di Stefania MACIOCE
Il Tristo Mietitore: Böcklin e le immagini del contagio
La figura del Tristo Mietitore è una personificazione della morte frutto di un immaginario collettivo, una creatura irreale che assume un vaga forma umana. Tra le diverse declinazioni di questa rappresentazione gode larga diffusione quella dello scheletro che brandisce una falce, a volte vestito di un saio nero o di una tunica scura con cappuccio. Né buono né malvagio, esso è un’entità neutra, ha forme maschili ma più spesso femminili; come Thanatos, la divinità greca della morte, ha caratteri di brutale arroganza e aggressività e la sua potenza è inflessibile quanto inevitabile.
Al Tristo Mietitore si associa, nella tradizione figurativa, la diffusione di morbi mortali, di epidemie come la peste e il colera, ne risulta dunque una figura terrificante che attraverso la sua azione inesorabile, sembra quasi associarsi alla stessa etimologia del termine epidemia, derivante dal latino medievale [gr. ἐπιδημία, dall’agg. ἐπιδήμιος, propr. «che è nel popolo», comp. di ἐπί «sopra» δῆμος «popolo»]. L’epidemia è pertanto un fenomeno che domina una popolazione nel suo contesto, fino ad assumere proporzioni illimitate (pandemia secondo l’agg. gr. πανδήμιος «di tutto il popolo»).
Le descrizioni di pestilenze ricorrono nella letteratura a partire da Tucidide che, ne La Guerra del Peloponneso, riferisce della peste ateniese del 429 a.C.; Boccaccio nel Decameron narra del novellare di dieci protagonisti in luogo appartato, in seguito al flagello della peste fiorentina del 1348; ne I Promessi sposi Manzoni tratteggia la peste milanese del 1630. Nonostante le diverse impostazioni legate alle occorrenze letterarie dei singoli autori, nelle narrazioni si riscontrano diversi tópoi[1]. Ricorrono, infatti, la discussione sull’origine della malattia e dei relativi sintomi e decorsi; la notazione sull’incapacità della politica e dei medici nel contrastare il contagio; la conseguente desolazione delle città e delle campagne; la disgregazione del vivere civile, sostituito dal sospetto reciproco, e infine la mancanza di pietà per i moribondi e per i defunti.
Le città diventano vuote e silenziose, come riferisce nell’VIII secolo d.C. Paolo Diacono nella descrizione della peste di Giustiniano (541- 542):
«Prima avresti visto villaggi e accampamenti pieni di schiere d’uomini, il giorno seguente ogni cosa immersa in un silenzio profondo perché tutti erano fuggiti […]. Potevi vedere il mondo riportato al silenzio delle sue origini: nessuna voce nei campi, nessun fischio di pastore» [2].
Se ne ritrova un’eco secoli dopo nell’incedere di Renzo in una Milano deserta all’inizio del cap. XXXIV de I Promessi sposi: nelle strade si aggirano rari passanti, sospettosi e aggressivi. E’ una desolazione dovuta al cambio delle abitudini che spinge le persone a rinchiudersi nelle proprie abitazioni, come conferma Boccaccio quando riferisce che alcuni
«avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere; e fatta brigata, da ogni altro separati viveano»[3].
Tucidide sottolinea poi che, superato un certo periodo dall’inizio dell’epidemia, le persone cessavano di temere la legge in quanto sentivano di vivere già sotto una condanna a morte, la gente iniziava a spendere il denaro senza discernimento, conscia di non sopravvivere così a lungo per avvalersi di una buona reputazione rinunciava a ogni comportamento onorevole [4].
Altre figure caratteristiche di queste tristi circostanze storiche sono gli untori, coloro che diffondono il morbo, solitamente stranieri, che divengono nemici. Tucidide (II, 48, 2) riferisce infatti che all’inizio della pestilenza gli Ateniesi erano convinti che i Peloponnesiaci, entrati in guerra contro di loro, avessero avvelenato i pozzi. Nella peste manzoniana si imputa agli untori lo spargere polveri e unguenti:
«i forestieri, sospetti per questo solo, e che allora si conoscevan facilmente al vestiario, venivano arrestati nelle strade dal popolo, e condotti alla giustizia»[5].
Non mancano poi, nelle descrizioni di Boccaccio e Manzoni, gli sciacalli e gli speculatori che sfruttano le condizioni di bisogno o le paure della gente per rubare e arricchirsi.
Boccaccio ironizza poi sui medici:
«de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo»[6].
