di Giusy EMILIANO
Kogut
L’artista Marco Angelini stupisce il suo pubblico con una nuova elaborazione del ciclo Kogut, nel quale elementi di uso comune come scampoli di stoffa, filo da cucito e carta sono esaminati attraverso la lente d’ingrandimento della sua distintiva arte materica-informale.
L’artista rielabora il ciclo del 2018 composto di dodici opere e lo incrementa con nuovi quattro lavori realizzati nel suo studio nel periodo del lockdown 2020 per il progetto di residenza artistica di Rossana Danile dal titolo Siamo Tessuto che prevede opere in dialogo con la Valle dei Templi di Agrigento. Se nel primo le mappe dell’aeroporto di Varsavia erano protagoniste, nel secondo ciclo di lavori troviamo le mappe dell’aeroporto di Roma Fiumicino, su cui Angelini interviene affrontando temi legati alle tradizioni e ai nonluoghi.
L’aspetto concettuale mai univoco è contaminato da due segni distintivi: quello poetico e una ricerca di equilibrio mai scontata.
Varsavia è il luogo osservativo, “utilizzata” da Angelini come fonte di ricerca e approfondimento culturale, come “volano” di continui cambiamenti, e rappresenta un legame coltivato negli anni.
Un Progetto d’arte che restituisce algoritmi parlanti, approfondimenti culturali creati a sottrazione di informazioni turistiche: non si può parlare di un’autentica innovazione politica e sociale di un tessuto urbano, se questa non avviene anche a livello artistico e culturale.
Nel ciclo Kogut (gallo in polacco) Marco Angelini compone opere in multistrato di differente formato offrendo una narrazione che porta con sé traccia di una tradizione integrata nel quotidiano.
La mappa aeroportuale è ricca di legende, cifre e numeri esposti in scala e ne rappresenta l’ordine e il rigore. La stoffa indica la tradizione polacca e diventa elemento narrativo-materico. Marco Angelini attua il gesto artistico nel lavorare dapprima tutti gli oggetti singolarmente, ritagliando le figure a lui congeniali e creando forme geometriche, in seguito cristallizzando tutti gli elementi sulla tela con l’intervento dell’acrilico pittorico.
Utilizzando il filo da cucito crea delle linee rette come a indicare un muro virtuale oltre il quale è intrappolata l’interpretazione dell’opera. Le successive fasi della realizzazione sono per così dire “obbligate” dalla natura stessa del soggetto rappresentato: tipico approccio dell’arte povera. Il Kogut (il gallo) è estrapolato dalla stoffa tradizionale polacca per essere poggiato sulla mappa e inglobato sopra la stessa a indicare che la tradizione è sovrana perché il passato alimenta il ritmo del presente.
La bellezza e l’estetica sono assunte dall’equilibrio evidente e dalla geometrica posizione degli elementi che portano con se traccia della ricerca. I fili da cucito, declinano la precarietà dell’opera perché nel tempo potrebbero spezzarsi generando una nuova vita.
L’interpretazione artistica del folclore popolare è quindi sovvertita e diventa un’icona prismatica differente da come potrebbe essere interpretata da un artista polacco. Angelini interpreta la cultura polacca con i suoi valori di riferimento creando una sub-cultura diametralmente contaminata.
L’integrazione all’interno del ciclo kogut della mappa dell’aeroporto di Fiumicino ha un chiaro significato: l’artista nella sua mente ha ben chiara l’urgenza di lavorare sulla doppia analisi innescata tra le due città Roma e Varsavia.
Il concetto è denso di significati: l’aeroporto è un nonluogo, un posto di transito di sospensione e di attesa. Questi luoghi agiscono sulla “tensione” dell’impossibilità di poter ripetere le azioni perché essendo transitorie, restano uniche e non ripetibili. In una primaria osservazione e restando in superficie le azioni appaiono mnemoniche e uguali, creando quindi smarrimenti.
I ritagli di stoffa folk polacca posti sulla mappa dell’aeroporto romano, creano nuove interpretazioni: l’oggetto sul quale poggia diventa cartina tornasole e l’opera cambia scaturendo un senso di self displacement, in bilico tra dentro-fuori.
Il punto di volta è nell’interpretazione di oggetti simili in chiave italiana che diventano un amplificatore dell’analisi della mobilità e spostamento esplorando l’aspetto post-identitario.
Ritengo che le opere di Marco Angelini interpretino il pensiero di Rosi Braidotti:
Nomade è un verbo, un processo attraverso il quale tracciamo molteplici trasformazioni e molteplici modi di appartenenza, ognuno dipende dal posto in cui ci troviamo e dal modo in cui cresciamo. Insomma, dobbiamo tracciare cartografie alternative delle nostre soggettività non-unitarie, cosi da poterci liberare dell’idea che possano esistere soggetti unitari, che appartengono a un solo luogo.
Giusy EMILIANO Roma 9 agosto 2020