di Claudio LISTANTI
Lo scorso 27 novembre è partita la Stagione Lirica 2022-2023 del Teatro dell’Opera con un nuovo allestimento del capolavoro di Francis Poulenc Dialogues des Carmélites che è stato accolto da un notevole successo di pubblico.
La scelta degli organizzatori della programmazione dell’ente lirico romano si è rivelata del tutto felice in quanto riproponeva un titolo che mancava da Roma dal 1991, un lasso di tempo troppo ampio per un’opera musicale come questa che è considerata uno dei pilastri della musica per il teatro di tutto il ‘900 che ancora una volta è riuscita a stupire gli appassionati dell’opera che sono convenuti numerosi a teatro.
L’argomento sul quale si basano i Dialogues des Carmélites è di carattere storico ed è ispirato a fatti veramente accaduti. Nell’opera si ripercorre una vicenda del 1794, quella delle martiri di Compiègne durante il cosiddetto periodo del ‘Terrore’, quando sedici carmelitane decisero di non ripudiare la loro fede ed affrontare senza indugio la morte per ghigliottina. Caratteristica principale è quella di essere un lavoro per teatro in musica derivato da una sceneggiatura cinematografica e, quindi, uno dei primi esempi di questo procedimento creativo che nel corso del ‘900 è stato adottato diverse volte.
La storia della creazione di quest’opera parte dal periodo 1947-1948 quando il letterato francese Georges Bernanos scrive per il cinema la sceneggiatura per Dialogues, prendendo a modello una riduzione approntata dal Padre Domenicano Raymond Léopold Bruckberger e da Philippe Agostini che a loro volta presero ispirazione da una novella del 1931, L’ultima al patibolo, di Gertrude von Le Fort, basata su una vicenda narrata nel memoriale dell’unica superstite di quel tragico fatto, l’aristocratica Soeur Marie de l’Incarnation.
Il progetto di Bernanos fu però accantonato e non ultimato perché il produttore Gaspard de Cugnac rimase poco convinto dalla forza espressiva dei dialoghi. Bernanos, comunque, ultimato il lavoro lo trasformò in una pièce teatrale messa in scena con successo a Zurigo nei primi anni ’50 dello scorso secolo.
Poulenc casualmente venne a conoscenza di questo lavoro rimanendone estremamente colpito soprattutto da questo ‘taglio’ cinematografico che sovvertiva in maniera incisiva la struttura dell’opera lirica a quell’epoca ancora adottata. Come ben descritto da Giuliano Danieli nel saggio contenuto nel programma di sala della serata dedicato alla gestazione di quest’opera, Poulenc fu senza dubbio attratto da uno nuovo schema di opera ‘a quadri’ che già aveva avuto illustri prototipi nel Pelléas di Claude Debussy nel 1902 e, nel 1925, nel Wozzeck di Alban Berg, sviluppandone così la struttura rendendola più organica ed omogenea.
Poulenc riprese quindi il testo di Bernanos ma lo adattò al teatro per musica ed alle necessità degli sviluppi musicali e, soprattutto, del canto. Operò alcuni tagli: delle 63 scene previste nell’originale ne restano circa 30, accorpate e accorciate per ottenere una giusta semplificazione che passa anche per una riduzione della cornice storica che, comunque, rimane elemento basilare di tutta l’opera.
La composizione dell’opera occupò Poulenc per diversi anni, dal 1953 al 1956 passando anche attraverso problemi di carattere burocratico. La prima assoluta fu alla Scala il 26 gennaio 1957 eseguita in lingua italiana su una traduzione di Flavio Testi e, sei mesi dopo, il 21 giugno del 1957, ci fu la consacrazione definitiva all’Opéra di Parigi in lingua originale francese. A Roma la prima esecuzione dei Dialogues fu il 17 marzo del 1958.
Il successo ottenuto dopo queste due ‘prime’ fu notevole e il soggetto tornò al cinema nel 1960 quando Bruckberger e Agostini si convinsero della sua piena validità e lo trasportarono in pellicola con il titolo Le Dialogue des Carmélites, inspiegabilmente espresso al singolare, affidato a grandi attori. Oggi, nonostante tutto ciò è quasi dimenticato e il soggetto ha vinto la sfida del tempo grazie al capolavoro musicale di Francis Poulenc.