In effetti sedicenti esperti o pseudo-esperti sono altre figure tipiche di ogni epidemia, come polemizza lo storico Procopio di Cesarea (circa 490-560 d.C.) a proposito della peste di Giustiniano:
«Di solito, a che tra tutti i flagelli mandati dal Cielo gli uomini cercano di dare delle spiegazioni, con molta presunzione con vane ipotesi e sproloqui si dicono esperti in materia, su fenomeni assolutamente incomprensibili per l’uomo, e inventano strane teorie di scienza naturale, senza alcun senso»[7].
Costante sin dall’antichità è poi il tema della grande congiunzione astrale come quella tra Giove e Saturno, foriera di calamità, eventi drammatici e trasformazioni epocali, di cui tratta ad esempio, citando Albumasar ed Ermete Trismegisto, il Trattato della Peste, Et Febbri Pestilenti, pubblicato da Francesco Alessandro a Torino nel 1586 (p.2).
Questi tetri contesti hanno un considerevole riflesso nelle arti figurative, ove tra le varianti iconografiche del tema, la morte acquista valenze estetiche di sinistra suggestione anche sul piano delle attinenze simboliche.
Relazionabile alla figura del Tristo Mietitore è certamente Die Pest (The Plague) dipinto da Arnold Böcklin nel 1898, conservato oggi nel Kunstmuseum di Basilea. L’opera riflette l’ossessione dell’artista per la morte, legata anche alla perdita di diversi suoi figli. Di fronte alla distruzione spietata compiuta dalla morte, il pittore sembra richiamare la selvaggia palude o l’incompiuta invocazione alla costellazione del Grande Carro, rivolta dall’amico e poeta Gottfried Keller sul suo letto di morte nell’aspettativa di redenzione. Anche il genio di Aby Warburg, vogliamo ricordarlo, nel penoso ricovero di Kreuzlingen dei primi anni ’20, avrebbe cercato ripetutamente quella stessa preghiera all’Orsa Maggiore, meditando su un misterioso passo biblico sul suo male e su un antico proverbio greco: «O trósas iásetai», «colui che ha ferito guarirà».
Die Pest rappresenta il lato crudo e spietato della morte; un’implacabile creatura delineata in forma di scheletro femminile cavalca un’orrida bestia alata simile a un pipistrello (allora come oggi?).
Essa diffonde il morbo mortale sorvolando una città medievale nelle cui vie si distinguono cadaveri e persone ancora vive in fuga. Il riferimento storico è antico, verosimilmente la grande epidemia proveniente dalla Mongolia che flagellò l’Europa nel XIV secolo, a partire dal 1346. Oltre alle devastanti conseguenze demografiche, la pandemia nota come Peste nera ebbe un forte impatto nella società del tempo. La popolazione in cerca di soluzioni e rimedi arrivò talvolta a ritenere imputabili del contagio gli ebrei, dando luogo a persecuzioni; si attribuiva poi la propagazione del morbo alla volontà divina e di conseguenza ebbero origine svariati movimenti religiosi, tra i più noti quello dei flagellanti.
Nel dipinto di Böcklin l’antica iconografia medievale si coniuga alla livida atmosfera generata da una tinta indefinita, un amalgama tra il verde e il grigio da cui scaturisce un aere giallastro. La scelta delle cromie rimanda all’idea di decomposizione e ai miasmi pestilenziali, spicca poi il nero delle ali da chirottero del mostro che la Morte cavalca nel suo volo micidiale.
Il pittore aveva conosciuto in due diverse occasioni la tremenda esperienza dell’epidemia: nel 1855 a Roma, dove si era diffuso il colera e l’artista e la moglie si ammalarono; poi nel 1873, quando il colera aveva infuriato a Monaco e Böcklin era stato costretto ad abbandonare la città con i suoi per cercare rifugio in Italia a Firenze.
Questi angosciosi precedenti si traducono in sei disegni del 1876 per un dipinto intitolato Colera che però non venne mai eseguito. La ricerca inizia con due studi per l’intero quadro appena accennati, seguiti da un terzo studio, oggi nello Hessisches Landesmuseum di Darmstadt, che mostra l’ideazione ad uno stadio molto avanzato. Esso illustra una figura femminile, la Morte, che cavalca un mostro alato dalla testa piccola e aguzza nell’atto di alitare su una strada il suo soffio pestilenziale, a terra si trovano i corpi degli appestati che si dimenano tra gli spasmi della morte; a questo studio ne seguirebbero altri per la testa e il corpo del mostro.
