dipinto è stata pubblicata da Roberto Longhi nel 1954 come una probabile copia di un perduto Ecce Homo di Caravaggio https://www.aboutartonline.com/john-t-spike-i-learned-fifty-years-ago-from-konrad-oberhuber-every-attribution-requires-a-date/ ).

Fig. 96 Mario Minniti, Ecce Homo,olio su tela, 93×62 cm. Malta

Papi  nel suo articolo riporta l’esistenza di diverse repliche di questo soggetto attribuite al Minniti, sempre a lui vengono assegnate ulteriori differenti versioni di questa iconografia che sono descritte dal Nicolson  (113) riproduciamo qui  quella conservata a Malta (Fig.96). Si noti quanto quest’ultima mostri delle analogie con il dipinto Ansorena  soprattutto nel forte timbro del chiaroscuro del viso del Pilato ma anche nel particolare del personaggio con la bocca aperta, mentre come fa notare Spike, il Cristo invece mostra la sua dipendenza dal dipinto conservato a Genova.

Infine vi è una quarta iconografia in collezione privata newyorkese (Cortez) (78×102 cm.) pubblicata dal Marini (Fig. 97), e non messa in relazione al concorso Massimi ma che viene piuttosto da lui legata alle commissioni Messinesi, sia Papi che Mina Gregori hanno pubblicate come autografe altre due esecuzioni di questa iconografia, esiste anche una copia del dipinto nella certosa di Arenzano a Genova.

Fig. 97, Ecce Homo, olio su tela, 78×102 cm., New York

Testimonianze storiche 

Passiamo ora ad esaminare le notizie storiche sull’Ecce Homo Massimi; la prima  è il contratto firmato dallo stesso Caravaggio che lo impegnava a realizzare il dipinto in un mese:

Io Michele Ang.lo Merisi da Caravaggio mi obligo di pingere al Ill.mo Sr Massimo Massimi p(er) esserene stato pagato un quadro di valore e grandezza come quello ch’io gli feci già della Incoronatione di Crixto p(er) il primo di Agosto 1605. In fede ò scritto e sottoscritto di mia mano questa, questo di 25 Giunio 1605”( 115).

Successivamente nell’inventario di Massimo Massimi del 1644 ( 116 ) compaiono  sia una Incoronazione di Spine che un Ecce Homo in entrambi i casi però sono senza l’ indicazione dell’autore. La successiva notizia dell’esistenza del dipinto Massimi è fornita dal nipote del Pittore Cigoli nel 1628:

”… volendo monsignor Massimi un ecce homo che gli soddisfacesse ne commesse uno al Caravaggio uno al Passignano ed uno Cigoli senza che uno sapesse dell’altro: i quali tutti tirati al fine e messi a paragone…”.

Riguardo alla notizia del concorso vi è la certezza della commissione al Cigoli sia perchè il suo dipinto esiste ed è conservato a palazzo Pitti, sia per il fatto che come nel caso del Caravaggio è stato ritrovato il contratto  con i Massimi, sempre da Barbiellini Amidei:

A di marzo 1607 Io Lodovico di Giambattista Civoli ò ricevuto da N.  Sig.r Massimo Massimi scudi venticinque a buon conto di un quadro grande compagnio di uno altro mano del sig.r Michelangiolo Caravaggio”.
Fig. 98 Schizzo della Incoronazione di spine

Il quadro di cui Cigoli doveva realizzare il compagno è ragionevolmente l’Incoronazione di Spine del Caravaggio. Il dipinto probabilmente gli venne anche mostrata dato doveva farne il compagno, a questo riguardo esiste anche un disegno  a lui attribuito dell’Ecce Homo, dove si vede uno schizzo  molto veloce ( Fig.98) delle figure  di una Incoronazione di spine (117), la composizione che si vede nello schizzo pare però assomigliare di più alla Incoronazione di spine Giustiniani, infatti entrambi gli aguzzini tengono in mano i bastoni ed il Cristo ha il viso inclinato verso destra e non verso l’alto. L’ Ecce Homo ( 175x 135 cm.) ( Fig.99) del Cigoli ha le stesse dimensioni e lo stesso orientamento verticale dell’Incoronazione di spine Cecconi ( 178×125 cm.), è dunque  questa doveva essere anche la dimensione  del dipinto commissionato al Caravaggio.