Per quanto riguarda la parte prettamente musicale possiamo dire che, in generale, è concepita per realizzare quel ‘taglio cinematografico’ poc’anzi citato, con una sequenza di scene rapida ed incisiva, valorizzata da una linea di canto piuttosto orientata verso il recitativo/declamato molto espressivo e intenso per mettere in risalto la drammaturgia.
Per trovare la chiave di lettura di questo capolavoro novecentesco ci sembra importante citare testualmente la dedica del musicista che accompagna la partitura:
“Alla memoria di mia madre, che mi ha dischiuso alla musica, di Claude Debussy, che mi ha donato il gusto di scriverla, di Claudio Monteverdi, Giuseppe Verdi, Modest Musorgskij, che mi sono serviti da modello”.
Queste poche, ma significative, parole ci fanno capire che il musicista è orientato verso una forma compositiva che crei una efficace fusione tra azione teatrale, testo e musica, elemento determinante della produzione operistica di questi tre grandi pur se appartenenti ad epoche tra loro lontane ai quali si aggiunge l’abilità strumentale ed espressiva della musica di Debussy, in particolare della straordinaria esperienza del Pelléas.
Apprezzabile nella musica è l’elemento ambientale che mette in risalto la particolare atmosfera dell’epoca dominata dal Terrore e dalla conseguente violenta disumanità. Nella partitura c’è una cospicua presenza di brani sacri, un Requiem, un Ave Maria e un Ave verum per giungere fino allo straordinario Salve Regina conclusivo. Molto elegante è l’orchestrazione spesso raffinata nella scelta degli strumenti con un uso molto frequente dei legni per parti strumentali che, con una certa frequenza, né connotano l’evidente dimensione cameristica, genere per il quale Poulenc dimostra una certa ed esperta confidenza. Importante è anche la parte affidata alle percussioni, protagoniste fondamentali per la realizzazione del finale.
L’opera è suddivisa in tre atti e dodici quadri con la presenza di frequenti interludi ai quali giova l’abilità ‘sinfonica’ di Poulenc ma che hanno anche la funzione di rendere fluida la narrazione resa intelligibile anche dall’uso pressocché costante del declamato. Le linee vocali affidate ai singoli personaggi, soprattutto quelli femminili, sono spesso costellate di improvvisi passaggi di registro ma mai al limite dell’ineseguibile come spesso la musica del secondo ‘900 presenta ma, ovviamente, viste le caratteristiche appena esposte, richiede da parte dei cantanti una dizione del tutto chiara e comprensibile.
L’opera nell’insieme gode di una chiara unitarietà tra le varie componenti musicali anche se, dobbiamo dire, alcune volte risulta un poco monotona, una particolarità che alcuni critici, nel lontano 1957 dopo la rappresentazione scaligera, non mancarono di mettere in evidenza nei loro resoconti.
Ci sono, però, dei momenti indiscutibilmente magistrali tra i quali ne vogliamo mettere in evidenza due. Il finale del primo atto con la tragica morte di Madame de Croissy, la Priora del convento, che giunge al termine della sua vita gravemente malata, condizione alla quale non si arrende vivendo il momento del trapasso con intenso dolore interiore, una morte che provoca la disperazione di Blanche de la Force la novizia da lei accettata tra le carmelitane. Un episodio esaltato da dialoghi asciutti e drammatici che la musica riesce a rendere efficacemente teatrale.
Poi il gran finale dell’opera, una pagina che ci ha fatto uscire dal teatro con la netta sensazione di aver assistito ad un evento tragico ma irripetibile. Le 16 carmelitane sono state condannate a morte. Rinunciano alla fuga perché la convinzione religiosa non consente loro di abbandonare la sacralità del convento. Dovranno subire, una alla volta, la ghigliottina, destinazione alla quale si recheranno, convinte pienamente della loro decisione e cantando il Salve Regina. La discesa della lama sulla loro testa è rapida, realizzata con un suono secco e sinistro messo in evidenza dalle percussioni. Muoiono una dopo l’altra con la felicità nel cuore; con il procedere delle esecuzioni il canto del Salve Regina si affievolisce progressivamente fino a divenire esile quando la lama sta calando su Constance de Saint-Denis che è la quindicesima. Manca Blanche perché aveva deciso di nascondersi. Constance sembra esitare ma all’improvviso appare Blanche cui la fede interiore le ha imposto di andare al supplizio. Constance la scorge e all’improvviso riacquista la tranquillità; la lama cadrà anche su lei prima che il supplizio pone fine anche alla vita di Blanche. Un finale per certi versi grandioso, tanto affascinante quanto coinvolgente, che suggella l’opera in una maniera indiscutibilmente magistrale.
