L’italianità di Cracovia: un avamposto nell’est europeo di scambi culturali italo-polacchi

di Francesco PETRUCCI

Cracovia, dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’Umanità, è in effetti una delle città europee meglio preservate nell’originario tessuto urbanistico e nell’aspetto storico-architettonico, con edifici che testimoniano una vitalità ininterrotta, senza soluzione di continuità, tra medioevo, rinascimento e barocco.

Ho avuto modo di visitarla recentemente, in occasione dell’apertura della mostra sul pittore Szymon Czechowicz (1689-1775), polacco di nascita ma romano di formazione, la cui vasta produzione rappresenta un singolare fenomeno di espansione nell’est europeo della scuola romana del ‘700.

Un aspetto che caratterizza molti monumenti e manufatti d’arte conservati nella bellissima città, capitale culturale della Polonia, è l’evidenza dei forti legami culturali con l’Italia, favoriti dagli interessi artistici coltivati dai sovrani e dalla colta nobiltà polacca tra ‘500 e ‘800. La storia delle collezioni è peraltro un riflesso delle travagliate vicende della nazione, segnate da diaspore, confische belliche e il destino apolide dei mecenati con le loro raccolte, tra dispersioni e fortunati quanto rocamboleschi recuperi.

Di tali alterne vicissitudini sono emblema due opere capitali della storia dell’arte conservate a Cracovia: La Dama dell’ermellino di Leonardo da Vinci e Zeus che dipinge farfalle di Dosso Dossi.  Manca all’appello un illustre assente a completare la triade rinascimentale, il Ritratto di giovane gentiluomo di Raffaello, scomparso senza lasciare traccia dal 1945 dopo la confisca nazista.

Ma tanti sono i sentori di italianità: nella Basilica di Santa Maria, che si staglia con i due campanili asimmetrici sull’immensa Piazza del Mercato, sono presenti ben cinque pale d’altare di Giambattista Pittoni (1730 ca.), belle come capolavori di Tiepolo,[1] mentre nella cappella Potocki della cattedrale del Wawel campeggia la drammatica Crocifissione con le sante Francesca Romana e Elisabetta d’Ungheria del Guercino (1630), acquistata dal conte Artur Stanisław Potocki nel secondo viaggio in Italia del 1829-30.[2]

Numerose architetture recano evidenti caratteri romanizzanti, come la chiesa barocca di Sant’Anna, interamente decorata da vivaci stucchi di Baldassarre Fontana, divulgatore della tradizione scultorea berniniana acquisita tramite il magistero di Antonio Raggi, o la chiesa gesuita dei Santi Pietro e Paolo, le cui facciata e pianta sono ispirate al Gesù. Tra queste la chiesa degli Scolopi intitolata alla Trasfigurazione, con la facciata disegnata da Francesco Placidi mentre l’impianto si deve a Kacper Bażanka, che studiò a Roma presso l’Accademia di San Luca.[3]

Al Wawel

Il grandioso castello reale del Wawel che domina la città, deve il suo aspetto rinascimentale alla radicale ristrutturazione affidata da Sigismondo I (1467-1548) con la consorte Bona Sforza ad architetti italiani.

La cattedrale del Wawel ingloba la cappella di Sigismondo, pantheon della dinastia reale jagellonica, eseguita su progetto dall’architetto fiorentino Bartolomeo Berecci tra il 1519 e il 1533, ritenuta il più coerente esempio di architettura rinascimentale fiorentina a nord delle Alpi.

Il maniero al suo interno ospita testimonianze di ragguardevole interesse, come l’imponente ciclo di arazzi rinascimentali commissionati nelle Fiandre dai sovrani Jagelloni o la raccolta di tende ottomane in eccezionale stato conservativo sottratte da Giovanni III Sobieski nella famosa battaglia di Vienna (1683), che fermò l’avanzata turca in occidente.