Fig. 99, Ludovico Cardi,  il Cigoli, Ecce homo, Firenze, Galleria Palatina, olio su tela, cm. 175 x 135

Massimo Massimi in buona sostanza fece al Cigoli esattamente la stessa richiesta che fece al Caravaggio: un quadro da mettere in pandant con la sua Incoronazione, a riprova della correttezza della testimonianza del nipote del Cigoli. Per quanto riguarda il terzo protagonista della gara: il dipinto del Passignano, Maurizio Marini nella sua monografia ne evidenziava la presenza in un’inventario di Carlo Barberini: Un Ecce Huomo Cornice dorata alt: p.i Sei, larg: 5: Cornice dorata del Pasignani, (circa 134x111cm. ) proponendo di identificarlo con un’opera di collezione privata romana da lui individuata. L’esistenza del dipinto con l’Ecce Homo del Caravaggio realizzato a Roma viene confermata anche dal Bellori ( 1672):

“Alli signori Massimi colorì un Ecce Homo che fu portato in Ispagna”.

Longhi interpretò questa frase del Bellori sostenendo che con il termine Ispagna lo storico volesse intendere il regno di Napoli o di Sicilia che all’epoca erano due viceregni sotto il controllo diretto della corona spagnola e di fatto quindi una provincia della Spagna.

Notizie inventariali

La testimonianza dell’esistenza del dipinto del Caravaggio rimane in tre inventari romani inclusi alcuni collezionisti di Caravaggio quello di Alessandro Vittrice ( 1650) e quello del Cardinale Alessandro Chigi (1692) che elencavano un Ecce homo copiato dall’originale del  Merisi, che presumibilmente  deve essere quello Massimi, ed uno figura anche nella collezione dei Costa dove è descritto:” Un Cristo davanti a Pilato”, nel loro inventario romano del 1732, nei successivi inventari del 1834 e del 1846 viene però declassato a copia fiamminga di un originale del Caravaggio.

Entriamo ora più decisamente nella questione delle citazioni inventariali degli originali di questo soggetto che occorre in  primo luogo osservare  avvengono tutte nel regno di Napoli. Per quanto riguarda le collezioni di personaggi spagnoli residenti nel Vicereame spagnolo di Napoli,  un suo Ecce Homo viene descritto nel 1631 in un inventario stilato nella città partenopea si tratta di quello di  Juan de Lezcano   “Un ecce homo con pilato que lo muestra al pueblo, y un sazon que le viste de detras la veste porpureas quadro grande original del caravagio y esta pintura es estimada en mas de 800 D.”.  Nel passo dell’inventario si descrive un Cristo e Pilato che lo mostra al popolo e un Sazon (sayon) che lo veste di un manto purpureo, sayon tradotto in italiano  significa boia, la descrizione dunque non pare compatibile con la figura del giovane con la bocca aperta  e l’ espressione stupita del dipinto Ansorena, che per le sue caratteristiche sembra più adatta a rappresentare un servo di Pilato, si tratta anche quella col servo di una raffigurazione tipica per l’Ecce Homo come si vede ad esempio nei dipinti di Tiziano,  per cui anche se le descrizioni inventariali non sono sempre precise, questa mi pare più aderente al quadro di Genova che raffigura nell’aspetto chiaramente un aguzzino e dello stesso parere era anche Vincenzo Pacelli ed Antonio Vannugli. Lezcano era il segretario di Francisco de Castro che fu prima ambasciatore spagnolo a Roma tra il 1609 ed il 1616 e successivamente vicerè spagnolo del regno di Sicilia tra il 1616 ed il 1622, ed in Sicilia appunto esistono diverse copie del dipinto genovese attribuite proprio al Caravaggio, nel 1622 il de Castro  decise di tornare in Spagna mentre Lezcano si stabilì definitivamente a  Napoli dove prese moglie per due volte ed acquistò diversi possedimenti, qui visse e morì nel 1634.

Un successivo inventario di uno spagnolo ( 1657) quello di García de Avellaneda y Haro, conte di Castrillo e viceré di Napoli, descrive  anche in questo caso  nella città partenopea un quadro del Caravaggio:

Mas otro quadro de un Hecce homo de zinco palmos con marco de evano con un soldado y pilato che ensena al Pueblo es original de mano de Mi Cael Caravacho”.