Oltre venti anni dopo Böcklin dipingerà Die Pest riprendendo la formulazione iconografica in modo analogo agli studi precedenti anche se il taglio della composizione, nel dipinto di Basilea, è dissimile per la presenza di edifici che ne accentuano il senso di profondità[8].
Negli anni della maturità, l’inquieto genio della pittura simbolista sembra dunque subire l’ambigua seduzione del tema della morte, tradotto magistralmente nella lirica e desolata evocazione de L’isola dei morti, la sua composizione più celebre. Die Pest denuncia invece la veemenza di una punizione divina nell’illusorio contesto della Belle Époque. Sebbene il clima del dipinto di Böcklin rinvii ad un momento storicamente circoscrivibile, il soggetto rappresentato dall’artista si collega ad antecedenti medievali europei, tra i più vicini territorialmente quello nel Canton Ticino in Svizzera. Qui nella chiesa duecentesca di Sant’Ambrogio a Chironico, la decorazione a fresco nella controfacciata a sinistra del portale risale al 1340 e affronta il tema dei Novissimi. La Morte è descritta come una cadavere nerastro che contrasta marcatamente col fondo giallo; il viso tondo e il ghigno sdentato ne fanno una maschera quasi burlesca. La grande falce fienaia, impugnata con ambo le mani, trasmette con efficacia il suo memento mori ai due vicini esponenti del potere imperiale e papale, questi tentano invano di corrompere la Morte con l’offerta di vasi colmi di beni preziosi nella speranza di procrastinare la loro fine, ma la Morte è inesorabile: «Ego sum mors que omnia mordo, nec precium nec servigium umquam accipio» (Io sono la morte, che morde ogni cosa, né mai accetto denaro, né servigi).
Nella cultura d’immagine dell’artista, attraverso i suoi ripetuti soggiorni in Italia e a Firenze in particolare, possono essersi sedimentati altri riferimenti. Risale infatti al 1360 il Trionfo della morte che Bartolo di Fredi dipinge nella chiesa di San Francesco a Lucignano, un piccolo paese medievale della Val di Chiana
Due giovani si dedicano alla caccia ignari del sopraggiungere della Morte che, lanciata al galoppo sul suo cavallo nero, sta per scoccare il dardo mortale. Si tratta di una vecchia ossuta, col volto scavato e contornato da fluenti capelli bianchi al vento, possiede lunghe unghie ad artiglio e un’ affilata falce fienaia che pende dalla cintura bianca che lega alla vita la sua tunica nera. La vecchia proclama a gran voce le sue volontà:
«Io non bramo se non di spegner vita / e chi mi chiama le più volte schivo / giungendo spesso a chi mi torce il grifo».
Analogo è il tema dell’affresco risalente alla metà del XIV secolo con il Trionfo della Morte, nel Sacro Speco di Subiaco, l’antico monastero sviluppatosi attorno alla grotta ove San Benedetto trascorse i primi anni della sua vita monastica. Sulla parete della Scala Santa nella chiesa inferiore appare uno scheletro dai capelli al vento e le pupille nere che monta uno cavallo bianco, questo travolge corpi morti, tra i quali si riconoscono un religioso e un nobile.
La Morte impugna una grande falce nella mano sinistra, mentre con la destra munita di una lunga spada colpisce uno spensierato giovane che conversa con un amico: si tratta di due aristocratici a caccia, come dimostra il falcone sul pugno del giovane. Più indietro, invece, un gruppo di poveri vecchi e mendicanti chiede invano di morire, mentre una seconda scena descrive l’antica leggenda dell’incontro tra i vivi e i morti.
Il medesimo tema appare in tutta la sua straordinaria potenza a Palermo. L’affresco con il Trionfo della Morte emblema del gotico internazionale, è conservato oggi nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis, staccato dalla sua sede originaria nel cortile di Palazzo Sclafani. Opera nota e studiatissima, il dipinto è una gigantesca macchina didascalica, un’esortazione di carattere profano e teatrale nei confronti della morte.
Monito onnipresente da cui nessuno può fuggire, il trionfo è un allegoria di morte, ma ancor più un’ allegoria della peste che aveva devastato l‘isola nel 1442; originariamente l’opera si trovava infatti in un Ospedale. Durante il regno di Alfonso d’Aragona e sotto la protezione del pontefice Eugenio IV, nel 1435, si decise difatti l’acquisto di Palazzo Sclafani per farne la sede dell’ospedale Grande e Nuovo, il primo ospedale pubblico di Palermo.
