di Giulio de MARTINO
Paul Thorél è nato a Londra nel 1956, dopo aver vissuto a Parigi e a Roma, si è trasferito definitivamente a Napoli: la città della madre, la psicoanalista lacaniana Paola Caròla. Lì è morto, pochi giorni fa, per una feroce e incurabile malattia. Molti giornali hanno rievocato la sua figura di artista visivo, attingendo alle ampie risorse che sono on line (il MADRE di Napoli, la Galleria Guido Costa di Torino, il MUTINA Project for arts), ma pochi sono riusciti a definire con precisione di cosa si sia occupato.
La tendenza principale è stata quella di presentarlo come un «artista rivoluzionario». Si tratta di una espressione al tempo stesso vaga e eccessiva e, soprattutto, rispetto a Paul Thorél – persona come pochi mite, gentile, riservata – del tutto inappropriata. In realtà, Paul si è mosso in una zona grigia di non facile decifrazione, fra la fotografia e le arti visive, attraversata e esplorata con la mediazione delle tecnologie digitali di processamento e decostruzione delle immagini.
Non è stato un fotografo, in senso stretto, poiché non aveva la vocazione artigianale e sociale dei fotografi, ma non è stato neppure un grafico digitale, perché le sue opere non hanno la gestazione dentro un computer. Le sue immagini nascono dalla macchina fotografica, dentro le relazioni del fotografo con la realtà fisica e umana: hanno il «punctus a quo fluit linea» extradigitale. Ma dopo, incuneandosi tra fotografia e trattamento numerico dell’immagine Paul Thorel vi inserisce un elemento divergente, soggettivo, che si espande dentro il canale di trasmissione, dentro il «medium digitale».
Per questo, come fotografo/artista, ha sviluppato una ricerca diversa rispetto a quella di altri geniali fantasisti della fotografia come Antonio Biasiucci o Michele Zaza: non ha lavorato restando dentro i bordi dell’immagine (e dei suoi pixel). Per Biasiucci e Zaza, l’opera d’arte appare nel momento in cui la fotografia si rivolta contro il suo stesso oggetto: dentro l’immagine si sviluppa così un linguaggio autonomo, eterogeneo, pur restando l’opera una fotografia o un multiplo di fotografie. Si tratta di una linea che ha la sua origine in Man Ray: storie di altri mondi che entrano dentro la fotografia e la riplasmano.
Paul Thorél, invece, partendo dall’immagine fotografica – e adoperando i software digitali – si è allontanato completamente da essa. L’ha scomposta, l’ha frammentata e addirittura annichilita in un flusso di punti e di linee curve. Non si tratta di una semplice anche se ardita decorazione. In alcune opere ha conservato i differenti stadi di questo processo: da una immagine calda ha estratto – per gradi – flussi sempre più freddi: dettagli, curve colorate e astratte. Queste microimmagini, però, conservano, nascosta da qualche parte, una traccia infinitesimale della matrice fotografica originaria.
Essendo stato a contatto con Carla Accardi negli anni ’70, Thorél avrebbe potuto percorrere le vie dell’arte secondo le intuizioni della neoavanguardia della pittura. Ma fu presto sedotto dagli spessori inusuali e inauditi dell’immagine riproducibile. In una società plasmata dall’immaginario fotografico, cinematografico e, infine, televisivo decise di allontanarsi dalle oscillazioni del gusto di artisti, critici, galleristi e pubblico. Dal 1979 andò a studiare all’Institut National de l’Audiovisuel di Parigi e iniziò a guardare all’immagine riprodotta con la curiosità e la temerarietà di un artista estraneo all’arte.
La sua attività fu pionieristica: fotografo esploratore dell’immagine digitalizzata rimosse quel troppo di realtà (politica, sociale, esistenziale) che si insinuava in essa e che gli risultava sgradevole e eccessivo. La rivoluzione digitale – intervenuta tra i due secoli – gli avrebbe agevolato il cammino e lo avrebbe proiettato in una fervida dimensione creativa e produttiva alla quale solo una morte precoce lo ha sottratto.
