L’esordio italiano di Georges de La Tour. “L’Europa della luce”, a Milano la grande mostra

di Francesca CAPPELLETTI*

Georges de La Tour. L’Europa della luce

Introduzione alla mostra

Il recupero della figura di Georges de La Tour (1593-1652) è uno dei più grandi risultati della storia dell’arte nel secolo scorso, tale da far scrivere nel 1972 a Jacques Thuillier

La Tour est le triomphe de l’Histoire de l’art, et sa justification. Car La Tour n’existerait pas sans l’Histoire de l’art. A peine mort, celui qu’on tenait par peintre fameux, glisse pour près de trois siècles dans l’oubli. Seul le lent travail des historiens de l’art a pu ce miracle. Restituer, à partir d’un simple nom, l’un des plus grands peintres du 17ème siècle[i].

Come si leggerà più volte in catalogo, fu infatti soltanto nel 1915 che Hermann Voss, studioso tedesco del barocco, scrisse un articolo in cui stabiliva una relazione fra tre dipinti da lui osservati in un viaggio in Francia prima dell’inizio della guerra, collegandoli alla personalità di un certo Georges Dumesnil de La Tour, all’epoca soltanto un nome senza opere, sul quale era stata avviata solo una ricerca documentaria negli archivi francesi alla fine dell’Ottocento da parte di Alexandre Joly.

Il sogno di San Giuseppe

Due delle tele pubblicate da Voss sono quelle ancora oggi conservate a Nantes: il Sogno di san Giuseppe e la Negazione di san Pietro, quest’ultimo recante la data 1650, punto di riferimento cruciale per gli studi futuri, destinata a rimanere una delle poche certezze nella cronologia del pittore; la terza è il Neonato di Rennes, una scena di impressionante originalità in cui il mistero della nascita appare per una volta sganciato dall’elemento religioso dell’avvento di Cristo.

Con l’aiuto di una stampa raffigurante un’altra versione del Neonato, della bibliografia e dei documenti fino ad allora recuperati da Joly, Voss tracciava un primo profilo dell’artista dimenticato[ii], che doveva così assurgere a protagonista della pittura prima francese e poi europea; un genio isolato in Lorena, sua terra natale, da dove si mosse unicamente, almeno secondo le fonti, per recarsi alla corte parigina fra il 1639 e 1641. Nonostante la vita passata in periferia, La Tour sarebbe riuscito a fornire la sua personale interpretazione della pittura a lume artificiale e della scena di genere, due degli ambiti cruciali di tutta la pittura europea del Seicento, che legano le esperienze di pittori italiani, francesi, fiamminghi, olandesi e spagnoli.

La mostra, oltre a portare per la prima volta in Italia un numero consistente di dipinti di La Tour, cerca soprattutto con alcuni, essenziali confronti, di mettere in luce i diversi apporti all’elaborazione della scena di genere e del notturno, inteso come sperimentazione del lume artificiale, in contesti contemporanei allo svolgersi del percorso dell’artista.

Dall’inizio del secolo scorso a oggi le ricerche documentarie e le letture storico-artistiche si sono intensificate e la ricomposizione della personalità del pittore lorenese, attraverso l’analisi di opere che erano conosciute e ammirate ma che andavano sotto i nomi di altri pittori, con un ventaglio di riferimenti dagli olandesi agli spagnoli, si è avviata sui binari della coerenza stilistica, con talune discordanze nell’affrontare il problema delle date e talvolta dell’autografia stessa dei dipinti, come mostra magistralmente Dimitri Salmon in questo catalogo.

Gli studi, ma soprattutto le mostre, da quella seminale del 1934 curata da Charles Sterling e Paul Jamot, “Les peintres de la réalité en France au XVIIème siècle”, alla fondamentale ricostruzione del suo percorso proposta da Jacques Thuillier e Pierre Rosenberg nella mostra curata all’Orangerie da Pierre Landry nel 1972, hanno esposto nuove opere e formulato ipotesi sulla sua formazione e sull’origine dei suoi dipinti notturni. Come ricorda ancora Pierre Rosenberg in queste pagine, il catalogo della mostra del 1972 venne stampato una seconda volta per dare conto delle riflessioni generate dall’aver potuto vedere per la prima volta alcuni dipinti, anche a confronto fra di loro.