Parati in cuoio veneziani

Il castello probabilmente costituisce, assieme al palazzo Chigi di Ariccia e al castello di Moritzburg vicino Dresda, un unicum a livello europeo per la presenza di numerosi ambienti ancora rivestiti con parati in cuoio dorato e decorato, che tra rinascimento e barocco erano diffusi in maniera generalizzata in palazzi e ville di tutto il continente.

1. Sala con parati in cuoio veneziano (1725-30 ca.). Cracovia, Castello del Wawel

I corami delle due dimore, polacca e tedesca, sono di manifattura veneziana e risalgono al XVIII secolo, mentre quelli della residenza chigiana come noto sono romani, alcuni di ambito berniniano, e furono commissionati prevalentemente nella seconda metà del secolo precedente.[4]

2. Sala con parati in cuoio veneziano (1725-30 ca.). Cracovia, Castello del Wawel
3. Sala con parati in cuoio veneziano (1725-30 ca.). Cracovia, Castello del Wawel

I parati del castello di Cracovia, che rivestono alcune sale dell’ala nord al secondo piano e la cosiddetta “Kurza Stopa” al primo piano (figg. 1-4), furono invece eseguiti negli anni ’20 del ‘700 a Venezia su commissione di Augusto II il Forte per decorare il castello di Moritzburg, il cui restauro fu diretto tra il 1723 e il 1733 dall’architetto Raymond le Plat.[5]

Agli inizi del XX secolo numerosi parati vennero rimossi e venduti dai proprietari della dimora tedesca – dove tuttavia molti si conservano in varie sale, compresi quelli dipinti con soggetti figurati -, per essere acquistati dall’antiquario Szymon Szwarc e donati al Wawel, ove sono appesi sin dal 1930. La donazione aveva un senso, poiché Augusto II, duca e principe elettore di Sassonia, fu re di Polonia, venne incoronato nella cattedrale del Wawel (1697) e qui è sepolto (1733).[6]

4. Sala con parati in cuoio veneziano (1725-30 ca.). Cracovia, Castello del Wawel

Poiché i corami non erano sufficienti a tappezzare le grandi sale, una parte fu rifatta imitando la tecnica originale, grazie ad una ingegnosa iniziativa di Wacław Szymborski, primo conservatore delle collezioni del castello, che negli anni ’30 fece risorgere l’antica manifattura di origine cordovana al fine di produrre multipli. I pannelli, fissati alle pareti con telai in legno e appesi con chiodi, come da tradizione, sono stati oggetto di interventi conservativi negli anni ’90 del secolo scorso e di approfonditi studi scientifici anche recentemente, soprattutto ad opera di Ojcumiła Sieradzka-Malec. Ci siamo incontrati nel maggio 2015 in una sua visita ad Ariccia, proprio per un confronto su tale argomento. [7]

I parati di Cracovia rivestono una particolare importanza per la conoscenza delle manifatture veneziane del XVIII secolo, i cosiddetti “cuoridoro”, ultimo riflesso di un’antica produzione artigianale risalente al rinascimento ed eclissatasi in età neoclassica, dato che, oltre a numerosi frammenti conservati presso il Museo Correr, pochi sono gli esemplari di interi parati ancora montati in palazzi veneziani: la piccola “Sala dei Cuoi” nel Palazzo Ducale, la sala della biblioteca di Palazzo Papadopoli, due stanze in Palazzo Vendramin-Calergi, un grande pannello a Palazzo Labia.[8]

La donazione Lanckoroński

Alcune sale del castello ospitano un distillato della prestigiosa collezione Lanckoroński, donata al museo di Cracovia con integrazioni successive tra il 1994 e il 2000 dalla storica dell’arte Karolina Lanckorońska (1898-2002), ultima erede dall’antica casata polacca. La parte restante, con opere barocche e neoclassiche, è confluita per volontà della studiosa presso il Museo Nazionale di Varsavia.