In quest’ occasione la descrizione della terza figura è più dettagliata: si tratta di un soldato, le  descrizioni inventariali sono spesso approssimative e quindi in linea generale un soldato potrebbe anche essere interpretato come un carnefice, ma dato che nel caso specifico esistono quadri caravaggeschi come quello identificato da Papi, dove è presente proprio un soldato, a questo si aggiunge il fatto che come abbiamo visto questa iconografia fu diffusa da Minniti nel vicereame spagnolo del sud Italia; inoltre  esiste un inventario senese del 1615 che attribuisce al Caravaggio proprio questa immagine col soldato ( Spike, L 30 ), mi sembra più logico dunque individuare quanto descritto con la terza iconografia della nostra analisi e dello stesso parere era anche Vincenzo Pacelli, non mi pare quindi che  si possa identificare il dipinto descritto in questo inventario nè  con il dipinto Ansorena nè con quello genovese, le dimensioni di cinque palmi napoletani corrispondono circa a 130 cm.

Ancora i genovesi: Lanfranco Massa e i Doria

In realtà dal punto di vista cronologico la prima citazione inventariale di un Ecce Homo  realizzato dal Caravaggio compare nell’inventario di un genovese, anche in questo caso siamo a Napoli però nel 1630,  si tratta dell’ eredità lasciata da Lanfranco Massa il mediatore di Marcantonio Doria: “Un ‘quadro Ecce’ homo con cornice, del Caravaggio”,  che è elencato assieme a una Presa di Cristo e una Sant’Orsola sempre attribuiti al Caravaggio, come ebbero già modo di notare Antonio Delfino e Viviana Farina, nel suo elenco ereditario figura la Sant’Orsola del Caravaggio che il Massa intermediò per i Doria, è probabile dunque che i dipinti  che risultavano nel lascito del Massa fossero in realtà copie delle opere da lui intermediate.

E’ interessante a questo punto notare che sia l’Ecce Homo che il Martirio di sant’Orsola  hanno lasciato le loro tracce iconografiche a Genova, per quanto riguarda l’Ecce Homo genovese  esistono  diverse copie citate da Moir in Sicilia  ed una conservata a Genova (119 ), anche della sant’Orsola rimangono le tracce iconografiche a Genova.

La sant’Orsola fu probabilmente l’ultimo dipinto realizzato dal Caravaggio, Massa lo acquistò  in quanto  procuratore di Marcantonio Doria, il Doria volle questo soggetto probabilmente per onorare la figliastra Anna Grimaldi Doria, divenuta suora con il nome di Orsola.

Marcantonio  per concessione del re di Spagna divenne principe d’Angri e duca di Eboli, e quindi fu anche lui fortemente legato al vicereame di Napoli; fu il capostipite del ramo napoletano dei Doria, ebbe importante relazioni con la corona spagnola così come le ebbe anche un appartenente all’altro ramo dei Doria: Giannettino Doria che fu soprannominato per questo  il “Cardinale della Corona spagnola”; a lui che studiò e si formò in Spagna viene attribuita la frase:”aunque no nací en España, en ella me crié que es lo más”, egli come cardinale risiedette e morì a Palermo e fu a più riprese nominato presidente del Viceregno di Sicilia dai sovrani spagnoli (120 ).

La Sant’Orsola (143×180 cm.) ( Fig.100) fu scoperta nel 1955 da Ferdinando Bologna esattamente dove doveva essere e cioè nel palazzo dei principi Doria d’Angri ad Eboli; di questo quadro si era persa qualsiasi notizia storica ed era stato assegnato ad un autore anonimo, Bologna che vi aveva intuito un Caravaggio fece vedere la foto a Longhi che la attribuì al Manfredi, quindi la mostrò al Causa che invece la assegnò al Preti.

Fig. 100, Martirio di Sant’Orsola, olio su tela, 143×180 cm. Gallerie d’Italia, Napoli, Palazzo Zevallos Stigliano

Fu per merito di Giorgio Fulco e Vincenzo Pacelli che si arrivò alla definitiva convalida dell’attribuzione al Caravaggio, infatti essi ritrovarono  nell’Archivio di stato di Napoli la lettera con cui nel 1610 Massa dichiarava di voler spedire il dipinto del Caravaggio a Genova all’amico del Merisi (così lo chiama nella lettera) Marcantonio Doria; sarebbe interessante capire in che modo ed in quali circostanze Marcantonio Doria e Caravaggio divennero amici, forse durante la fuga a Genova o a Napoli ?

Il dipinto figura successivamente nell’inventario della casa genovese di Marcantonio nel 1620:Una sant’Orsola confitta dal tiranno del Caravaggio” : è opportuno osservare che nello stesso inventario figurano anche: un Ecce Homo; e Un  Ecco Homo di…… (incompleto). (121). Suo figlio ed erede Nicola o Nicolò Doria d’Angri naque a Napoli nel 1599 e morì a Genova nel 1688, sposò Maddalena Spinola e ricoprì una carica importante in questa città, infatti divenne  Senatore della Repubblica di Genova nel 1653, ma fu pure patrizio di Napoli dove aveva titoli e feudi, così come in Calabria, e -particolare non trascurabile-  fu anche il proprietario di due feudi in Spagna quello di Yeda e di Silvestre.

