di Vitaliano TIBERIA
Il ciclo di sette riquadri a mosaici con storie della vita di Maria (figg. 1-8), eseguito da Pietro Cavallini nel registro inferiore dell’abside della basilica romana di Santa Maria in Trastevere conclude concettualmente la figurazione di tema assunzionistico del sovrastante mosaico nel catino absidale realizzato circa un secolo e mezzo prima ed ispirato ad uno dei testi più in voga nell’ XI-XII secolo, il Cantico dei Cantici (fig. 1, 1 bis);
un libro veterotestamentario che fu prediletto da un grande del Medioevo come s. Bernardo di Clairvaux, cui lo stesso Dante finse di affidare il compito di rivolgere alla Vergine Maria la mirabile preghiera conclusiva della sua Commedia e di un po’ tutto il Medioevo. I sei riquadri che sormontano il settimo riquadro centrale con il tondo con la Madonna con il bambino sono illustrati ciascuno da una coppia di esametri compilati per esteso, mentre i tre esametri del riquadro centrale furono disposti, per motivi di spazio, ciascuno su due righe.
Come accade spesso nei testi figurativi medievali, anche in questo ciclo cavalliniano non ci sono date né iscrizioni che ne permettano la determinazione cronologica. In realtà, un dato certo c’è, ed è costituito da uno stemma araldico con raffigurata accanto, a destra, una figuretta maschile, quella del donatore Bertoldo, inginocchiato in preghiera e designato dall’ iscrizione in italiano e in latino, Bertoldo (sic!) Filius Pet[ri] (fig. 8).
Si tratta dello stemma della famiglia Stefaneschi[1], che, se non definisce la cronologia, dichiara con certezza la committenza di quest’opera e ne fa ipotizzare una datazione plausibile alla fine del XIII secolo, collegata alla politica del papa del tempo, Bonifacio VIII (1294-1303), ideatore del primo giubileo dell’età moderna, celebratosi nel 1300. La datazione di questi mosaici è stata tradizionalmente riferita all’anno 1291, che tuttavia non è più considerata definitiva, perché non riscontrabile su dati certi, mentre più ragionevole sembra una loro collocazione nella prospettiva ravvicinata dei preparativi poco prima dell’evento giubilare.
Sintetizzando la critica storica sull’argomento, ricordo che già Guglielmo Matthiae ritenne la data 1291 inattendibile e che il Paeseler ha collocato questi mosaici verso il 1295-96, mentre il Poetschke li ha ritenuti eseguiti dopo il 1296 e l’Hetherington ne ha dilatato il riferimento temporale fra il 1293 e il 1300; una ragionevole proiezione verso lo scadere del tredicesimo secolo, quest’ultima, da restringere, io ritengo, di almeno cinque anni, come, per altro, fu prospettato anche da Adriano Prandi[2].
Questi ne ipotizzò un’esecuzione scaglionata in una manciata d’anni, che sarebbe culminata, proprio alla vigilia del Giubileo, nel grande riquadro votivo centrale con la Madonna e il bambino fra i Santi Pietro e Paolo e il donatore Bertoldo Stefaneschi (fig.8). In altre parole, la figura di Maria, regina e mater misericordiae, e «di speranza fontana vivace» (Dante, Paradiso, XXXIII, 11), avrebbe ricapitolato, nell’epoca di Bonifacio VIII attraversata da gravi discordie, ogni attesa di rinnovamento nel segno della pietas e della caritas, che il primo Giubileo dell’età moderna avrebbe concesso. A sottolineare l’attendibilità di tale assunto, c’è la raffigurazione a fianco della Vergine dei santi Pietro e Paolo, che ribadivano il valore dell’evento giubilare, esaltando ad un tempo l’ecumenismo della Chiesa Cattolica, perché i due prìncipi degli apostoli sono i simbolici rappresentanti degli Ebrei e dei Gentili.