La raccolta, creata dal conte Karol Lanckoroński (1848-1933), padre di Karolina, insigne mecenate e collezionista, è stata studiata esemplarmente con un originale taglio iconografico da Jerzy Miziołek, eclettica figura di intellettuale, umanista, archeologo e storico dell’arte, già direttore del Museo Nazionale di Varsavia. Si tratta di un gruppo di dipinti italiani gotici e rinascimentali, molti dei quali nati con funzione decorativa di cassoni nuziali.[9]

La collezione originaria era conservata in buona parte nel Palazzo Lanckoroński di Vienna, ove rimase fino alla sciagurata confisca dal parte della Gestapo nel 1939. Molte opere furono distrutte durante la Seconda Guerra Mondiale, disperse o confluite in musei pubblici, come il Sant’Andrea di Masaccio (Malibu, The John Paul Getty Museum) o il San Giorgio e il drago di Paolo Uccello (Londra, The National Gallery).

L’arredamento delle sale, simile alle disposizioni dei palazzi nobiliari italiani, rifletteva il gusto del committente, che aveva fatto costruire la sua residenza viennese in stile neo-barocco (1894-95), manifestando apertamente la propria contrarietà agli algidi allestimenti positivistici e classificatori dei musei che in quegli anni si andavano formando. Il conte infatti aveva scritto in un ironico epigramma: “Cosa sono i musei? Sono i mausolei nei quali l’arte è stata sepolta con onore”.[10]

Un capolavoro di Dosso Dossi al Wawel

La donazione Lanckoroński al Wawel include un capolavoro assoluto: Zeus che dipinge farfalle di Dosso Dossi (1523-24 ca.), vertice non solo della produzione dell’eccentrico maestro, ma tra le opere più impressive dell’intero rinascimento (fig. 5).

5. Dosso Dossi, Zeus dipinge farfalle (1523-24 ca.). Cracovia, Castello del Wawel

Nella bibliografia sull’artista, anche successiva alla donazione del 2000, spesso è ancora riportata la precedente collocazione presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna, dato che il dipinto fu restituito alla famiglia dal tribunale di Vienna nell’autunno 1999, dopo una lunga causa legale durata mezzo secolo. È stata quindi una sorpresa ritrovarlo quasi in anonimato su una parete del Wawel, assieme ad altri dipinti meno noti, mentre una vecchia foto lo mostra al centro della parete lunga della “Grande Sala Italiana” del palazzo viennese (fig. 6), a rimarcare la sua eccezionalità in una raccolta pur prestigiosa.[11]

6. Inizi XX sec., Sala Italiana del Palazzo Lanckoroński di Vienna (da Jerzy Miziołek, 2018)

L’allestimento del Wawel, tenuto conto della diversificata provenienza delle opere, cerca di equilibrare arredamento, funzioni originarie degli ambienti e musealizzazione. Tuttavia nel caso del capolavoro del Dossi, come abbiamo condiviso con Miziołek che mi ha gentilmente accompagnato alla visita lo scorso 16 ottobre, sarebbe forse opportuna una sua presentazione singola, magari in uno spazio appositamente dedicato, data la sua importanza capitale.

Alla qualità altissima della pittura, che si compenetra ad un naturalismo e ad una sensibilità narrativa interattiva proto-barocca, corrisponde una complessa e criptica interpretazione iconografica, che sembra offrire più chiavi di lettura oltre l’accertato riferimento ad uno dei dialoghi negli Intercenales di Leon Battista Alberti (1440). Tra queste mi sembra senz’altro meritevole di considerazione l’interpretazione offerta da Édouard Pommier che vi legge una vera e propria allegoria della Pittura, emblema del primario ruolo sociale attribuito all’arte dalla cultura rinascimentale, come capacità di rappresentare l’invisibile scandagliando la profondità dell’anima, simboleggiata tradizionalmente dalla farfalla che il padre di tutti gli Dei, assimilato al creatore supremo, dipinge proibendo d’essere disturbato.[12]

Non a caso il quadro era molto apprezzato in età barocca, tanto che Pier Francesco Mola ne trasse ispirazione per una sua composizione d’identico soggetto (fig. 7)

7. Pier Francesco Mola, Zeus dipinge farfalle (1644-45). Stamford, Burghley House

eseguita durante il soggiorno veneziano del 1644-45 (Stamford, Burghley House), dato che nel XVII secolo la tela del Dossi era sicuramente a Venezia nella collezione del principe Ludovico Widmann (1568-1638).[13]