Come nota Bologna, riguardo alla sant’Orsola si deve registrare un fatto singolare e cioè che non ci vi sono testimonianze pubbliche a Genova della sua esistenza, neppure nelle guide del Ratti e del Soprani, eppure sappiamo dall’inventario che vi fu custodito. Con tutta probabilità perché i quadri della collezione Doria viaggiavano seguendo i proprietari fra i loro possedimenti, il quadro realizzato a Napoli infatti venne spedito a Genova,  e poi da Genova ritornò a Napoli.

Fig. 101, Domenico Fiasella, Martirio di Sant’Orsola, Cappella di Anna Grimaldi Doria, Chiesa di Sant’Anna, Genova

Dunque probabilmente a causa del suo peregrinare la sua prima menzione pubblica anche nel sud Italia è molto tarda, siamo 1845 nella Guida di Napoli del Nobile, ed è possibile quindi che anche il quadro genovese dell’Ecce homo abbia subito le stesse vicende.

Come asserisce il Bologna, la collezione Doria sarà pure stata impenetrabile ma gli artisti la frequentavano, per questo motivo egli cominciò a ricercare  tracce artistiche della Sant’Orsola nelle opere di dei pittori genovesi, e le trovò in questo dipinto del Fiasella ( Fig.101) creato per la cappella dedicata ad Anna Grimaldi Doria, figliastra di Marcantonio, che – come si è detto- era divenuta suora con il nome di Orsola, e in Strozzi ( Fig.102) a questi si è aggiunto in tempi più recenti  un bellissimo dipinto di Giulio Cesare Procaccini ( Fig 103). Essendo i loro autori tre maestri non si tratta di copie ma piuttosto di dipinti che mostrano l’influenza dell’originale caravaggesco.

Fig.102, Bernardo Strozzi, Martirio di Sant’Orsola, olio su tela,104x 130 cm. Collezione privata
Fig. 103, Giulio Cesare Procaccini, Martirio di Sant’orsola, olio su tela, Collezione privata

Dell’Ecce Homo di palazzo Bianco non si ebbero testimonianze pubbliche nella città di  Genova fino al 1921, quando fu rinvenuto nei depositi di Palazzo Rosso. Di questa iconografia erano rimaste però le tracce in Sicilia, a Messina, dove veniva segnalata da vari storici un dipinto dell’ Ecce homo realizzato dal Caravaggio, si trattava in realtà di una copia del quadro genovese, inoltre Moir come abbiamo già detto segnala anche l’esistenza di una sua copia a Genova ( 119). Seguendo quindi l’esempio del Bologna, la ricerca delle tracce dell’Ecce Homo nella pittura genovese è stata condotta da Anna Orlando e Piero Boccardo ( 122). Molto importante a questo riguardo è la testimonianza iconografica del Fiasella (Fig.104) dato che risiedette a Roma fra il 1606 e il 1616 ed egli fu al servizio sia di Massimo Massimi (123) che di Valerio Massimi; è quindi naturale che abbia riproposto nella sua versione dell’Ecce Homo i quadri visti nella collezione Massimi.

Fig. 104,Domenico Fiasella, Ecce Homo, olio su tela 108×133 cm., collezione privata

Nel dipinto studiato da Camillo Manzitti e Anna Orlando (124) vi sono alcuni particolari molto interessanti: si noti la postura eretta del Pilato con il volto rivolto direttamente verso l’osservatore, e particolare importante la gestualità delle sue mani è la stessa del dipinto conservato a Palazzo Bianco.

La fisionomia del suo volto con il relativo turbante a righe sono invece come quelli dipinti dal  Cigoli, anche la figura del Cristo riprende da vicino quello del Cigoli, così come l’ organizzazione complessiva del dipinto. Nell’Ecce homo del Fiasella, che ricordiamo era in rapporti con Massimo e Valerio Massimi, si vedono dunque sia le tracce dell’Ecce homo di Palazzo Bianco che di quello del Cigoli. Nel suo dipinto però l’aguzzino assume una fisionomia diversa da quello di Palazzo Bianco. Proseguendo la ricerca nelle analoghe realizzazioni di altri maestri genovesi riemerge però la conoscenza anche dell’iconografia dell’aguzzino di Palazzo Bianco e precisamente nelle opere di Assereto e Orazio de Ferrari.