Per riferire di questa edizione ascoltata al Teatro dell’Opera iniziamo, come di consueto, dalla parte visiva, la componente dello spettacolo che, oggi, favorisce ampie discussioni circa le scelte e le soluzioni rappresentative adottate dai registi responsabili di tutto l’allestimento.
Questo nuovo allestimento che, ricordiamo, è in coproduzione con il Teatro la Fenice di Venezia, è stato firmato dalla regista palermitana Emma Dante. Le sue realizzazioni nel campo del campo del teatro sono spesso fonte di dibattiti sia tra gli addetti ai lavori sia presso tutti gli appassionati, sempre contrapposti tra chi teme le sue scelte registiche e chi invece, al contrario, le accetta in pieno. Per giudicare anche questa regia d’opera dobbiamo necessariamente partire dalla sua carriera in campo teatrale. Il suo curriculum ci dice che la sua attività si è svolta, e si svolge, prevalentemente nel campo del teatro di prosa per il quale ha ricoperto, oltre al ruolo di regista, anche quello di drammaturga. Le sue messe in scena sono molto apprezzate soprattutto perché riesce a costruire spettacoli che riescono ad essere il frutto di uno scavo completo dei diversi elementi giungendo fino al nocciolo del dramma e fornire rappresentazioni del tutto affascinanti e coinvolgenti.
Come per molti registi del teatro di prosa, anche a Emma Dante è stata data la possibilità di condurre spettacoli operistici che sono sempre spettacoli teatrali ma con un elemento in più che risulta essere determinante: la musica. Per di più un’opera lirica e quasi sempre il frutto di una sorta di rivisitazione di lavori originari teatrali, anche letterari, operati da librettisti anch’essi molto attenti allo svolgimento drammaturgico che hanno prodotto lavori che il più delle volte sono andati in mano a musicisti in possesso del senso del teatro e del dramma. Quasi sempre quanto concepito per le opere liriche è legato all’epoca di ambientazione del dramma rappresentato elemento che la musica creata per la realizzazione tiene in perfetto conto questo non trascurabile componente.
Emma Dante tende sempre, però, a personalizzare eccessivamente le sue scelte teatrali che, a volte, entrano in contrasto con l’opera rappresentata. Con Dialogues des Carmélites questo fenomeno si è ripetuto. Con certezza possiamo affermare che l’essenza del dramma, il sacrificio delle suore carmelitane che decidono di morire per il loro ideale religioso, era ben presente ed anche efficacemente rappresentato. Ma alla realizzazione ha voluto aggiungere una altra ‘lettura’. Certamente il dramma che si consuma nei Dialogues è, in pratica, tutto al femminile; i ruoli maschili appaiono decisamente in secondo piano e, quindi, ha voluto centrare tutto sulle carmelitane e le loro storie personali di donne, che prima di prendere il velo avevano storie, amori, sensazioni e vite diverse e sulla loro forza interiore che le porta ad essere vere e proprie combattenti. Un’ottica che può essere senza dubbio condivisibile ma che porta avanti con alcune forzature nella narrazione scenica. Frequenti sono gli utilizzi di elementi simbolici dei quali spesso non si afferra il significato come la comparsa sul palcoscenico di alcune suore in bicicletta e l’utilizzo di oggetti particolari come una carrozzina da infermo sulla quale siede il Marchese de la Force e la figlia Blanche. Particolare attenzione la Dante ha prestato nel rendere l’ambiente oppressivo del convento inserendo però delle forzature al momento della cerimonia di iniziazione della novizia.