La novità e gli entusiasmi delle scoperte e del dibattito in occasione della mostra parigina furono evidenti dal numero e dall’importanza delle recensioni. In particolare va ricordata quella di Anna Ottani Cavina su “Paragone”, che non solo attirava l’attenzione, con un importante inedito, sul problema delle incisioni che avevano portato alla prima definizione del catalogo di La Tour, ma invitava a non fermarsi al cliché dell’artista misterioso e inspiegabile, anzi, esortava a forzare, come lei stessa faceva, questa immagine, sull’esempio di quanto stava accadendo per Caravaggio, per il quale gli studi dimostravano come

“le possibilità di avvicinamento all’artista, soprattutto a un grandissimo artista, siano direttamente proporzionali alle conoscenze che noi possediamo del suo mondo e come il compito dello storico sia quello di elaborare una cartografia così dettagliata dell’epoca che consenta di associare dei fatti non più casualmente contemporanei ma in rapporto effettivo di necessità, in quanto trascelti dalla totalità finalmente conosciuta dei fenomeni[iii].

Lo sforzo di seguire queste indicazioni è alla base della mostra e del nostro catalogo, che grazie a Matteo Mancinelli e a Manfredi Merluzzi si avventura nella “cartografia dell’epoca”, cosa forse già nelle aspirazioni dell’esposizione curata nel 1996 da Philip Conisbee a Washington, che già fin del titolo, “Georges de La Tour and His World”, ampliava il materiale di riferimento iconografico a disposizione e tentava una cronologia che non separasse tipologicamente i quadri “chiari” dai notturni, concentrandosi sul significato e sulla tecnica esecutiva dei dipinti, nonché sulla cultura dell’artista.

Della possibilità di vedere in La Tour una personalità più complessa nell’affrontare i temi popolari [?] scriveva all’epoca Gail Feigenbaum, che in questo catalogo riprende le fila di quel più che ventennale discorso; nella stessa sede Jean-Pierre Cuzin, con la consueta acutezza, rivolgeva il suo sguardo al Nord oltre che alla pittura francese postcaravaggesca[iv] nel cercare di comprendere le fonti di La Tour, che oggi, in questo nostro catalogo, definisce “pittore europeo”.

Nel 1997, l’anno successivo alla mostra americana, andava in scena ancora una volta a Parigi l’immagine del pittore emersa dalle ricerche di quasi un secolo intero, con il catalogo a cura di Jean-Pierre Cuzin. Alle conclusioni della mostra del 1972, al suo secondo catalogo e agli studi e agli assestamenti che questi avevano provocato, anche rispetto a una nuova dislocazione di lavori, seguiva una ricostruzione, attraverso le copie conosciute, dell’opera perduta di La Tour: un esperimento di fondamentale importanza, completato nel 2000 dal catalogo di Orléans. Si cercava così di colmare – con l’aiuto di versioni di bottega di originali scomparsi, a volte di eccezionale livello qualitativo, come le derivazioni del San Sebastiano curato da Irene – momenti chiave del percorso del pittore, come la sua presenza alla corte di Luigi XIII.

Nel 2016 la rassegna curata al Prado da Andrés Úbeda de los Cobos e da Dimitri Salmon ha proposto quasi l’intero catalogo dell’artista, segnando un ulteriore punto di riferimento per gli studi.

Nonostante la possibilità di confronto fra le opere e gli approfondimenti coraggiosi, il silenzio dei documenti continua a lasciare allo stadio di ipotesi la formazione del pittore, soprattutto la possibilità del viaggio in Italia; viaggio che, secondo alcuni, consentirebbe di legare La Tour in maniera concreta all’esperienza del caravaggismo. Va ricordato che la recensione di Roberto Longhi ai “Peintres de la réalité” del 1934, comparsa in “L’Italia letteraria” nel 1935, annunciava già dal titolo – l’eloquente “I pittori della realtà in Francia ovvero i pittori caravaggeschi del Seicento[v] – l’equazione, che spesso sarebbe stata ripetuta, fra realismo e caravaggismo, fra La Tour e i seguaci del maestro lombardo. Lo studioso vedeva La Tour uscire dalla mostra da trionfatore, manifestando un temperamento da “gentiluomo mascherato del caravaggismo”, uno straordinario genio isolato che aveva costruito il suo “fortino caravaggesco a Lunéville”, senza particolare necessità di recarsi in Italia per raggiungere gli straordinari livelli di “artificiosa surrealtà della luce”.