L’equivalente dipinto di Orazio de Ferrari (Fig.105) risale circa al 1635 ed è uno dei suoi primi dipinti conosciuti oltre ad essere la più antica delle sue realizzazioni  di questo soggetto. Pilato è posto  sulla sinistra , la postura del Cristo assomiglia a quella del Fiasella, qui però notiamo l’ aggiunta di un aguzzino con i baffi e la fascia sui capelli  cui figura è simile a quello di palazzo Bianco ( 125). Nel dipinto di Assereto databile agli anni ‘40 del seicento (Fig.106), invece notiamo il Pilato posto sulla sinistra vestito completamente di nero come nell’Ecce Homo di Palazzo bianco ed anche con la stessa gestualità delle mani del Pilato di palazzo Bianco, anche il Cristo è simile a quello, infine  possiamo notare anche qui  la presenza dell’aguzzino coi baffi e la fascia sui capelli sul modello di quello di Palazzo Bianco.

Fig.105, Orazio de Ferrari, Ecce homo, olio su tela 118×90 cm., Chiesa di Nostra Signora della Neve, Genova
Fig. 106, Gioacchino Assereto, Ecce homo, olio su tela, 123x 96 cm., Collezione privata

La presenza delle tracce iconografiche dell’ Ecce homo di Palazzo Bianco nei pittori genovesi, che lo hanno ripreso in maniera indipendente l’uno dall’altro  (dato che riprendono le sue figure in maniera eterogenea), è un indizio molto importante come è accaduto anche nel caso della Sant’Orsola,  e pur se  questi confronti non sono del tutto decisivi tuttavia appaiono molto confortanti e soprattutto stimolanti per continuare le ricerche sull’esemplare genovese.

Per riassumere: a Roma sono citate negli inventari le copie dell’Ecce Homo del Caravaggio, mentre le citazioni dell’originale lo descrivono tutte nella città di Napoli, anche nel XVIII° secolo nella collezione napoletana dell’arcivescovo di Rossano nel 1749 viene descritto un quadro grande:

“di palmi 6 à traverso un istoriato di Giesù davanti a Pilato ( del Caravacci) con cornice alla moda tutta indorata”

6 palmi sono circa 156 cm. Mentre la prima citazione spagnola di un dipinto associato al nome del Caravaggio è del 1789 nell’inventario reale di Carlo III, ma non è descritto come un autografo del Caravaggio bensì come stile del Caravaggio:

Vara y medio de alta y cinco cuartas escasa de ancho. Un Ecceomo con dos figuras más, en dos mil reales. Estilo de Carbajio”.

Successivamente in una nota ufficiale del 1823 la Accademia di San Fernando propone ad Evaristo Perez de Castro lo scambio con un dipinto della sua collezione:

“nos ha parecido que el único que puede cederle la Academia por esta permuta es un Ecce Homo que se cree ser del Carabaggio”.

Anche in questo caso la commissione lo giudica un dipinto che si crede esser di Caravaggio e che con tutta probabilità è da identificarsi con l’esemplare Ansorena.

Passando al piano iconografico possiamo aggiungere che le tracce dell’Ecce homo genovese si riscontrano  chiaramente sia nei dipinti dei pittori genovesi del’600, ed in particolare del Fiasella che fu impiegato dai Massimi nelle loro commissioni, che in Sicilia, dove vi sono testimonianze pubbliche del dipinto attribuito al Caravaggio a partire dalla metà del ‘700.

L’ iconografia che prevede assieme all’ Ecce homo la figura di un soldato fu ripresa ed utilizzata  dal Minniti rendendo possibile così la diffusione di questo modello al sud, mentre la versione del Minniti conservata a Malta mostra una vicinanza con l’iconografia dell’Ecce homo già Ansorena, dove al posto del soldato c’è il giovane con la bocca aperta.

Infine, per concludere: l’Ecce Homo di Genova è quello che più di tutti dimostra la sua dipendenza iconografica dalle opere conservate a Milano, inoltre l’opera va messa in relazione anche con l’Ecce homo tizianesco del Prado; si tratta della stessa da cui deriva pure l’Incoronazione di Spine ex Cecconi ed anche gli altri due esemplari sia quello ex Ansorena che quello col soldato proposto da Papi mostrano la loro dipendenza dalle opere di Tiziano. Roberto Longhi riteneva che queste due ultime iconografie dipendessero da un originale disperso del Caravaggio.

