di Roberto MARIOTTI
Ho sempre cercato di convivere con due esigenze diverse, contrastanti fra loro ma destinate pur sempre ad un accordo. La prima esigenza è quella di rispettare, nel progetto, l’inscindibilità tra concetto, disegno e forma. La seconda esigenza è quella di far vivere queste mie idee, fin dal loro nascere, in contesti (urbani o naturalistici), che dell’idea fossero non lo sfondo, bensì il luogo della misura. E se, come ovvio, non ero io a scegliere il contesto, mai ho inteso viverlo come un nemico, un freno alla mia opera.
Dunque l’ispirazione è una scintilla che nasce dallo scontro fra due modalità quasi sempre in conflitto (ne parlerò con più precisione in seguito). Una contraddizione forte, ma pur sempre la mia, di certo largamente irrisolta, ma segnale sicuro che io penso disegnando, come altri hanno fatto e teorizzato dentro lo studio.
Sto vagando dentro una materia complessa, fatta di ricordi personali e mondi condivisi con i compagni del Grau, come testimonia il mio recente libro (per ora in edizione solo digitale) intitolato All’ombra del disegno. E questa, di questo articolo, è l’occasione (di cui sono grato) per andare leggero e parlare del disegno, del mio disegno, nei termini più semplici e vissuti. Dentro quella tensione di cui ho in un certo senso bisogno. Dentro quell’artigianalità che chiamo sempre a mia testimone, la miglior compagna per rimanere ben saldi nel lungo viaggio.
Quando, in due riprese fra il ’10 e il ’12, lo studio ha visto acquisiti (e in parte donati) al Centre Pompidou di Parigi oltre 1000 disegni del periodo 1964-84, io mi sono sentito improvvisamente come nudo, spogliato non dei capolavori bensì della veste comune, quella di tutti i giorni, che ti assilla nei continui dubbi ma che alla fine ti da la regola. Mi mancava il paesaggio di quei rotoli di carta lucida che foderano in maniera rassicurante la tua stanza di lavoro.
Non mi sono perso d’animo e, senza fare tanti calcoli, mi sono messo a ridisegnare quanto non era più in mio possesso, abbinandoci del caso anche i progetti posteriori al 1984, quelli che sembrano essere oggi trasparenti alla comunità degli architetti. Qualcuno dirà che i disegni replicati, in particolare quelli relativi a un periodo storico ben delineato dalla critica, non sono disegni d’epoca, originali come si usa dire. Ma io vi invito a vedere queste carte come un ulteriore omaggio alla tela bianca, alle matite, alle biro … a chi fa questo mestiere. Capisco i musei e il loro essere nel mercato. Ma io ho una profonda necessità del disegno. Il disegnare è un modo per astrarmi dal quotidiano, una gara continua (anche in differita) con il pensiero degli altri dello studio, un rifugio silenzioso da mondi complessi che poco governo come lo scrivere e il parlare in pubblico. Il disegnare: che è anche, a dirla tutta, un godimento assoluto.
All’inizio ho detto di come vedo crescere l’immaginazione: nella necessità di comporre il dissidio fra il cosiddetto modello e il cosiddetto contesto. Ora voglio accennare ai modi con i quali procedo. Sono semplici (almeno a me sembra assolutamente di sì). Innanzi tutto la proporzione o, meglio, la ricerca di una proporzione. Poi le misure o, meglio, il controllo delle misure. Che è come dire (essendo proporzione e misura interne al disegnare stesso): proporzione e misure disegnate, ridisegnate, ridisegnate ancora. Non esiste un disegno in bella. Esiste un disegno che progredisce in forme ed espressività sempre diverse, ognuna funzionale (o meno) alla fase del pensiero che l’accompagna. Ecco, la cosiddetta funzione immaginativa la vedo attivata non nel mondo dell’empireo, bensì nella prigione di una misura e della conseguente proporzione. E vi ricordo che, parlando di misura e proporzione, queste si intendono applicate a segni storici (un balcone, un tetto, una specchiatura, un pilastro isolato…), perché nel caso la geometria è solo un veicolo, una convenzione. Ma della storia qui non posso certo occuparmi.
Quanto detto ci conduce al problema che tutti sembrano avere (sì, ce l’hanno veramente) ovvero il problema della rappresentazione. Ora io quel problema non ce l’ho, per il semplice fatto che per me tutto è disegno, tutto significa. Perché questo è il mio intendere, la mia speranza, la mia attitudine (e anche il mio rischio). Per altro una disponibilità che i lunghi anni di lavoro comune, quotidiano e sul tavolo con i compagni del Grau, ha arricchito di segni e modalità che nemmeno io sono più in grado di riconoscere. Uno stratificarsi di segni e intenzionalità che spesso sono apparsi come un secondo contesto, un orizzonte sognato a più mani. Una maniera che non posso ovviamente generalizzare ma della quale mi sento di dire che ha ben funzionato come bene di riferimento per tutti. Ci ho pensato a lungo, proprio preparando il libro di cui ho fatto cenno all’inizio. Sì, immaginare dentro la conquista di una proporzione è un modo di dire che ritengo utile, sensato e possibile, al di là di quella predisposizione al disegno che va, essa stessa, prima assecondata e poi messa a norma. E se poi la proporzione altro non è che la ricerca di un equilibrio che nessuno conosce prima di averlo acquisito, bene!, mi sembra con ciò di stare senza tanti strepiti ben assiso dentro quella modernità incerta, che tutti sognano di rappresentare.
A proposito di sogni. Pubblico come ultimo grafico di questo servizio su questa rivista, proprio il disegno di un contesto. Insomma un panorama, un paesaggio. Se ho detto il vero all’inizio, allora devo confessare che la mancanza di un mio modello, di una mia architettura (dentro questo contesto) mi lascia pieno di sensi di colpa. Perché del binomio ho bisogno, non essendo un pittore della domenica. E’una contraddizione? Sì. E’ però anche la semplice dichiarazione di un insopprimibile desiderio, quello di poter continuare a fare il proprio lavoro, che è quello di progettare disegnando. Anche quando l’architettura che il destino dovrebbe assegnarmi, tarda ad arrivare e io (nello scattare del vizio progettuale) mi attardo a osservare come una nuvola (che è in movimento) si vada comportando nei confronti di una collina (che è fissa).
di Roberto MARIOTTI