Al Museo Czartoryski

Un vero emblema di fine gusto collezionistico, valorizzato da un ottimo allestimento, è il Museo Czartoryski, ove è conservata una compagine multiforme di dipinti, sculture, arredi e memorabilia legati alla grande famiglia polacca. Sebbene il museo, il più antico della Polonia, risalga agli inizi del XIX secolo, l’allestimento è recente, successivo all’acquisizione da parte dello Stato Polacco della collezione del principe Adam Karol Czartoryski alla fine del 2016.

Anche in questo caso, oltre a capolavori fiamminghi e olandesi tra cui un raro paesaggio di Rembrandt, numerosi sono i fondi oro e i dipinti rinascimentali italiani, cui si aggiungono ritratti eseguiti da Pompeo Batoni e Marcello Bacciarelli, primo pittore del re Stanislao II Poniatowski.

8. Leonardo da Vinci, Dama dell’Ermellino (1488-89). Cracovia, Museo Czartoryski

Il gruppo di opere italiane è dominato da un apice supremo, il Ritratto di Cecilia Gallerani o Dama dell’Ermellino di Leonardo da Vinci (1488-89), cui opportunamente è stata dedicata nel nuovo allestimento una singola sala (fig. 8). Forse il più bel ritratto di Leonardo, come riteneva Federico Zeri, ma certamente uno dei ritratti più affascinanti di tutti i tempi, nella suprema sintesi tra idealizzazione e naturalismo, eleganza estrema della figura e senso interlocutorio per l’innovativo volgersi laterale, il tutto nella qualità insuperata dell’esecuzione pittorica. Un’opera fuori dal tempo, più classica dei ritratti del campione del classicismo, Raffaello, ma in anticipo rispetto alla ritrattistica barocca e al bello ideale della ritrattistica neoclassica esemplifica dalla Paolina Borghese di Canova.[14]

Faceva parte della stessa raccolta un altro capo d’opera, il perduto Ritratto di giovane gentiluomo di Raffaello (fig. 9),

9. Raffello, Ritratto di gentiluomo (Francesco Maria della Rovere? 1512-13 ca.). Già Cracovia, collezione Czartoryski
10. Raffello, Ritratto di Francesco Maria della Rovere (1509-11). Palazzi Vaticani, Scuola di Atene

forse quel Francesco Maria della Rovere duca di Urbino con sullo sfondo la sua città e patria dell’artefice, al confronto con il suo ritratto più giovanile nella “Scuola di Atene” (fig. 10).[15]

Un rilievo gesuita di Algardi

Tra le opere di arte decorativa, con straordinarie porcellane, argenterie, tappeti orientali e preziosa oggettistica, almeno tre di quelle esposte sono riferibili al Barocco romano. Di particolare interesse il rilievo in bronzo dorato raffigurante Santi e beati della Compagnia di Gesù, schedato come opera di Alessandro Algardi (1598-1654) e riduttivamente dal punto di vista iconografico come “St. Stanislaus Kostka’s Ordination into the Jesuit Order of 1567, 1629-30” (fig. 11).[16]

11. Alessandro Algardi, Santi e Beati della Compagnia di Gesù (1629 ca.). Cracovia, Museo Czartoryski

Effettivamente la scultura è in relazione con il rilievo in bronzo dorato che decora l’urna di sant’Ignazio da Loyola sull’altare del transetto sinistro della Chiesa del Gesù a Roma (fig. 12).