A corroborare, quindi, la sintesi nella figura di Maria delle idee di natura-storia e di eternità, questo riquadro è diviso in due registri rettangolari, la cui linea di demarcazione è interrotta dalle figure dei santi Pietro e Paolo, posti in simbolica posizione mediatrice dell’umanità sospesa secondo la consuetudine agostiniana tra terra e cielo (vedi fig. 8). Così, il registro superiore, in cui campeggia il tondo con la Madonna con il Bambino, identificata da due sigle mariane in greco M̃P, Θ̃U, è di colore oro, ad evocare assenza di tempo e quindi l’eternità; quello inferiore, di terso e naturale colore azzurro, ospita, sormontato da un’iscrizione, lo stemma della famiglia Stefaneschi, tre piante di fiori, le didascalie onomastiche, anch’ esse in latino, degli apostoli Pietro e Paolo e del donatore dell’opera, Bertoldo Stefaneschi in preghiera, con accanto la già ricordata didascalia in lettere capitali BERTOLDO (sic!) FILIUS PET [RI].
Questi versi sotto il tondo, divisi, ciascuno, per motivi di spazio, in due emistichi sovrapposti, probabilmente furono dettati dal fratello di Bertoldo, il colto cardinale Iacopo Stefaneschi, autore anche di un Opus metricum sul pontificato bonifaciano[3]. Bertoldo, che doveva essere un uomo ricco, ricoprì la carica di domicellus nella corte di Nicolò III (1277-1280), mentre Iacopo ebbe legami più che stretti con Bonifacio VIII, il quale, ad un anno dalla sua elezione a papa, il 17 dicembre del 1295 lo creò, quando aveva solo venticinque anni, cardinale diacono del titolo di San Giorgio in Velabro, dove ebbe modo di apprezzare da vicino l’affresco cristologico eseguito nell’abside una manciata d’anni prima da Pietro Cavallini.
Stefaneschi non mancò di ripagare le aspettative del papa nei suoi riguardi, scrivendo, fra l’altro, subito dopo la conclusione del Giubileo, un’opera apologetica di quell’evento, il De Centesimo seu Jubilaeo anno, che esaltava, dal punto di vista politico, sia la concezione teocratica del papato, sia, nell’immediato, il successo di Bonifacio VIII sugli acerrimi avversari Colonna[4]. Fatti, questi, che tuttavia, sul piano internazionale, valsero solo a ritardare il declino dall’autorità papale di fronte al sorgere degli Stati nazionali.[5]
Il Giubileo del 1300, promulgato da Bonifacio VIII nel febbraio del 1300, con la bolla Antiquorum habet fidem, dovette avere successo, come ricorda lo stesso cardinale Stefaneschi proprio nella sua cronaca di quell’evento eccezionale, soprattutto per il grande afflusso di pellegrini riversatisi a Roma, oltre che da tutte le regioni italiane, da varie nazioni d’Europa, soprattutto dalla Germania e dall’Ungheria[6].
La grande affluenza di fedeli è confermata anche da un cronista attendibile come Giovanni Villani, secondo il quale furono presenti nell’Urbe duecentomila stranieri, in aggiunta ai Romani, che erano circa trentacinquemila[7]. Nella menzionata cronaca del cardinale Stefaneschi, tuttavia, non sono ricordate presenze in Roma di teste coronate o di prìncipi; un fatto questo non del tutto inspiegabile, se si considera lo scarso gradimento goduto dall’energico Bonifacio VIII presso le corti europee[8].
La credibilità del papa a livello internazionale e all’interno del suo regno era ridotta ai minimi termini: dopo aver subìto da Filippo IV di Francia l’imposizione di tasse al clero (1297), Bonifacio VIII dovette anche fronteggiare all’interno del proprio regno una rivolta dei Colonna, che tuttavia riuscì a contenere. Ma dovettero probabilmente essere presenti a Roma per quell’occasione giubilare due figure eccezionali di artisti: Dante, che ricorda nell’Inferno (XVIII, 28-33) l’afflusso dei pellegrini sul ponte Sant’Angelo, l’unico che allora univa le due sponde di Roma, in direzioni opposte di marcia da e verso la basilica di San Pietro, e Giotto, autore dell’ affresco nella basilica lateranense, con Bonifacio VIII che indice il Giubileo, dipinto forse, o per lo meno ideato, poco prima della sua apertura.
Fu, dunque, in questo clima drammatico che papa Caetani, con abile mossa politica, indisse il grande evento di risonanza mondiale del primo Giubileo dell’età moderna; e questo, oltre che per fini pastorali, anche, lo sottolineo, per attenuare le ostilità contro il papato, grazie allo spirito ecumenico e rinnovatore che ispirava la grande novità dell’evento giubilare, dettato dal pensiero di una generale perdonanza delle colpe, collegata, per di più, all’autorevole tradizione delle ricorrenze giubilari bibliche.
