“Lo spettatore turbato. Forme della felicità e del panico nella società distopica”. Una pubblicazione di Giulio de Martino

redazione

Questo libro si basa sulla convergenza di diversi approcci teorici e di più linee di scrittura. Riprende e sviluppa le suggestioni scaturite tra gli anni ’70 e ’80 dall’incontro con artisti e intellettuali che si sono interessati – a Napoli, a Roma, a Salerno – alle trasformazioni dei linguaggi artistici e ai sistemi di comunicazione. È a loro che vanno il mio ricordo e la mia riconoscenza.

Un libro scritto al futuro remoto. Le distopie della società e delle arti: la paura per il contagio pandemico, la fobia per l’energia nucleare, l’angoscia per il destino della Terra esprimono lo smarrimento del mondo occidentale. Al piacere del consumo e del turismo, alla gioia dello spettacolo, si sostituisce l’angoscia: fusione distopica tra l’anticipazione mediatica delle tragedie e la loro emergenza reale. È lo spettatore turbato che riceve in successione dai monitor gratificanti inviti al godimento e scariche sensoriali che gli rendono familiari le catastrofi.

Scritto sulla base di una bibliografia anglo-americana, il libro affronta alcune tematiche di sconcertante attualità: la «natura spaventosa» e la «società orribile», l’epoca che McLuhan definisce postgutemberghiana caratterizzata dalla sparizione della cultura della stampa e del libro, la postmodernità come contrasto fra i saperi, la comparsa di nuove NARRAZIONI INTERPERSONALI e PERSONALI, la società come insieme anomico e conflittuale (DISTOPIA), gli INTELLETTUALI da RISORSA a MINACCIA …

Come scenario: la TECNOLOGIA che funge da intercapedine e giuntura mobile fra PIANETA e MONDO e l’estendersi della galassia digitale: intelligenza artificiale e narrazioni opinionistiche e massmediali (enterteiner/influencer). Al fondo, la catastrofe è essa stessa un genere di spettacolo.

Pubblichiamo mper gentile concessione dell’Autore il 1° capitolo del volume

Giulio de Martino

LO SPETTATORE TURBATO Forme della felicità e del panico nella società distopica

CAPITOLO 1 LA COSCIENZA SENZA CONFINE

  • Passaggi di secolo: XIX-XX e XX-XXI

S. Divot: «Who do you think you are?»

Hrundi V. Bakshi: «In India, we don’t think who we are. We know who we are».

“The Party” di Blake Edwards, con Peter Sellers, USA 1968

Eravamo negli anni ’20 del XX secolo e Maurice Maeterlinck scrisse: «per concepire chiaramente la quarta dimensione bisogne­rebbe avere sensi, cervello e corpo differenti da quelli che abbia­mo; in una parola: bisognerebbe poter uscire completamente dal nostro involucro terrestre, cioè non essere più uomini. E del resto è molto probabile che noi non rimarremo indefinitamente uomini quali ora siamo»1

La riflessione di Maeterlinck sulla «quarta dimensione» – quella dello spaziotempo saldati insieme – ebbe origine dalla lettura dei trattati di microfisica e di meccanica quantistica di Einstein, Hei­senberg, Schrödinger, Dirac, nei primi decenni del Novecento, e rispose alla percezione dell’inquietudine e del disorientamento psi­cologico che facevano irruzione nei Paesi dell’Occidente europeo e americano, fino al Giappone2

Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, il «non visibile» fisico avrebbe fatto sentire la sua presenza nel cuore del mondo. Anche le «scienze del vivente» avrebbero accresciuto il panico sociale. La biologia, l’etologia e la medicina formularo­no teorie che infrangevano la barriera fra l’umano e il non-umano. Già Charles Darwin aveva indicato le affinità fra i viventi umani e non-umani:

Siccome i cani, i gatti, i cavalli e probabilmente tutti gli animali su­periori ed anche gli uccelli, come è confermato da buone testimonianze, hanno sogni vivaci, che dimostrano coi movimenti e con la voce, dob­biamo ammettere che posseggano un certo potere d’immaginazione. […] Sono pochi quelli che vorranno negare che gli animali non siano forniti di un certo potere di ragionare. Si possono vedere costantemente animali che si fermano, deliberano e risolvono. È un fatto significativo che, quanto più un naturalista studia le abitudini di un dato animale, tanto più dà spazio alla ragione e meno al semplice istinto.3

La medicina – con la nascita della microbiologia – esplorò il nesso tra clinica e patologia cellulare. Venne in luce la presenza di entità invisibili che violavano la separazione fra l’interno e l’e­sterno del corpo umano. Nelle epidemie, come in alcune patologie ospedaliere, fu evidenziato il rapporto tra microbi e malattie e tra contagio e infezione. Il «non visibile» biologico avrebbe modificato l’approccio alla diagnosi e alla nosologia e cambiato la gestione degli ammalati. Nella società – accanto all’approccio «preventivo» e salutista basato sull’igiene degli ambienti e il cambiamento degli stili di vita – si sarebbe diffusa l’ossessione per il contagio.