Il mistero del trionfo palermitano viene accresciuto dalla leggenda che lo accompagna secondo la quale uno sconosciuto, curato nell’ospedale, volle far eseguire la grande opera in segno di gratitudine. L’artista che lo realizzò, quasi certamente tra il 1442 e il 1445, offre uno straordinario assemblaggio di consuetudini sociali e temi allusivi a problematiche politiche, religiose e morali, come in una tapisserie francese. L’artefice, indicato talora con il nome di Vincenzo Romano o Antonio Crescenzio, è di certo, come rammenta la leggenda dello sconosciuto, un pittore internazionale nella cui cultura pittorica confluiscono elementi catalani, borgognoni, napoletani e toscani.
Nel lussureggiante giardino incantato, bordato da una siepe, irrompe la Morte su uno spettrale cavallo scheletrito. Essa inizia a lanciare frecce letali che uccidono gli esponenti di tutte le fasce sociali. La prorompente vitalità dell’equus pallidus occupa il centro della scena e sembra quasi esibire le sue costole e la macabra anatomia della testa scarnificata mostrando, con una nota di sarcasmo, denti e lingua. La Morte, sebbene abbia sul fianco la falce suo attributo, ha appena scoccato una freccia, che è andata a colpire il collo di un giovane nell’angolo destro in basso. Nella stagione del gotico cortese, ove la cultura dell’immagine raggiungeva un altro livello di comunicazione, il tema del memento mori è ricorrente nelle corti principesche e negli ambienti socialmente più ricercati e mondani. Esso ha larga diffusione nelle bibbie illustrate e negli affreschi, tanto da suggerire non soltanto l’idea di un insegnamento morale, ma una riflessione più profonda in un momento in cui la società avvertiva il tramonto di un’epoca delineata con poetica sapienza nel celebre Autunno del Medioevo di Huizinga.
Il tema del macabro era stato sempre presente nel mondo medievale, anche se per lungo tempo era rimasto avulso dallo spirito religioso e non aveva necessariamente una connotazione negativa o paurosa.
Dai Paesi germanici provengono infatti nuclei iconografici relativi al tema della danza macabra che verte attorno all’azione livellatrice della morte davanti alla quale tutti gli uomini sono uguali, a differenza di come accade nella vita. In Italia questo soggetto viene adottato e traslato nel Trionfo della Morte che figura sulla facciata dell’ Oratorio dei Disciplini a Clusone, probabilmente influenzato dai Trionfi petrarcheschi;
alla danza macabra si lega sovente la leggenda dei tre vivi e dei tre morti, come nell’affresco di Buffalmacco nel Campo Santo di Pisa.
Come comprovano i testi letterari superstiti, i trionfi dipinti univano finalità didascaliche e consolatorie nel mostrare come la morte, rispetto a coloro che la implorano come liberatrice, colpisce con più sollecitudine i potenti, le persone felici, i giovani gaudenti.
Nel tempo l’’immagine della peste si associa comunemente allo scheletro alato pronto a mietere gli uomini e in tal senso si possono additare differenti tipi iconografici. A Clusone il trionfo assume un ruolo regale e giudicante pari al Cristo nel giorno del Giudizio, mentre dalla metà del Quattrocento i trionfi di impronta petrarchesca saranno i più diffusi, divulgati anche dalla stampa. Il tipo più noto però appartiene al modello indicato dagli affreschi di Palermo, Pisa e Subiaco ed è d’ispirazione apocalittica: la morte è di volta in volta una creatura mostruosa, demoniaca, scheletrica, o appare come il cavaliere che piomba dal cielo sul suo terribile equus pallidus.
Oltre alla rappresentazione della malattia, l‘associazione peste-cavallo-epidemia è descritta come immagine di morte e distruzione nell’Apocalisse di Giovanni, all’apertura dei primi sei sigilli.
«E vidi, quando l’Agnello sciolse il primo dei sette sigilli, e udii il primo dei quattro esseri viventi che diceva come una voce di tuono: “vieni”. E vidi: ecco, un cavallo bianco. Colui che lo cavalcava aveva un arco; gli fu data una corona ed egli uscì vittorioso per vincere ancora [ ] Allora uscì un altro cavallo, rosso fuoco. A colui che lo cavalcava fu dato potere di togliere la pace dalla terra e far sì che si sgozzassero a vicenda, e gli fu consegnata una grande spada. [ ] E vidi: eco (sic!), un cavallo verde. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli inferi lo seguivano. Fu dato loro un potere sopra un quarto della terra, per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra» (Apocalisse 6,2).