12. Alessandro Algardi, Santi e Beati della Compagnia di Gesù (1629). Roma, Il Gesù, Urna di S. Ignazio

L’urna venne fusa dai bronzisti Angelo Pellegrini e Francuccio Francucci su commissione di Padre Orazio Grassi, con contratto del 2 gennaio 1629 e l’impegno di portarla a compimento in otto mesi, mentre l’attribuzione del modello ad Algardi è stabilita, oltre che per motivi stilistici, dal disegno preparatorio conservato presso l’Ermitage a San Pietroburgo.[17]

Il bronzo Czartoryski è poco noto alla bibliografia specialistica sull’Algardi, se si esclude una breve scheda nella monografia di Jennifer Montagu sul grande scultore, senza peraltro pubblicarne l’immagine. La studiosa, che riferiva “I have not seen the bronze”, lo considerava una riproduzione tratta direttamente dallo stesso stampo dell’urna o da una sua replica, pur rilevando alcune variazioni e l’allargamento in un formato rettangolare, probabilmente basandosi su una vecchia fotografia. In conclusione non lo riteneva eseguito nella bottega del maestro, ma una derivazione successiva, anche perché “the quality does not appear to be high enough”.[18]

In realtà la visione diretta dell’opera – esposta al pubblico solo da alcuni mesi con il nuovo allestimento -, mostra non solo una tenuta stilistica elevata, con finezza di modellato e meticoloso trattamento di finitura, ma una sua connessione non con il rilievo dell’urna, bensì con il modello in terracotta dorata conservato presso il Museo di Palazzo Venezia (fig. 13), collocandosi quindi in un momento preliminare della progettazione, date le numerose varianti che esso e la terracotta portano rispetto alla realizzazione.[19]

13. Alessandro Algardi, Santi e Beati della Compagnia di Gesù (1629). Roma, Palazzo Venezia

Anzi, il rilevo Czartoryski mostra ulteriori differenze rispetto alla terracotta stessa, non solo nell’allargamento del formato a rettangolare, nell’aggiunta della base simulante la roccia e nella maggiore definizione di tutte le figure, soprattutto quelle sullo sfondo, ma anche in vari dettagli: san Luigi Gonzaga, inginocchiato a sinistra, non si limita a contemplare il crocifisso, ma legge un libro come nella sua figura nell’urna; san Francesco Saverio, a sinistra di sant’Ignazio, poggia il piede sinistro su un teschio con vicino due ossa, come nel rilievo finale. A differenza invece dell’urna e della terracotta, san Francesco Borgia, presso cui è inchinato san Stanislao, non tiene l’ostensorio ma un calice.

La citate varianti conferiscono piena autonomia al rilievo di Cracovia, collocandolo in una fase intermedia tra la terracotta e l’urna, in relazione con un ulteriore modello la cui fusione era probabilmente destinata a qualche alto prelato o esponente della Compagnia di Gesù.

In effetti nell’inventario del 1686 di Ercole Ferrata, allievo dell’Algardi, erano presenti “due pezzi di creta modelli del paliotto della Chiesa del Gesù”,[20] uno dei quali poteva essere propedeutico al getto in esame, la cui lavorazione a freddo e accurata cesellatura dovette essere eseguita dal maestro stesso.

Un “orologio notturno” del Maratta

14. Giuseppe Campani (?), Orologio notturno (1660-65 ca.). Cracovia, Museo Czartoryski
15. Carlo Maratti, Caronte traghetta le Quattro Stagioni (1660-65 ca.). Cracovia, Museo Czartoryski

Appartiene alla sezione di arti decorative un Orologio notturno con cassa architettonica in ebano, esposto e schedato nel catalogo del museo come “Italy, casing dated to the end of the 17th cent., the mechanism to 1780” (figg. 14, 15).[21]

16. Carlo Maratti, Caronte traghetta le Quattro Stagioni. Reggio Emilia, Musei Civici
17. Bernard Picart da Carlo Maratti, Caronte traghetta le Quattro Stagioni (1665 ca). New York, The Metropolitan Museum

In realtà, la composizione, dipinta ad olio su rame sopra il quadrante e raffigurante Caronte traghetta le Quattro Stagioni sul fiume Stige, è tratta da un’invenzione di Carlo Maratti detto Maratta (1624-1713), nota attraverso un disegno preparatorio conservato presso i Musei Civici di Reggio Emilia e un’incisione di Bernard Picard (figg. 16, 17).[22

Siconoscono alcuni orologi notturni con la stessa composizione, uno presso la chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano, l’altro in collezione Asprey a Londra, mentre quello più interessante è transitato negli anni ’80 del secolo scorso presso la galleria Colnaghi di Londra (fig. 18).