Ragionando su tali novità, Georges Canguilhem (1904-1995) avrebbe riformulato la distinzione fra «il normale e il patologico» e ricondotto la classificazione delle malattie, oltre che alle eviden­ze cliniche, a scelte istituzionali di tipo didattico e procedurale. Collegò le linee di sviluppo della medicina al cambiamento degli orizzonti culturali della società e, in coerenza con l’approccio evo­luzionistico, affermò che la minaccia ambientale proveniente dai microbi andasse inquadrata nella «sfida patologica» che stimolava gli organismi ad una strategia conservativa. La vita «ha la sconfi­nata capacità di istituire nuove regole biologiche» e «prevede dei rimedi che costituiscono delle vere e proprie innovazioni fisiologi­che» e «la salute di un organismo coincide con la sua capacità di affrontare situazioni nuove e di istituire nuove norme».

Per questo «il patologico va inteso come un tipo di normalità, mentre l’ab­norme non è ciò che è anormale bensì ciò che costituisce un altro tipo di normalità». La sintesi di Canguilhem fu: «il fatto biologico fondamentale è che la vita non ammette reversibilità». In ogni caso, la «plasmabilità» non è una prerogativa esclusiva degli organismi umani, bensì una risorsa propria di tutti gli esseri viventi: virus e batteri inclusi. La profilassi medica si sarebbe dovuta armonizzare con la spinta biologica alla trasformazione degli organismi 4

Lo sviluppo diagnostico della medicina avrebbe sollecitato le case farmaceutiche a costruire nuovi farmaci. Lo sviluppo tera­peutico avrebbe dilatato le dimensioni della cura. Si sarebbe aper­ta la strada ad un immaginario clinico in cui dal microbiologico e dal chirurgico, dal biogenetico e dal biotecnologico – lungo tutto il Novecento – sarebbero scaturite fantasiose metamorfosi dell’u­mano e del non-umano: il mostro e l’alieno e poi il robot e il cyborg 5

L’irruzione di atomi e germi dentro lo spazio-tempo dell’umani­tà avrebbe costituito una caratteristica della cultura del Novecento. Come spiegò lo stesso Maeterlinck, si stava facendo esperienza di un «turbamento» che nasceva dallo scompaginarsi delle forme del­la soggettività: quasi che l’indeterminazione microfisica e microbiologica, astrofisica e astrobiologica, fosse diventata percepibile nell’esperienza del mondo, nella psicologia personale e nelle rela­zioni sociali. Un celebre «romanzo fantastico» aveva descritto gli umani alle prese con creature aliene 6

Le caratteristiche ambivalenti di un tale Zeitgeist erano emer­se già nella teoria del giovane Friedrich Nietzsche sul divergente sviluppo della psiche. La tensione centripeta della mente – che, nell’antichità culminò nella concezione apollinea della filosofia dei maggiori filosofi greci e nell’armonia plastica della loro scultura – si univa ad una tendenza opposta. Nei filosofi «sovrumani», l’inquie­tudine dionisiaca conduceva all’espansione centrifuga dell’anima e all’immersione nel flusso della musica e della danza. In Nietzsche, l’intuizione bipolare del dinamismo della mente si sarebbe svilup­pata nel programma di una «dissociazione filosofica» dell’umano da sé stesso e nell’apparizione della figura etica ed epistemologica dell’Übermensch7

L’interrogativo di Maeterlinck va, quindi, contestualizzato. Lo si deve ambientare nel processo di cambiamento delle condizioni di esistenza del singolo e del mondo prodottesi con la rivoluzione industriale e socioculturale della «Fin de siècle» e dei primi decen­ni del Novecento. Entrarono in connessione sistemi culturali – la scienza e le tecnologie, i corpi e le menti, i simboli e gli oggetti – che, fino ad allora, si erano riprodotti in forme differenziate e in ambienti separati. Una sorta di «inversione temporale» mescolò passato remoto e futuro prossimo, scienza e superstizione, saperi esoterici e macchinari circonfusi di mistero 8

Tra Ottocento e Novecento, le arti non ebbero un destino di mera sottomissione alle regole economiche e ai riti dello spettacolo del­la società di massa. L’espansione industriale impose forme di esi­bizione allargate ed economicamente fruttuose e gli artisti furono chiamati da imprenditori e capocomici a escogitare forme di spetta­colarità e di fruizione «One to Many»: dall’artista verso un pubblico numeroso.

