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La presentazione del libro La Gioconda e il San Giovanni Battista di Leonardo e il pensiero del Beato Amadeo, pubblicata sull’ultimo numero di About Art dall’autore, Franco Paliaga, ha fatto nascere molte discussioni e soprattutto molta curiosità, per le tesi ‘rivoluzionarie’ adombrate dallo studioso nel suo articolo. E’ nata la necessità di chiarire come fosse arrivato alle idee esposte nel volume (che sarà in libreria entro il mese di aprile per i tipi della Campano Edizioni) e quali novità in proposito poteva anticipare ai nostri lettori, fermo restando che solo la lettura completa del volume, che naturalmente auspichiamo, potrà esaurire ogni nostra aspettativa.
-La prima domanda che verremmo rivolgerti riguarda il motivo che ti ha spinto –tu che sei uno studioso riconosciuto prevalentemente come seicentista- ad inoltrarti nella rilettura di opere cinquecentesche, certo assolutamente eccezionali, ma su cui si è detto di tutto.
R: Mai dire mai è un vecchio detto, che rimane soprattutto valido per un ricercatore. Si è detto di tutto è vero, ma a volte, anzi, molte volte a sproposito. In effetti mi sono occupato di pittura di Caravaggio e di pittura caravaggesca, sin dai tempi lontani, quando ero borsista alla Fondazione Longhi, ma l’incontro con Leonardo è avvenuto diversi anni fa, quando mi sono occupato di Democrito ed Eraclito in uno studio dedicato allo scomparso Carlo Pedretti e con altri saggi apparsi su Achademia Leonardi Vinci e Raccolta Vinciana. Il nesso Caravaggio – Leonardo è sempre stato un binomio imprescindibile per una serie di motivi, non ultimo l’esecuzione della Medusa degli Uffizi del Merisi, di cui sappiamo che il maestro di Vinci eseguì anch’egli un dipinto che non è mai stato rintracciato, e che è stato l’argomento di un mio intervento alla giornata di studi sul caravaggismo, tenutasi a Santa Maria Tiberina nell’ ottobre del 2017 i cui gli atti sono in corso di stampa. Poi nel 2006 mi ero già occupato della Gioconda in un libro dal titolo L’ equivoco della Gioconda, nel quale mettevo in dubbio che quella donna fosse Lisa Gherardini, ma già in quella occasione avanzavo delle ipotesi che adesso sono state approfondite, ampliate e perfezionate.
-Come hai affermato nella Premessa all’articolo di presentazione del tuo volume che abbiamo pubblicato la settimana scorsa (vedi About Art …….) il fascino della Gioconda e del san Giovanni Battista leonardeschi risiede proprio nel loro carattere enigmatico, nell’essere immagini misteriose e ambigue, nonostante, viene da dire, siano iconograficamente distanti; cosa hai trovato di particolare interesse e soprattutto, al di là del mistero che promanano, perché ritieni siano sostanzialmente ‘unitarie’ tanto da studiarle insieme?
R: Il discorso è molto complesso, ma cercherò di essere breve. Innanzi tutto, quanto ormai sembra accertato sia la Gioconda che il San Giovanni Battista del Louvre erano due quadri che Leonardo si portava sempre con sé, essendo ricordati nella visita che Antonio de Beatis fece a Leonardo il 10 ottobre 1517 nel suo studio a Cloux in Francia, ospite stipendiato del re Francesco I, quindi non furono eseguiti per una specifica committenza. Le due opere hanno dimensioni non troppo differenti, ma quello che le accomuna, ed è quanto ho cercato di dimostrare nel libro, è l’appartenenza ad un pensiero comune che è stato influenzato dalla teosofia del beato Amadeo Menes da Silva (1420c.-1482) il monaco francescano autore di un trattato mistico religioso rimasto manoscritto dal titolo Apocalypsis Nova, il quale ebbe una grande diffusione in Italia agli inizi del Cinquecento e da cui ebbero origine i cosiddetti amadeiti. Figura carismatica, avvolta nella santità, il beato Amadeo morì a Milano un anno prima che Leonardo approdasse nella capitale lombarda, ma il suo pensiero, attraverso la fondazione di numerosi conventi, contagiò artisti della sua scuola come Bernardino Luini e Marco d’Oggiono, compreso Leonardo stesso.