18. Giuseppe Campani, Orologio Notturno (1665 ca). Già Londra, galleria Colnaghi (da A. González Palacios, 1984, tav. XI)

Quest’ultimo, approfonditamente studiato da Alvar González-Palacios, è firmato dal famoso orologiaio Giuseppe Campani, inventore di tale tipologia di orologi per combattere l’insonnia di papa Alessandro VII. Una versione in collezione privata, sempre opera di Giuseppe Campani, ma di minor qualità nella pittura, è stata esposta nel Castello del Buonconsiglio di Trento nel 2005.[23]

L’invenzione del Maratta è stata messa in relazione con l’orologio notturno commissionato dal cardinale Antonio Barberini per farne dono a Luigi XIV, la cui pittura destò l’ammirazione di Bernini il 7 settembre 1665, durante il viaggio in Francia, quando gli fu mostrato dal prelato. L’orologio è perduto e González-Palacios ne proponeva l’identificazione con quello ex Colnaghi.[24]

Posso aggiungere che il quadrante dell’orologio Czartoryski, certamente di qualità sostenuta tanto da far ritenere plausibile il riferimento al Maratta, sembra più vicino all’incisione di Picard, recante un’iscrizione in francese e quindi quasi certamente desunta dall’orologio di Luigi XIV come ritiene González-Palacios. La maggiore conformità con l’incisione risiede non tanto nel formato rettangolare rispetto a quello mistilineo o nell’assenza dei putti alati in alto, quanto piuttosto nella presenza della torre con scogliera sulla sinistra (a destra nell’incisione), assente nella versione Colnaghi.[25]

Un mosaico di Pietro Paolo Cristofari

19. Pietro Paolo Cristofari, Madonna in estasi (1730-40 ca.), mosaico. Cracovia, Museo Czartoryski
20. Pietro Paolo Cristofari, Virgen Dolorosa, mosaico (1738). Aranjuez, Palacio Real

Nello stesso museo è esposto un bel mosaico raffigurante la Madonna in estasi, tratto da un’invenzione di Guido Reni, schedato come “Unknown Rome artist” e riferimento alla Reverenda Fabbrica di San Pietro (fig. 19). Si tratta di una replica a mezzo busto, priva delle mani incrociate al petto in segno devozionale, della Madonna dolorosa del Palacio Real di Aranjuez (fig. 20), eseguita nel 1738 dal mosaicista Pietro Paolo Cristofari (1685-1743), in coppia con un Ecce Homo, su commissione di Clemente XII come dono alla regina Maria Amalia di Sassonia, sposa di Carlo III di Borbone. Francesco Giardoni predispose la cornice in bronzo dorato.[26]

Il prototipo del Reni, databile attorno al 1639-40, è noto attraverso una versione in collezione privata romana, altra riemersa presso la galleria Bigetti di Roma (1988 ca., fig. 21), poi transitata in asta Dorotheum nel 2010, e quella passata in asta da Sotheby’s a Milano l’8 giugno 2010, lotto 22.

21. Guido Reni, Madonna in estasi. Già Roma, galleria Bigetti

Una redazione era in collezione Bolognetti, un’altra presso l’arciduca d’Austria granduca di Toscana, forse coincidente con la copia degli Uffizi.[27]

Anche il mosaico di Cracovia reca una bella cornice dorata a tre ordini d’intagli, sovrastata dallo stemma reale della confederazione lituano-polacca, a dimostrare la prestigiosa provenienza dalla casa regnante. In effetti i rapporti di Cristofari con la Polonia sono accertati, dato che il mosaicista eseguì il ritratto di Maria Clementina Sobieska Stuart per il suo monumento funebre nella Basilica Vaticana, mentre ritratti dei re di Polonia sono documentati nella “Lista dei lavori” compilata dall’assistente Bernardino Regoli nella sua bottega (Archivio della Reverenda Fabbrica di San Pietro, pacco 14, C. 846).[28]

Nella medesima lista era presente, oltre ad una Madonna e un Cristo, probabilmente quelli spagnoli, anche un ritratto a mosaico della “Madonna” desunto da Reni, che potrebbe corrispondere a quello Czartoryski.