Il Cardinale Scipione Borghese fu in ordine di tempo, l’ultimo suo  estimatore; egli per motivi temporali potè acquistare direttamente dal Merisi solo il San Gerolamo  (116 x 153 cm.)( fig.107).

Fig. 107,San Gerolamo, olio su tela, 116×153 cm. Roma, Galleria Borghese

Al cremonese Monsignor Benedetto Ala che fu Governatore di Roma e che secondo le parole stesse del Caravaggio gli garantì verbalmente il privilegio di portare con sé una spada, toccò invece il San Francesco in meditazione (1606;130×90 cm) ( Fig.108) conservato ora al Museo Civico di Cremona.

Fig. 108, San Francesco in meditazione, olio su tela, 130×90 cm., Museo civico Ala Ponzone, Cremona

Del dipinto originale non vi sono tracce inventariali, però sappiamo che il Lezcano possedeva una copia di questo soggetto dato al Caravaggio che nel suo inventario era descritto come:” un san Francisco grande que sta haçiendo horaçion en una cruz sobre una muerte”( Vannugli).

Prospero Orsi

Arrivati a questo punto della vicenda storico-artistica del Caravaggio vale la pena fare un’ultima riflessione sulla figura di Prospero Orsi che oltre a dimostrarsi un amico di vecchia data del Merisi fin dalle prime vicende della sua venuta a Roma, fu anche di sicuro un attore fondamentale del suo successo.

I due si conobbero molto presto e secondo il racconto del Celio dopo il litigio con l’Arpino fu proprio l’Orsi ad ospitarlo nella sua casa, inoltre fu sempre lui a procurargli poco dopo la “comodità di una stanza” in casa di Fantino Petrignani, certamente fu ancora lui a fargli vendere ai Vittrice i dipinti realizzati proprio in casa del Petrignani ed inoltre, sempre secondo il Celio, fu ancora Prospero ad introdurlo in casa del Cardinal del Monte, e probabilmente anche a fargli conoscere il mercante Costantino Spada ( 127). Inoltre secondo quanto ci dice il Baglione fu ancora Prospero a convincere Ciriaco Mattei, per il quale lavorò a partire dal 1600, a comperare i suoi quadri; Prospero lavorò anche per i Massimi nel 1602-3 e dunque probabilmente fu lui a farli incontrare. Il Baglione dal canto suo ci conferma che fu ancora Prospero a convincere il marchese Giustiniani ad acquistare le opere del Merisi, e probabilmete a questo punto fu ancora lui a presentarlo al Costa che l’Orsi conosceva bene.

Insomma Prosperino fu il perno attorno al quale si costruì il successo commerciale del Caravaggio, il suo vero manager. Incontreremo Prospero nella vita del pittore un’ ultima volta nell’estate del 1605, quando assieme a Cherubino Alberti e al libraio Ottaviano Gabrielli garantì per lui per farlo uscire di prigione (128 ).

Anche dopo la fuga del Merisi l’Orsi continuò la sua carriera artistica sul solco della pittura dell’amico per lungo tempo, infatti gestiva una bottega dove si eseguivano le copie dei suoi quadri e si commerciavano gli originali. Insomma come lo definì il Baglione egli fu effettivamente il suo vero  “turcimanno”, cioè il suo procacciatore di affari che  con i suoi”schiamazzi” lo rese famoso; concludiamo questa nota con le parole espresse dal Malvasia sui dipinti del Caravaggio e sui rapporti col suo amico:

”Non vi era Galleria, non Museo, che non se ne procurasse un pezzo, e per via del torcimanno Prosperino non ne procurasse acquisto.”( 129).

Conclusioni

 La ascendenza lombarda della  pittura del Merisi è una cosa nota ed evidente agli occhi di tutti coloro che per qualsiasi motivo si sono interessati alla sua arte. Nel corso di questa trattazione abbiamo cercare di dare ampio spazio alla ricerca di tutti i fatti pertinenti a questa ascendenza, mettendo in luce diverse nuove  evidenze. La estraneità della sua arte rispetto alle caratteristiche peculiari dell’ambiente romano avrebbe potuto costituire un grave handicap riguardo alla commerciabilità delle sue opere e così infatti è stato, almeno all’inizio della sua permanenza nell’Urbe, periodo in cui

“Pur non trovava a farne esito, e darli via, e a mal termine si ridusse senza denari”.