In sostanza, la fotografia serviva a Thorél per liberarsi dell’oggettività del soggetto. Disintegrata la sua presunta compattezza, si spalancava la prateria di una microfisica della luce tradotta in pixel. Con campionature, interpolazioni, vettori e flussi, i chiari e gli scuri abbandonavano la figurazione iniziale e diventavano onde, frattali, superfici: ambient. Per comprendere Paul Thorél – oltre alla distinzione oggi divenuta familiare fra comunicazione in presenza e comunicazione a distanza – occorrere introdurne una seconda: quella fra la riproduzione in sincrono e la riproduzione in asincrono. L’arte di Thorél si sviluppa in presenza – con la fotografia prima e poi con le mostre, i supporti, i pannelli – ma si riproduce in forma asincronica, differita, poiché ciò che si vede viene da un altrove svaporato: lo spettatore riproduce nella sua mente tempi dissociati e frammentari.
In una intervista recente Thorél ha detto:
«Per me è stata sempre un’esigenza quella di utilizzare la tecnologia … bisogna assoggettare la tecnologia al proprio lavoro».
Frasi che spiegano il suo passaggio all’arte: dal rigore metodico e solitario della rielaborazione digitale delle immagini fotografiche faceva emergere una nuova immagine, non figurativa, neppure banalmente simbolica, ma astratta, anche se venata da un qualche sentimento.
Le sue mostre principali:
Derive e Spostamenti (Studio Trisorio, Napoli, 1998); Walk Like An Egyptian (Museo Archeologico Nazionale, Napoli 2003); Un-Vrai-Semblable (Maison Européenne de la Photographie, Parigi 2012); Tapestries (Guido Costa Projects, Torino, 2015); la mostra collettiva a fini benefici: Opere per la misericordia, ispirate alle Sette opere della Misericordia di Caravaggio (15 marzo -30 aprile 2017, Istituto Italiano di Cultura di Londra, con Marisa Albanese, Maria Thereza Alves, Carlos Alberto de Arauio, Antonio Biasiucci, Antonio Salvino De Campos, Roberto Caracciolo, Sandro Chia, Francesco Clemente, Ross Clifford, Flavio Colusso, Piero Golia, Douglas Gordon, Candida Hoeffer, Rachel Howard, Mimmo Jodice, Anish Kapoor, Joseph Kosuth, Jannis Kounellis, Henrietta Labouchere, Mariangela Levita, Olaf Nicolai, Mimmo Paladino, Giulia Piscitelli, Lorenzo Scotto di Luzio, Charles Skapin, Grazia Toderi, Nasan Tur, Franz West, Gilberto Zorio, David Batchelor, Ileana Florescu, Johnnie Shand Kydd).
Ultima sua grande istallazione il mosaico site-specific intitolato: il Passaggio della Vittoria (dal 22 giugno 2018, per il Museo MADRE di Napoli). Si tratta di un mosaico di 180 metri quadrati, realizzato con 1.832.400 tessere colorate – ognuna di 1 cmq – realizzato con il supporto industriale e creativo di Mutina for Art. Il mosaico decora le pareti della galleria che collega il cortile centrale del MADRE al retrostante cortile delle sculture. Si richiama, più che ai mosaici pompeiani, al mosaico bianco che ricopre, annerito di fuliggine e di smog, la volta della Tunnel della Vittoria: la lunga galleria (609 metri, terminata nel 1929) che congiunge a Napoli la via sottostante il Palazzo Reale e piazza Vittoria. Riproduce, con un flusso di forme, linee, onde e colori, il transito del visitatore, guidato come in un parto o in un rito di passaggio verso un ingresso che è anche una uscita.
Giulio de MARTINO Roma 31 maggio 2020