Per Longhi era probabile che non avesse mai fatto il viaggio in Italia; anzi, proprio l’essersene tenuto lontano e aver conosciuto il maestro lombardo attraverso Honthorst oppure grazie ai suoi conterranei lorenesi l’aveva aiutato a “dare, dei principi caravaggeschi, un’interpretazione così a parte, per nulla servile”.

Ancora oggi, nei contributi sul pittore lorenese, ci si interroga in realtà sulla singolare coincidenza dei soggetti con quelli di Caravaggio: bari, zingare, la Maddalena isolata … motivi che tuttavia potevano anche essere stati divulgati dalle copie o tratti dalla cultura nordica persino precedente a Caravaggio. Un impatto della circolazione di opere e di idee strettamente contemporanee non si può certo escludere; il ruolo di Louis Finson di ritorno a Tolosa e quello di Abraham Vinck ad Anversa, per esempio, possono aver fatto sì che esempi di moderno e drammatico luminismo siano materialmente transitati in botteghe francesi e nederlandesi in maniera precoce, mentre alcune copie da Caravaggio si trovavano in Francia già intorno al 1610[vi]; nel corso degli anni venti è soprattutto Gerrit van Honthorst a trasferire ai suoi contemporanei nordici quanto aveva appreso a Roma, anche se, al momento attuale degli studi, non si può non tenere conto delle variazioni dello stile di Gherardo al momento del ritorno in patria[vii].

Honthorst è senz’altro la figura cardine nell’elaborazione della tensione luminosa delle scene. Nelle opere successive al 1621-1622, con la forza del distacco geografico e psicologico dalla Roma postcaravaggesca, e grazie proprio all’effetto di lontananza, continua a praticare la scena notturna per poi arrivare a straordinarie formulazioni della perspicuità delle superfici, evidenti nel San Sebastiano della National Gallery di Londra. Come ci ricorda Gianni Papi in questo catalogo, da lui dipendono le sperimentazioni compositive, non solo rispetto ai notturni, di maestri ancora anonimi e di Paulus Bor e di Adam de Coster, spesso avvicinati o addirittura confusi con La Tour.

Di queste suggestioni e di questi slittamenti la mostra cerca di dare conto attraverso alcuni confronti, spesso anche di opere problematiche, connesse al nodo critico del Candlelight Master e della cappella della Passione in Santa Maria in Aquiro, storicamente messa in rapporto con alcune soluzioni latouriane e con la sua stessa presenza in Italia, su cui interviene Rossella Vodret in questo catalogo.

Anche l’ambiente internazionale intorno a Carlo Saraceni e al suo collaboratore lorenese Jean Leclerc è stato spesso chiamato in causa a proposito del viaggio, o forse del “mancato viaggio” di La Tour; e questo filo, nella trama complessa ed elusiva di rapporti e di somiglianze, non viene abbandonato nel percorso della mostra, ma evocato come una possibilità del trasferimento di idee verso la Francia, non solo la Francia della corte parigina ma anche dei centri della provincia.

Fra gli anni trenta e gli anni quaranta, in un momento ormai cronologicamente distante dall’esperienza caravaggesca, ma appunto al tempo della cappella della Passione, la scena notturna conosce ancora un certo successo e una relativa originalità. Se l’accezione proposta da La Tour, sempre abbinata a una resa drammatica del soggetto, sia di ambito quotidiano che religioso, sembra nella sua cristallizzazione raggiungere vette al di là del motivo, è possibile tracciare una mappa europea delle sperimentazioni in questo campo, recuperando in parte gli studi storico-artistici che, nella prima metà del secolo scorso, avevano cercato di indagare il fenomeno stabilendo delle relazioni fra i vari contesti, prima della chiusura in ambiti specialistici e quasi “nazionalistici”.