Francesco PETRUCCI Ariccia,  8 novembre 2020

NOTE

[1] Cfr. A. Craievicyh, Pittoni, Giambattista, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, 84, 2015.
[2] Cfr. N. Turner, The Paintings of Guercino. A Revised and Expanded Catalogue raissonné, Roma 2017, p. 458, n. 170.
[3] Cfr. J. Miziołek, Il programma della chiesa degli Scolopi a Cracovia. Sulla presenza della Trasfigurazione di Raffaello nella cultura artistica polacca, in “Barocco”, numero speciale, 2005, pp. 191-238.
[4] Sui parati di Ariccia, con ulteriore bibliografia, cfr. F. Petrucci, Palazzo Chigi ad Ariccia: parati in cuoio, in Vestire i palazzi. Stoffe, tessuti e parati negli arredi e nell’arte del Barocco, a cura di A. Rodolfo, C. Volpi, Città del Vaticano 2014, pp. 249-282.
[5] Sui parati del Wawel cfr. R. Kozłowski, J. Adamowicz, Flattening in situ the gilt leather wall hangings, in The Conservation of Gilt Leather, Interim Meeting of the Working Group “Leather and Related Materials”, Bruxelles, 25-27 march, 1998 (2007), pp. 27-31; O. Sieradzka-Malec, Gilt Leather at the Wawel Castle: an Overview, in Parchments and leather heritage. Conservation – Restauration, Toruń 2012, pp. 125-136; O. Sieradzka-Malec, Gilt-leather wall hangings that have been identified in Venice are identical to those that adorn the interiors of Wawel Royal Castle in Kraków (Cracow), in “Perspektywy kultury / Perspectives on culture”, 21, 2/2018, Kraków 2018, pp. 167-192.
[6] Sui parati di Moritzburg cfr. O. Sieradzka-Malec, Złocone obicia ścienne w zamku Moritzburg…, in Tendit in Ardua Virtus. Studia ofiarowane Profesorowi Kazimierzowi Kuczmanowi w siedemdziesięciolecie urodzin, Kraków 2017, pp. 219-231.
[7] Sulla risorta manifattura di corami del Wawel cfr. O. Sieradzka-Malec, Wacław Szymborski. Pierwszy konserwator dzieł sztuki w zamku na Wawelu, in “Studia Waweliana”, XVI, 2015, pp. 187-210.
[8] Cfr. O. Sieradzka-Malec, 2018, p. 177.
[9] Vedi, con ulteriore bibliografia, J. Miziołek, The Lanckoroński Collection in Poland, in “Antichità viva”, 34.3, 1995, pp. 27-49; M. Skubiszewska, K. Kuczman, I dipinti della collezione Lanckoroński dei secoli XIV-XVI, nella collezione del Castello Reale del Wawel, Cracovia 2011; J. Miziołek, Renaissance Wedding and the Antique, Italian Secular Paintings from the Lanckoroński Collection, Roma 2018.
[10] Cfr. M. Skubiszewska, K. Kuczman, 2011, pp. 19-20.
[11] Sul dipinto, con ulteriore vasta bibliografia, cfr. P. Humfrey, M. Lucco, in Dosso Dossi. Court Painter in Renaissance Ferrara, catalogo della mostra, a cura di A. Bayer, The Metropolitan Museum of Art, New York 1998, p. 22, n. 27; M. Skubiszewska, K. Kuczman, 2011, pp. 29, 109-115, n. 27.
[12] Cfr. É. Pommier, L’invenzione dell’arte nell’Italia del Rinascimento, Torino 2007, pp. XXVII-XXVIII.
[13] Sull’opera del Mola cfr. F. Petrucci, Pier Francesco Mola (1612-1666). Materia e colore nella pittura del ‘600, Roma 2012, p. 293, n. B26.