Non va, d’altra parte, dimenticato che, fra le accuse rivolte dai Colonna a papa Caetani, c’era anche quella gravissima di eresia. Se questa avesse trovato credito presso le Corti europee, si sarebbe potuta incrinare forse irrimediabilmente la stessa tradizionale concezione della supremazia pontificia, vale a dire il primato storico del potere spirituale su quello temporale; supremazia che fu invece ribadita solennemente proprio dal cardinale Stefaneschi poco tempo dopo la chiusura del Giubileo, con la sua ricordata cronaca di quell’evento epocale.
Dunque, il Giubileo avrebbe riaffermato l’autorità del papa, oltre che sul piano spirituale e teologico, anche su quello politico. In tal senso, mi sembra utile ricordare quanto Paolo Brezzi ha scritto:
«[…] si constata nel 1300 un’ improvvisa quanto spontanea ed entusiastica reviviscenza d’interesse per il centenario della nascita del Salvatore, e il giubileo trova una spiegazione nel richiamo all’anniversario di quella data basilare della storia cristiana; […]»[9].
Brezzi precisa quindi che
«[…] l’omaggio al Redentore, al Dio fatto uomo, è il pensiero dominante nella relazione del cardinale Stefaneschi, ritorna nello scarno linguaggio del Villani e fu senza dubbio il tema dei discorsi di tutti i predicatori in quell’ anno»[10].
Venticinque anni fa (1996), pubblicando il restauro di questi mosaici cavalliniani nella basilica transtiberina, di cui progettai e diressi l’intervento unitamente a quelli dell’XI secolo nel registro superiore, sottolineai la continuità concettuale fra i due cicli musivi nel segno dell’apologia assunzionistica della Vergine accanto al Cristo, nonché l’alto valore simbolico ed ermeneutico dei fatti di quei tempi del riquadro mediano nel ciclo del Cavallini, anch’esso raffigurante Maria con il Cristo sia pure bambino.
Osservavo allora che in questo brano musivo la presenza della Madonna con il Bambino fra i Santi Pietro e Paolo richiamava simbolicamente, nell’economia del disegno salvifico divino, la centralità sia della figura della Vergine accanto al divino Figlio sia della Chiesa, rappresentata nelle sue componenti ebraica e pagana proprio dagli apostoli Pietro e Paolo[11]. E ricordavo, a conferma di tale interpretazione, che proprio il ricordato documento pressoché contemporaneo a questo ciclo musivo, proprio il De centesimo seu iubilaeo anno, la cronaca giubilare del cardinale Stefaneschi; questo testo, in lingua latina medievale, collegava strettamente la presenza dei due prìncipi degli Apostoli, presenti nel mosaico transtiberino, alla bolla giubilare di Bonifacio VIII, che concedeva il perdono dei peccati ai cristiani pentiti, purché, nell’ anno 1300 e nei successivi centesimi anni, avessero visitato le basiliche dei santi Pietro e Paolo; i Romani lo avrebbero dovuto fare trenta volte, gli stranieri quindici!
Dunque, il riquadro mariologico centrale del ciclo cavalliniano assumeva, nell’economia dei due cicli musivi absidali disposti in due zone distinte, il significato di punto d’arrivo del mistero mariano al termine di un percorso teologico attraverso il XII e il XIII secolo (fig. 1). Di fatto, questo riquadro completava, illustrandone le premesse storiche, costituite dagli episodi della vita terrena di Maria, l’intuizione del grande mosaico assunzionistico, ideato quasi centocinquant’anni prima nel catino absidale, proprio sopra il ciclo cavalliniano, probabilmente da san Bernardo, teorico medievale del Cantico dei Cantici, che fu appunto il testo ispiratore dell’iconografia più antica[12] (fig. 1 bis).
Quegli straordinari e complessi cicli musivi nel tempio transtiberino dedicato alla Madonna dovettero impressionare profondamente, nel tempo del Giubileo, la sensibilità di molti fedeli, fra i quali anche Dante, visionario, religioso e devotissimo alla Vergine.