Erano infatti evidenti agli studiosi, fin dal principio del XX secolo, i legami esistenti nel Seicento tra la pittura italiana e gli artisti nordeuropei, soprattutto per quanto riguarda le invenzioni luministiche; gli storici dell’arte italiani in particolare si sono concentrati proprio sulla diffusione di quella che consideravano l’accezione caravaggesca del chiaroscuro e che dal maestro italiano sarebbe passata ai pittori europei del XVII secolo, con particolare riferimento agli spagnoli e agli olandesi.

Nei testi di Roberto Longhi[viii] e Matteo Marangoni[ix] si trovano significativi riferimenti ai “seguaci” del Caravaggio in materia di luce, cioè a coloro che erano riusciti a adottarne in modo efficace e originale: tra gli artisti in questo gruppo citati troviamo Rembrandt, Frans Hals e Pieter de Hooch, mentre di “maggiore comprensione della luminosità delle ombre” da parte degli artisti olandesi parlava Lionello Venturi[x], ritenendoli forse gli unici ad averne assorbito in pieno l’insegnamento.

Sull’importanza dell’arte italiana per la formazione degli artisti nordeuropei si tornò anche in alcuni significativi contributi da parte di due storici dell’arte di area tedesca: la relazione di Adolph Goldschmidt nel X Congresso internazionale di Storia dell’Arte di Roma e l’articolo Rembrandt und Italien di Fritz Saxl.

Nel primo caso, nonostante la relazione non ci sia pervenuta integra[xi], le osservazioni sull’uso della luce si concentravano su Adam Elsheimer e Gherardo delle Notti, considerati evidenti seguaci di Caravaggio e precursori di Rembrandt; per Fritz Saxl[xii] era necessario indagare le matrici luminose del maestro di Leida, non solo tramite la comprensione del suo utilizzo dell’arte italiana del XVII secolo, di cui Guido Reni e Caravaggio sono i due esempi più importanti e raffinati, ma anche attraverso le opere di artisti come Jan Lievens e Pieter Lastman.

Nell’ambito di una riscoperta dell’arte italiana del Seicento, un ruolo di fondamentale importanza viene giocato dagli artisti dell’Europa settentrionale che seguirono le “impressioni luminose” italiane, senza dubbio portate a compimento da Vermeer[xiii] che ha in comune, con Caravaggio e i caravaggeschi, secondo lo sguardo di primo Novecento, anche la raffigurazione sospesa della vita quotidiana.

Se gli studi monografici sulle singole personalità, con gli assestamenti dei cataloghi e della cronologia, hanno ovviamente portato a modificare questi approcci, tuttavia la ricchezza di intuizioni e di argomentazioni va in qualche modo conservata, non certo per risolvere questioni critiche che al momento non possono che restare aperte, ma per approfondire la storia della scena di genere e del quadro a lume artificiale, due ambiti di intensa ricerca, intellettuale e artistica, del Seicento europeo.

Francesca CAPPELLETTI    (Introduzione al Catalogo della mostra)

*Ringraziamo l’autrice per aver concesso la pubblicazione della Introduzione

NOTE

[i] Thuillier 1972, p. 27 [manca l’intervallo di pagine completo per la biblio]: “La Tour è il trionfo della Storia dell’arte, e la sua giustificazione. Infatti La Tour non esisterebbe senza la Storia dell’arte. Subito dopo la morte, colui lui, che pure veniva considerato un ‘pittore famoso’, scivola per quasi tre secoli nell’oblio. Solo il lento lavoro degli storici dell’arte ha compiuto il miracolo di restituire, a partire da un semplice nome, uno dei più grandi pittori del XVII secolo”.
[ii] Voss 1915 [manca].
[iii] Ottani Cavina 1972, p. 4.
[iv] Cuzin 1996.
[v] Longhi 1972.
[vi] Brejon de Lavergnée in Paris 2018; e per il mercato parigino Szantò 2007.
[vii] Per il ruolo dell’Honthorst “romano” su La Tour si rimanda al saggio di Gianni Papi in questo catalogo.
[viii] Longhi 1927; Longhi 1929.
[ix] Marangoni 1917.
[x] Venturi 1910.
[xi] Venturi 1912; Venturi 1913.
[xii] Saxl 1924.
[xiii] Longhi 1929; Marangoni 1923.