[14] Attorno al capolavoro leonardesco è stata tenuta presso il Muzeum Narodowe di Varsavia la mostra Leonardo da Vinci. Dzieła malarskie / opere pittoriche, a cura di A. Paolucci, J. Miziołek, Warsawa 2019.
[15] Al perduto ritratto di Raffello è stata dedica recentemente una mostra, Il Ritratto di giovane uomo. Alla ricerca del capolavoro perduto di Raffaello, a cura di J. Miziołek, Varsavia, Muzeum Narodowe, 21 novembre 2019 – 19 gennaio 2020, Warsawa 2019. Sul dipinto, con ulteriore bibliografia, cfr. J. Meyer zur Capellen, Raphael. The Paintings, The Roman portraits ca. 1508-1520, vol. III, Landshut 2008, pp. 94-99.
[16] K. Płonki-Bałus, N. Koziary, Museum Książąt Czartoryslich, Kraków 2019, ad indicem.
[17] Cfr. J. Montagu, Alessandro Algardi, New Haven and London 1985, I, pp. 24-25, II, pp. 387-388, n. 92, fig. 33.
[18] Cfr. J. Montagu, 1985, II, pp. 388-389, n. 92.B.1.C.1.
[19] Sulla terracotta, con ulteriore bibliografia, cfr. J. Montagu, 1985, II, p. 388, n. 92.B.1; M. G. Barberini, in Algardi. L’altra faccia del barocco, catalogo della mostra, Roma, Palazzo delle Esposizioni, Roma 1999, pp. 104-105, n. 5; C. Giometti, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia. Sculture in terracotta, Roma 2011, p. 39, n. 12.
[20] Cfr. V. Golzio, Lo “Studio” di Ercole Ferrata, in “Archivi d’Italia”, II, 1935, p. 70.
[21] Cfr. K. Płonki-Bałus, N. Koziary, 2019, p. 135, n. 66.
[22] Cfr. A. González-Palacios, Objects for a “Wunderkammer, Colnaghi, London 1981, n. 49; id., The Adjectives of History, Furniture and Works of Art 1550-1870, London 1983, n. 20; id., Il Tempio del gusto, Milano 1984, I, pp. 35-36, II, figg. 24-26. Sul disegno cfr. J. Stock, D. Scrase, The achievement of a connoisseur, Philip Pouncey, catalogo della mostra, Cambridge, Fitzwilliam Museum, Cambridge 1985, n. 33 e addenda n. 33.
[23] A. Simoni, Orologi italiani, 1965, p. 107; G. Brusa, L’arte dell’orologeria in Europa, Busto Arsizio 1978, tav. LIV; A. González-Palacios, 1981, n. 49; id., 1983, n. 20; id., 1984, I, pp. 35-36, II, figg. 24-26; La misura del tempo. L’antico splendore dell’orologeria italiana dal XV al XVIII secolo, catalogo della mostra, a cura di G. Brusa, Trento, Castello del Buonconsiglio, Trento 2005, p. 472, n. 178.
[24] A. González-Palacios, 1984, I, pp. 35-36; D. Del Pesco, Bernini in Francia. Paul de Chantelou e il journal de voyage di cavalier Bernin en France, Napoli 2007, pp. 340-342.
[25] Il monte al centro, dal profilo meno frastagliato nella versione di Cracovia, sembra in parte ridipinto forse per problemi conservativi.
[26] A. González-Palacios, Il Gusto dei Principi, Milano 1993, p. 175; id., Las Colecciones Reales Españolas de Mosaicos y Piedras Duras, Museo del Prado, 2001, pp. 289-293; id., Arredi e ornamenti alla corte di Roma, Milano 2004, p. 154.
[27] Cfr. S. Pepper, Guido Reni. L’opera completa, Novara 1988, p. 300, n. 187, tav. 174.
[28] Cfr. M. G. Branchetti Buonocore, Cristofari, Pietro Paolo, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, 31, 1985.