Ma alla fine il pittore riuscì a trasformare questo handicap in un punto di forza,  a far si che la sua estraneità si trasformasse in una novità, cioè in qualcosa di positivo, riuscì in questo modo a trarre vantaggio dalla sua pittura “esotica” e alla fine quando la sua arte acquisì una vasta fama ed un grande seguito, si trasformò in un vero e proprio movimento di rinnovamento. Per attuare questo percorso ed ottenere questo obiettivo era necessario per prima cosa riuscire a penetrare nei centri nevralgici del gusto e del potere di Roma, una cosa che il Merisi tentò fin dai suoi inizi, con i potenti appartenenti all’Accademia degli Insensati, ma la svolta fondamentale avvenne quando riuscì ad entrare a far parte  della corte del Cardinal del Monte, a questo seguì il favore di importanti e ricchi collezionisti-banchieri come i Giustiniani, i Mattei e i Costa.

Non dobbiamo poi tralasciare anche le relazioni acquisite  nell’ambito della Accademia degli Humoristi.  Accanto alla matrice lombarda è ben chiara nella sua pittura anche l’ attenzione ai modelli antichi ed alla pittura manierista, una attività che abbiamo anche in questo caso dettagliatamente documentato con nuove evidenze. Per quanto rigurda questo aspetto, il risultato che Caravaggio si sforzava di raggiungere era quello di rendere le icone classiche  verosimili, calandole nella realtà di tutti i giorni, e in questa operazione di trasformazione dei modelli antichi in immagini assolutamente attuali e nuove egli assunse un atteggiamento del tutto simile a quello tenuto nel campo letterario dal suo amico Giovanbattista Marino che in una lettera  all’Achillini descrive in che cosa consisteva per lui l’utilizzo dei modelli antichi, sintetizzandolo in un concetto che potrebbe benissimo uscire dalla bocca del Caravaggio:

”Le statue antiche et le reliquie de’ marmi distrutti, poste in buon sito et collocate con bell’artificio, accrescono ornamento et maestà alle fabriche nuove. Perciò se secondo i precetti et le circostanze nel sopracitato discorso contenute, razzolando col detto ronciglio, ho pur commesso qualche povero furtarello, me ne accuso et me ne scuso insieme, poiché la mia povertà è tanta che mi bisogna accattar delle ricchezze da chi n’è più di me dovizioso. Assicurinsi nondimeno cotesti ladroncelli che nel mare dove io pesco et dove io trafico essi non vengono a navigare, né mi sapranno ritrovar addosso la preda s’io stesso non la rivelo”.

Questo aspetto del Marino viene così commentato da Fabio Giunta:

” La modernità di Marino può quindi essere attribuita a un calcolatissimo lavoro di rinnovamento di antichi moduli che riconfigura il rapporto fra immagine e parola in seno alle due grandi questioni cinque-secentesche circa il confronto tra letteratura e arti figurative e tra antichi e moderni…  Si sofferma quindi sul concetto di imitazione attraverso delle efficaci similitudini:

«Vuolsi l’accorto imitatore rassomigliare al gittatore, il quale volendo (per essempio) d’una statua di Venere fare una Diana, la fonde, ma quantunque il metallo sia l’istesso, la forma però ne riesce differente; e quella parte di materia che là era nel capo, qui peraventura viene ad essere collocata nel piede. Non altrimente ancora fanno l’Api, le quali vanno depredando varia quantità di fiori per comporre il miele; ma quando poi il miele è composto, non si può in esso distintamente discernere qual sia giglio, né qual sia rosa, ma ne risulta una terza specie diversa. […]»

Dunque al Marino

«non piacque mai murare (come si dice) sopra il vecchio, ma formar modelli nuovi a suo capriccio».

Per questo motivo, ed è significativo che dopo l’analogia col gettatore di metalli si avvalga di modelli tratti dalle arti figurative:

«Suole egli commendare que’ dipintori, che si fanno capi d’una maniera propria loro, quali sono stati Rafaello, il Correggio, e Tiziano; e non que’ frustapennelli i quali altro non sanno ch’esser copisti delle tavole vecchie».

Annuncia di seguito il progetto della Galeria…”.