Del resto, quasi certamente l’Alighieri fu a Roma due volte, nel 1300 e nel settembre del 1301: la prima, probabilmente, all’apertura del Giubileo; la seconda, documentata, quando fece parte di un’ambasceria inviata dalla Repubblica fiorentina a Bonifacio VIII per stabilire relazioni politico-economiche più distese. In quelle occasioni, Dante non poté non vedere i due mosaici mariologici di Santa Maria in Trastevere, quello della metà del XII secolo ispirato da s. Bernardo e quelli con le storie di Maria presentati da Cavallini per il Giubileo del 1300; due opere molto distanti cronologicamente fra loro ma unite nell’esaltazione della figura misericordiosa della Madonna, a cui Dante, proprio attraverso s. Bernardo, e verso la fine del suo poema, si rivolge con versi di profonda venerazione:
«La tua benignità non pur soccorre // a chi domanda, ma molte fiate // liberamente al dimandar precorre. // In te misericordia, in te pietate, // in te magnificenza, in te s’aduna // quantunque in creatura è di bontate.»[13].
Dunque, sia pure ipoteticamente, questa lirica preghiera, recitata da s. Bernardo, attesterebbe che i mosaici di Santa Maria in Trastevere furono una fonte d’ispirazione estetica per Dante che concludeva il suo Paradiso, in un viaggio che, si badi bene, egli aveva immaginato iniziarsi proprio nell’anno giubilare del 1300, quando, a trentacinque anni si era trovato smarrito nella «selva oscura» del peccato. Va inoltre ricordato, a testimonianza della profonda considerazione nei confronti di s. Bernardo, che proprio a questo santo Dante aveva assegnato il ruolo di sua guida al posto di Beatrice verso la fine del Paradiso quando era in procinto di vedere la luce eterna:
«Diffuso era per li occhi e per le gene // di benigna letizia, in atto pio // quale a tenero padre si convene. // E “Ov’è ella?” subito diss’io. // Ond’elli: a terminar lo tuo disiro // mosse Beatrice me del loco mio; […]». [14]
Come abbiamo detto, il committente di questa bellissima opera transtiberina fu Bertoldo Stefaneschi, mentre il programma iconografico, illustrato da due esametri per ciascuno dei sette riquadri con storie di Maria, spetterebbe a suo fratello, il cardinale Iacopo, fedelissimo di Bonifacio VIII.
Ma un altro dato collega inequivocabilmente questo riquadro agli Stefaneschi, soprattutto al cardinale Iacopo, e cioè il fatto che quel prelato era particolarmente devoto della Vergine Maria, da lui collegata strettamente alla perdonanza giubilare, unitamente, come ricorda nell’esordio della sua cronaca, ai santi Pietro e Paolo[15]. Accingendosi, infatti, a narrare la cronaca del Giubileo del 1300, Stefaneschi scriveva:
«Invocata dunque umilmente in nostro aiuto la divinità ineffabile dell’indivisibile unità, e fatto fervorosamente ricorso al talamo dell’intatta pudicizia verginale, e poi ai prìncipi degli apostoli, Pietro e Paolo, fondamenti della Chiesa nel suo sorgere, perché sovvengano alle nostre insufficienti forze per quest’opera loro dedicata [….], diamo principio al racconto dell’anno centenario»[16].
Questa predilezione dello Stefaneschi per la Vergine è dimostrata ulteriormente dall’episodio da lui narrato nel Capitolo X della sua cronaca, in cui è descritta l’apparizione ad un chierico della chiesa romana di S. Giorgio al Velabro, di cui Stefaneschi era cardinale titolare, di Maria seduta su un trono con il Bambino in braccio, che ricordava al prelato stupefatto l’estensione a tutti gli uomini del perdono giubilare [17].
Ma c’è dell’altro nel racconto dello Stefaneschi. Subito dopo aver descritto l’apparizione di Maria con il Bambino che annunziano il perdono giubilare, il cardinale faceva dire alla Madonna:
«Chi, poi, possiamo più fondatamente interpretare siano le sorgenti, se non Pietro e Paolo, vertici della religione, maestri della fede, guide supreme dell’autorità ?»[18].