Dalla lettura profetica di Giovanni si ricavano dettagli iconografici: al secondo cavaliere che inneggia alla guerra, viene affidata la spada; il terzo ovvero la carestia, adotta la bilancia mentre la freccia resta il simbolo della peste. L’iconografia della morte a cavallo intenta a lanciare dardi mortali si ritrova anche in figurazioni di artisti del XV secolo. Inizialmente si tratta di una figura alata come nell’Allegoria della Peste Nera (ca 1437), oggi al Kunstgewerbemuseum Staatliche Museen di Berlino, attribuita a Giovanni di Paolo, qui la morte compare con le fattezze di un pipistrello (a quanto pare una costante!) e si evolve poi gradualmente nella vecchia alata dai lunghi capelli bianchi che brandisce una falce e dal suo volo plana sulla folla dei mortali.
Come nel Sacro Speco di Subiaco, la tematica trionfale sancisce una forma che conserverà poi per due secoli, contaminandosi con la figura del Quarto Cavaliere dell’ Apocalisse, fino a divenire uno scheletro privo di ali che mentre impugna la spada e la falce e si scaglia sugli uomini cavalcando un destriero bianco, i capelli lunghi rammentano la sua iniziale personificazione femminile.
Il dio greco Tahantos è forse all’origine di questa iconografia. Alla configurazione del Tristo mietitore contribuirà la graduale elaborazione dell’attributo specifico del Tempo, la falce. Questa raccoglie dunque nella sua valenza simbolica tradizioni antiche non codificate, ma ricorrenti in epoche diverse. Il simbolo infatti (dal lat. symbŏlum ‘contrassegno’, dal gr. sýmbolon, der. di symbállō ‘metto insieme’, der. di bállō ‘getto’, col pref. syn- ‘con, insieme’) raccoglie e fonde permanenti sedimentazioni di origine arcaica, ma anche di natura antropologica.
Il Tristo mietitore, o il Grim Reaper del mondo moderno, mantiene la sua veemenza comunicativa proprio attraverso il suo principale attributo iconografico: la falce. La stessa iniziale del vocabolo evoca altri termini sfavorevoli come famèdio (tempio funerario dedicato alla memoria di personaggi di rilievo, solitamente all’interno di un cimitero), ferale (luttuoso), feretro, fine, finitezza e finitudine. E sebbene caduta in disuso come strumento di lavoro, la falce persiste nell’immaginario collettivo come entità simbolica, sembianza indefinita della morte con la falce in mano. L’attrezzo agricolo che recide l’erba e il grano è anche intuitivamente associabile alla morte che recide la vita. Nel pensiero comune questa mette a tacere, taglia senza rispettare alcuna gerarchia , la sua azione livellatrice determina l’idea dell’uguaglianza dei viventi come rimarca la metafora manzoniana della falce che «pareggia tutte le erbe» (I Promessi sposi, capitolo XXXIV).
In una civiltà in cui il grano è il nutrimento basilare, la falciatura determina la fine del raccolto cioè il termine di una sequenza stagionale che inizia con la semina, prosegue con la fioritura e maturazione del frutto e culmina nel raccolto, ovvero la morte del frumento. Nel recidere la spiga la falciatura procura dunque la morte del grano e quindi l’esaurirsi di un ciclo naturale; è questa idea di fine che si associa simbolicamente l’iconografia della morte che si in qui si è voluto ripercorrere, essa falcia il frutto della nostra esistenza ormai giunto a maturazione, frutto che deve dunque morire per essere raccolto.
Nel famoso Autoritratto con la Morte che suona il violino, Böcklin si affianca ad uno scheletro pienamente consapevole di avere in pugno la vita e in procinto di ottenere la sua vittoria recidendo la corda del violino, così Die Pest nel richiamare la persistenza di un antico lascito iconografico, evoca la terrifica personificazione della peste, temuta e imprevedibile fine di un ciclo vitale.
Stefania MACIOCE Roma 24 maggio 2020
[1] L. Argentieri, peste, 3 marzo 2020, https://aulalettere.scuola.zanichelli.it/come-te-lo-spiego/il-contagio-luoghi-comuni-ieri-e-oggi/
[2] Historia Langobardorum II, 4, trad. A. Zanella)
[3] Introduzione, par. 20.
[4] Tucidide, La guerra del Peloponneso 2.53
[5] A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXI.
[6] Boccaccio, Introduzione, par. 13.
[7] Le guerre persiane, II, 22, trad. M. Craveri.
[8] M. Volpi Orlandini, Arnold Böcklin. Disegni. La Nuova Italia, Firenze, 1982, scheda 38; ID Böcklin. Dossier Art, Giunti, 2001.