Come accade sempre più di frequente sono stati proposti costumi non specifici dell’epoca rappresentata, e del tutto inadatti a suore forgiati a mo’ di corazza, forse a significare il lato guerresco poco prima citato, ma che sono stridenti alla vista fino al punto che quando nel finale le suore sono vestite con tuniche bianche si arriva quasi ad una sorta di senso di liberazione. Poi c’è stato l’utilizzo continuo dei mimi che seguono come ombre i vari personaggi, una soluzione scenica ormai inflazionata che gli spettatori subiscono in silenzio, che non fa nemmeno più notizia ma sicuramente appesantisce l’azione, anche se dobbiamo mettere in risalto l’assoluta professionalità dei 14 mimi utilizzati, impossibile da citare singolarmente, che la Dante ha portato con sé anche qui a Roma.
Nei due momenti chiave, però, Emma Dante ci ha convinto pienamente con un avvincente momento della morte della Priora ed il grandioso finale che è riuscito a comunicare al pubblico tutte le tensioni del momento grazie all’utilizzo della serie di cornici mobili, che hanno caratterizzato l’intero spettacolo, create per contenere la personalità e i movimenti di ognuna delle suore martirizzate orientate durante tutta la recita a seconda della necessità scenica. Tutta la parte visiva è stata realizzata con le scene di Carmine Maringola, i costumi di Vanessa Sannino, le luci di Cristian Zucaro e i movimenti coreografici di Sandro Campagna, tutti artisti di grande professionalità che sono riusciti a concretizzare quanto disposto da Emma Dante.
Per quanto riguarda la compagnia di canto si è rivelata del tutto valida. Iniziamo con la prova di Anna Caterina Antonacci, che proprio in questa edizione romana debuttava nella parte di Madame de Croissy, e che ci ha dato una Priora del tutto convincete scenicamente e vocalmente considerando anche le caratteristiche della parte che risulta piuttosto ‘grave’, eseguita la prima volta da cantanti dalla voce scura come Gianna Pederzini alla Scala, presente anche nella prima di Roma del 1958, e il contralto francese Denise Scharley che contribuirono al successo di questa partitura. La Antonacci soffre un poco questa tipo di vocalità ma la sua prova è stata intensa e coinvolgente, per certi versi anche superba, ed ha reso questo suo ‘debutto’ particolarmente felice ottenendo alla fine un successo risultato il più cospicuo come intensità di applausi.
Un’altra star di oggi, il soprano Corinne Winters, ci ha dato una Blanche de la Force dalla voce fresca ed elegante che ha reso bene l’indole giovanile specifico del personaggio fino al grande ‘ripensamento’ finale per una prova del tutto convincente che è stata apprezzata dal pubblico. Nelle altre tre parti principali femminili c’erano il soprano Ewa Vesin una elegante Madame Lidoine, il mezzosoprano Ekaterina Gubanova efficace Marie de l’Incarnation ed il soprano leggero Emöke Baráth una brillante Soeur Constance de Saint-Denis ottenendo tutte un buon successo personale.
Nelle parti principali maschili altri due cantanti molto apprezzati, il baritono Jean-François Lapointe come Marquis de la Force e ed il tenore Bogdan Volkov come Chevalier de la Force.
A completare il cast il tenore polacco Krystian Adam (Cappellano), il baritono Alessio Verna (Carceriere), William Morgan (Commissario) e il baritono Roberto Accurso (Ufficiale). Sono stati utilizzati anche diversi cantanti provenienti dalle ultime edizioni di “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma: Irene Savignano (Mère Jeanne de l’Enfant-Jésus), Sara Rocchi (Soeur Mathilde) e Andrii Ganchuk (Thierry e Javelinot).
Da sottolineare anche la convincente prova del coro alla cui direzione ha debuttato Ciro Visco che ha assunto l’incarico a partire dalla Stagione 2022/2023.
Michele Mariotti ha diretto l’Orchestra del Teatro dell’Opera offrendo una conduzione musicale del tutto valida nell’insieme che il pubblico ha applaudito rendendo questa sua prima inaugurazione come direttore musicale del teatro romano del tutto positiva.
Alla recita alla quale abbiamo assistito (6 dicembre), ultima di quelle programmate per il capolavoro di Poulenc, era presente un foltissimo pubblico, finalmente numeroso al limite della capienza della sala, che al termine ha applaudito a lungo tutto gli interpreti chiamati più volte al proscenio testimonianza di un completo gradimento da parte di tutti i presenti.
Claudio LISTANTI Roma 11 Dicembre 2022