Questa idea viene ulteriormente ampliata ed approfondita dal Marino in una importante lettera indirizzata al Bruni nel 1625 ( 130), dove non solo ritorna sul metodo della imitazione degli antichi in forma dissimulata, ma vi aggiunge anche le sue idee riguardanti l’imitazione del naturale, un concetto che ha già avuto modo di proporre nella prima delle sue Dicerie Sacre ( 1614), quella dedicata alla Pittura, dove loda grandemente la capacità illusiva della pittura che imita il naturale:

”… ma le poesie di V.S. son pitture vive, che ritraggono l’esemplare lodato al naturale…stimo la composizione assai bella, poiché nel suo stile fioriscono le grazie, le rime non sono mendicate, ma naturali, e si replicano di rado, il concetto è nobile, la dicitura peregrina, i pensieri nuovi, e si vede ch’ella non imita quei pittori frustapennelli che attendono a copiar le tavole antiche, ma le piace filosofar con nuove e capricciose fantasie per non esser nel numero della plebe de’ poeti. Veggo ancora che i luoghi imitati son reconditi, e v’ha gran parte Nonno e Claudiano, amendui lumi inestinguibili della poesia greca e latina. Ma sopra tutto lodo l’imitazione delle sue poesie, perché (sì com’ella sa) la poesia è tanto più nobile quanto più imita: questi suoi versi acquisteranno altrettanto maggior applauso quanto è più riguardevole in loro l’imitazione. Plutarco istesso nel libro De audiendis poetis dice che alcuno rappresenterà cose spiacevoli agli occhi e apporterà gusto, mentre imiterà bene, adducendo gli esempi di Timomaco che descrisse Medea omicida de’ propri figli, di Teone che rappresentò Oreste uccidente sua madre, di Parrasio che dipinse Ulisse pazzo, e di Cerefane che portò agli occhi degli uomini alcuni atti lascivissimi; dalle quali descrizioni, benché fiere ed impudiche, trae pur diletto il lettore per l’imitazione leggiadra di che i casi sudetti sono arricchiti.”.

L’imitazione del naturale quindi per il Marino è un fattore positivo, un metodo espressivo che egli inquadra in una maniera del tutto simile a quanto operato dal Caravaggio, ma il poeta va addirittura oltre questo singolo fatto lodando anche un altro importante aspetto: la capacità di imporsi al lettore attraverso le immagini cariche di violenza e di passioni forti.

Caravaggio e Marino  dunque procedono parallelamente e nella stessa direzione sulla strada del rinnovamento delle immagini classiche e della svolta in senso naturalista dell’arte. I loro percorsi artistici arrivano anche ad intrecciarsi nel rapporto che lega poesia e pittura, La Galeria del Marino rappresenta infatti il testo più importante del ‘600 per quanto riguarda la poesia che descrive immagini che sono contenute nei dipinti  ( 131).

In ultima sintesi, il realismo tipico dei lombardi viene usato dal Caravaggio come strumento di rinnovamento della pittura  fondendolo con le idee classiche di matrice romana che egli conobbe in età più matura, questo fatto è rilevante perché inizia a rivelarci quanto la sua arte apparentemente spontanea sia in realtà il frutto di una calcolata ed attenta costruzione. Così come  funzionale ai suoi scopi fu anche l’introduzione nei suoi dipinti pubblici di immagini che erano ritenute indecenti; questo a mio avviso fece parte della sua strategia per fare parlare di sé e diventare così rapidamente famoso, un fenomeno che fu avvantaggiato dal suo stile radicalmente innovativo.

A ben osservare infatti la caratteristica “scandalosa” della sua pittura  giocò un ruolo fondamentale  per far progredire la sua fama presso il vasto pubblico come osserva Bellori: “le quali accuse però non rallentavano il volo alla sua fama”.

Anche in questo caso Caravaggio seppe trasformare le critiche in un vantaggio a suo favore, acquisendo notorietà. Anche il Baglione si accorse di questo fatto:

”Nondimeno acquistò gran credito, e più si pagano le sue tele che l’altrui historie, tanto importa l’aura popolare, che non giudica con gli occhi, ma guarda con le orecchie. “

il gran credito e la popolarità insomma  furono i fattori fondamentali per il suo successo dato che come dice il Baglione molta gente “guarda con le orecchie “.

Altro fattore fondamentale per il suo successo fu senza dubbio la figura di Prosperino, il fratello dell’importante uomo di cultura ed Insensato Aurelio;  come ci dice il Baglione fu lui a fargli per così dire pubblicità per mezzo dei

“gran schiamazzi, che del Caravaggio da per tutto faceva Prosperino delle Grottesche, turcimanno di Michelagnolo”.

Fu Prospero  a farlo entrare nelle grazie dei Vittrice, del Cardinal del Monte, dei Giustiniani e dei Mattei. Il Caravaggio insomma  seppe  sfruttare ed ampliare le importanti amicizie di Prospero, per ottenere  importanti incarici pubblici e committenze private tra i personaggi più facoltosi di Roma.

Michele FRAZZI   Parma  14 Luglio 2024