R: Mi spiego meglio: La Gioconda nel dipinto del Louvre non è, come riferisce Giorgio Vasari, Lisa Gherardini, moglie di Francesco del Giocondo. Tutta una serie di contraddizioni, che sono ampiamente esplicitate nel libro, portano alla conclusione che quella donna è una immagine simbolica strettamente connessa al pensiero filosofico di Leonardo riguardante il mondo della natura e ai quattro Elementi, che sono presenti sullo sfondo della tavola. Leonardo aveva trascorso una vita intera nel tentativo di spiegare le ragioni per cui l’uomo potesse comprendere e di conseguenza dominare i quattro elementi, necessari all’esistenza umana. La figura così astratta che ha dato origine a un vero e proprio diluvio di interpretazioni volti a identificare quella donna, a volte senza senso e perfino ridicoli, è in realtà assimilabile ad una immagine classica della tradizione occidentale, quella di Sophia, emblema della conoscenza, da cui hanno origine tutte le cose e la formazione della terra. Una lunga storia che ha origine dai testi gnostici del cristianesimo del IV-V sec. ha progressivamente assimilato la figura di Sophia a quella della Vergine Maria, madre del Cristo e c’è chi ha sostenuto che quella donna sia, per la postura che per l’atteggiamento assunto, paragonabile ad una specie di Madonna laica.
–Ma come nasce questa identificazione?
R: La figura di Sophia è presente in tutta la letteratura cristiana, ma anche nei testi di natura filosofica cinquecentesca. Or bene Sophia in quanto figura femminile della sapienza è paragonata secondo il pensiero del beato Amadeo a quella di Maria Vergine. E’ da lei, intesa come emblema e principio della perfezione attraverso il quale ha origine la vita e la spiegazione del senso misterioso dell’esistenza, da cui traggono alimento tutti gli esseri viventi. Sophia come simbolo della sapienza e della saggezza domina il mondo con il suo sorriso quasi beffardo o ironico, come a voler testimoniare il limite ultimo concesso agli uomini nella conoscenza delle cose e dell’universo. A tale sistema di pensiero si collega il San Giovanni battista, anch’esso contrassegnato dal lieve sorriso, emblema del mistero della fede, contrapposto alla Gioconda, emblema del mistero della scienza e della conoscenza. Del San Giovanni Battista Leonardo eseguì almeno due versioni: una quella del Louvre e una seconda andata perduta, ma che ritengo si conservasse nella chiesa di San Salvi a Firenze. L’iconografia di questo secondo esemplare si mescola con quello l’angelo dell’apparizione che compare in un disegno di Windsor e in numerose copie del dipinto perduto, nonchè in un disegno di Baccio Bandinelli, ma è anche all’angelo che appare nella visione avuta dal beato Amadeo al momento di scrivere l’Apocalypis Nova, nonchè ad un testo scritto da Giorgio Benigno Salviati, di provata fede amadeita, dal titolo De natura angelica edito a Firenze nel 1499. Su questa scia interpretativa è stato gioco forza inoltre collegare i due quadri ad un’altra emblematica opera di Leonardo, la Vergine delle rocce, di cui già da tempo Gabriella Ferri Piccaluga e più recentemente Maria Calì hanno sottolineato almeno per quanto riguarda la versione del Louvre i forti influssi e dipendenze dal pensiero amadeita. L’angelo che appare a destra indicante San Giovanni Battista (che viene abolito nella versione di Londra) è arcangelo Uriel uno sei sette arcangeli che fanno parte del sistema angiologico del Beato Amadeo e l’importanza che viene data a San Giovanni Battista anziché a Gesù è anch’esso un elemento fondamentale dell’impianto teosofico del beato spagnolo, come ho cercato di dimostrare.
-Quali sono stati, nel corso della tua ricerca, i maggiori ‘equivoci’ relativi alle interpretazioni passate o ‘tradizionali’ delle due opere che ti sei trovato a dover contestare e rimuovere ?
R: L’equivoco maggiore è quello di ritenere che la Gioconda sia l’effigie di una donna realmente vissuta e cioè di Lisa Gherardini come hanno anche recentemente ribadito alcuni illustri studiosi di Leonardo. Non esiste alcuna prova documentaria e certa che la donna del Louvre fosse stata la moglie dell’affermato mercante fiorentino, nessun documento di commissione lo attesta, ma solo semplici congetture e supposizioni, nonostante l’identificazione proposta dal Vasari e la citazione di Agostino Vespucci che nel 1503 riferiva che Leonardo stava eseguendo il ritratto di Lisa del Giocondo. Caso mai si potrebbe pensare, ad essere magnanimi, che Leonardo avesse preso Lisa come modella ideale, ma per trasformare poi la donna in qualcos’altro e con ben altre e diverse finalità, ma certamente senza aver mai avuto una commissione specifica. Senza poi parlare dell’identificazione della donna con Pacifica Brandani che non trova alcun fondamento, ma anzi è frutto di una mistificazione, complice lo stesso Leonardo come ho cercato di spiegare nel libro. Così come appare assurdo che il maestro di Vinci avesse elaborato l’iconografia della cosiddetta Gioconda nuda, nota dal cartone conservato a Chantilly, mentre tale operazione denigratoria e abbassante, di spiccato gusto erotico, è caso mai riferibile ad un suo stretto seguace, Gian Giacomo Caprotti, detto Salaì.