I due pilastri dell’arte moderna, però, non furono scalfiti: l’ammirazione per il «grande artista» e il dialogo con la «tradizio­ne» sarebbero rimasti alla base dell’edificio estetico. La trasforma­zione del gusto e della fruizione, il rapporto con il pubblico di massa e con le forme della pubblicità, modificarono le forme dell’empatia e della reinterpretazione da parte dei creatori e dei fruitori, ma l’e­sibizione del «genio» occupò sempre il focus dell’attenzione, come pure le opere del passato proseguirono nella loro missione di stimo­lare la nuova scrittura e di addestrare la creatività9.

Note

1 Maurizio Maeterlinck, La Vie de l’Espace (1928), ed. it. La vita dello spazio, tr. it. di R. Abenante, Bari, Laterza, 1932, p. 7..

2 Ian Kershaw, To Hell and Back: Europe, 1914-1949, Allen Lane, 2015, ed. it.: All’inferno e ritorno. Europa 1914-1949, Laterza, Roma-Bari, 2016; Lucia Granieri, “Le basi dell’avanguardia artistica in Giappone. Passato e presente”, in: Il Giappone, vol. 39, Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO), 1999, pp. 49-84.

3 Charles Darwin, The Expression of the Emotions in Man and Animals, Lon­dra, John Murray, 1872; ed. it., L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli altri animali, introduzione, postfazione e commenti di Paul Ekman, Bollati Boringhieri, 1998.

4 Georges Canguilhem, Le normal et le pathologique, augmenté de Nou­velles réflexions concernant le normal et le pathologique, 1966, ed it., Il normale e il patologico. Norme sociali e comportamenti patologici nella storia della medicina, Rimini, Guaraldi, 1975; Ulrich, Tröhler, Il trionfo della chirurgia, in: AA.VV., Storia del pensiero medico occidentale, vol. 3, Bari, Laterza, 1998.

5 Isaac Asimov, I, robot, 1950, ed. it., Milano Bompiani, 1963; Id., The Rest of the Robots, 1964, ed. it., Il secondo libro dei robot, Gamma, 1968; Fabio Giovannini, Mostri. Protagonisti dell’immaginario del Novecento da Fran­kenstein a Godzilla, da Dracula ai cyborg, Roma, Castelvecchi, 1999; Ric­cardo Notte, You Robot. Antropologia della vita artificiale, Firenze, Vallec­chi, 2005; AA.VV., Metamorphosis. Miti, ibridi, mostri, a c. di Sonia Maura Barillari e Andrea Scibilia, Ariccia, Aracne, 2015.

6 H. G. Wells, The First Men in the Moon, 1901, ed. it., I primi uomini nella Luna, Milano, Rizzoli & C., 1933.

7 Friedrich Nietzsche, Die dionysische Weltanschauung, (Juli-August 1870), in: Nachgelassene Schriften 1870-1873, a c, di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Band 1, Die Geburt der Tragödie. Unzeitgemäße Betrachtungen, I–IV, Berlin, Boston, De Gruyter, ed. 2021, pp. 551-578; Giorgio Colli, Filo­sofi sovrumani, 1939, n. ed. Milano, Adelphi, 2009.

8 Biagio De Giovanni, Hegel e il tempo storico della società borghese, Bari, De Donato, 1970; Francesco Galluzzi, Fantasmi elettrici. Arte e Spiritismo tra Simbolismo e Futurismo, Pisa, Pacini Editore, 2017.

9 Luciano Anceschi, Autononia e eteronomia dell’arte, Firenze, Sansoni, 1936; Germano Celant, Una macchina virtuale. L’allestimento d’arte e i suoi archetipi moderni, in: “Rassegna. Problemi di architettura dell’ambiente”, anno IV, n. 10, giugno 1982