R: Sempre nell’articolo di presentazione del tuo libro hai detto che la tua idea interpretativa è come una sorta di puzzle in cui tutti i pezzi sono andati a posto; ci puoi brevemente riassumere quali sono stati principalmente questi ‘pezzi’ ?
R: Questi ‘puzzle’ costituiscono i frammenti di un linguaggio iconografico che sono risultati alla fine coerenti sia ai modi pittorici del maestro di Vinci, ma soprattutto aderenti ai suoi scritti e al suo pensiero. Per Leonardo, come lui stesso afferma nei suoi numerosi codici, la pittura è filosofia e la Gioconda costituisce l’esempio massimo e insuperabile di questo suo modo particolare di vedere e conoscere il mondo, anche attraverso le suggestioni che può aver avuto dal pensiero amadeita. Il dipinto del Louvre costituiva in sostanza il suo testamento figurativo spirituale ed è per questo motivo che il quadro Leonardo lo portasse sempre con sé, ma soprattutto egli non voleva svelare chi fosse quella donna, tanto era intimo e personale il significato e il contenuto
R: Nel tuo libro metti in risalto il pensiero del Beato Amedeo da Silva, il francescano portoghese autore della Apochalypsis nova, un testo che avrebbe influenzato anche artisti come Raffaello e Sebastiano del Piombo (cfr l’articolo di Stefania Pasti, About Art …); puoi spiegare brevemente che rapporto hai stabilito tra i due capolavori di Leonardo e il pensiero del francescano portoghese?
R: Penso di aver già risposto a questa domanda. In ogni caso ritengo solo di aver esteso e approfondito le illuminanti annotazioni di un saggio di Gabriella Ferri Piccaluga dal titolo Σοφία a proposito di uno studio sulla Vergine delle rocce apparso sulla rivista Achademia Leonardo Vinci nel 1994 allora diretta dall’amico Carlo Pedretti, alla Gioconda e al San Giovanni Battista.
–Nonostante tutto, hai riconosciuto che il tuo libro non si basa su riscontri documentari –che d’altra parte non ci sono- e soprattutto che l’universo mentale di Leonardo resta ancora per lo più inafferrabile, ragione per cui non è stata esaurita l’identificazione dei significati delle due opere. Non ti sembra il tentativo di mettere le mani avanti e poi perché –dal momento che ne riconosci l’inevitabile incompletezza- la tua ‘lettura’ dovrebbe essere più confacente di quelle espresse fino ad oggi?
R: Nessuno penso ha la verità in tasca o la pretesa di dire che la storia è andata come vorrebbe l’autore. Nel mio libro ho cercato di mettere in evidenza alcuni punti di contatto e sono molti tra alcune opere di Leonardo e il pensiero del Beato Amadeo. Sebbene non esistono prove certe rimane ad esempio aperto il problema quale fosse il volume posseduto da Leonardo e definito “il libro di Amadeo”, che al di là di molte interpretazioni avanzate, molti studiosi hanno ritenuto potesse trattarsi della biografia del beato Amadeo scritta in lingua volgare da un anonimo frate francescano, forse appartenente alla famiglia amadeita, testo edito a Milano nel 1482 dalla tipografia di Antonio Zarotto dal titolo Vita e conversazione angelica del beato Amadio Ispano. In ogni caso non dobbiamo ritenere che Leonardo sia stato un raffinato e fine teologo capace di esternare attraverso le sue composizioni i princìpi e i pensieri profondi della teologia cristiana per cui le sue opere dovevano costituire emblemi di tali concetti divini. In quanto artista, fu libero di pensare autonomamente, capace però di percepire quelle forme religiose che si presentavano ai suoi occhi di profondo laico, scienziato e indagatore, come l’ espressione di un mondo lontano da ogni imposizione autoritaria prestabilita, ammirando quelle forme del pensiero che apparivano anti dogmatiche e prive di qualsiasi verità rivelata o pre costituita.
R: Per concludere, come pensi verrà accolto il tuo libro e le tesi ‘rivoluzionarie’ che esponi dagli studiosi della vita e dell’opera del genio di Vinci, e in genere dagli addetti ai lavori?
R: Spero soltanto di aver fatto un buon lavoro in quanto il valore e il ragionamento dell’ abduzione è stato ridotto nei minimi termini. Consapevole di non aver certo esaurito i significati sottesi a queste opere, ho voluto semplicemente fornire utili e ulteriori stimoli alla comprensione sempre più approfondita della fervida mente del genio di Vinci. Confido che la comunità scientifica, così come il grande pubblico possano apprezzare questa fatica con serietà e rispetto, perché con serietà e coscienza è stato condotto lo studio, evitando facili conclusioni o qualsiasi ipotesi prive di fondamento.
PdL Pisa aprile 2018