Dunque, il riquadro centrale con Maria in trono con il Bambino fra i santi Pietro e Paolo doveva riassumere figurativamente il pensiero del suo ideatore, il cardinale Iacopo Stefaneschi e del donatore, il fratello Bertoldo, i quali, nella prospettiva dell’imminente Giubileo, ribadivano che il perdono pieno per i vivi e i morti non poteva che ottenersi, per intercessione di Maria e del Bambino Gesù, solo a Roma, la città dei santi Pietro e Paolo, dove si poteva venerare in San Pietro, anche il sudario della Veronica, ricordata da Dante[19]; e tutto questo nel tempo in cui Bonifacio VIII era Vicario di Cristo in terra.
Dunque, la presenza dell’immagine della Madonna con Bambino tra i santi Pietro e Paolo, raffigurata irenicamente in una dimensione atemporale, ma ricapitolativa degli episodi storicamente determinanti della sua vita terrena, veniva ad essere il dichiarato simbolo-prefigurazione salvifica (oggi si direbbe, il logo) del primo Giubileo dell’età moderna. Con tale evento, come ha osservato il Leonardi, per gli Stefaneschi la centralità romana e pontificia veniva ad essere decisamente ribadita nel senso bonifaciano [20].
Il cardinale Iacopo prefigurava infatti per Bonifacio VIII un ruolo unificante, che perimetrava in quella figura di sommo pontefice la dimensione spirituale e politica della Chiesa; anche perché il Caetani, al di là delle accuse rivoltegli successivamente da Dante, che tuttavia lo difese dall’aggressione di Sciarra Colonna, dalle invettive di Jacopone da Todi e dalle insidie tesegli da Filippo il Bello, fu un papa abile giurista, esperto legislatore ed ecclesiastico pensoso delle esigenze della cultura, al punto da fondare la prima università di Roma, che denominò con il suggestivo titolo tutt’oggi vigente di Sapienza.
E’ consequenziale dunque ribadire con il ricordato Prandi che Pietro Cavallini dovette eseguire il ciclo di Santa Maria in Trastevere, forse scaglionandone cronologicamente i riquadri, nell’ultimo quinquennio del XIII secolo e non dopo[21]: e ne fu il culmine (nel 1299?) proprio il riquadro centrale. Del resto, come ho avuto modo di osservare, per gente esperta della curia pontificia come gli Stefaneschi, consapevoli che le immagini sacre dovevano trasmettere un messaggio dottrinale chiaro e tempestivamente collegato all’occasione indimenticabile del Giubileo, sarebbe stato contraddittorio presentare un ciclo musivo così ricco di significati teologici dopo il febbraio del 1300, data di indizione del Giubileo, o addirittura dopo che la maggior parte dei pellegrini affluiti a Roma l’avevano abbandonata essendosi concluso quell’evento.[22]
Va, d’altra parte, rilevato che l’esecuzione di questi mosaici, proprio perché finanziata dal ricco Bertoldo Stefaneschi, non dovette rientrare fra le opere nuove o fra i restauri eseguiti dopo il Giubileo con le offerte fatte affluire dai pellegrini nelle casse pontificie; [23] se così fosse stato, Bertoldo non sarebbe potuto comparire in veste di orante davanti alla Vergine come donatore del nostro mosaico.
Ricapitolando gli argomenti esposti, credo che Bonifacio VIII scelse la resaturata basilica di Santa Maria in Trastevere per il suo annunzio giubilare in chiave mariana per due motivi: perché il ciclo cavalliniano prefigurava la perdonanza giubilare e concludeva concettualmente il forte messaggio mariologico lanciato un secolo e mezzo prima, sotto i pontificati di Innocenzo II (1130-1143) ed Eugenio III (1145-1153), con il grandioso mosaico del catino absidale raffigurante l’assunzione, ispirata al Cantico dei Cantici, di Maria sul trono del Cristo; e quindi perché la sequenza cavalliniana si collegava ad una leggenda tramandata dalla Cronaca eusebiana e da Dione Cassio. Secondo queste due fonti, trentotto anni prima della nascita di Cristo, nel quartiere di Trastevere, sarebbe sgorgata una fonte d’olio, interpretata, per l’evidente significato cristologico collegato a questa sostanza, come un segno della Grazia concessa da Dio agli uomini con l’ incarnazione, tramite Maria, di Gesù, l’unto del Signore.
Dunque, proprio un dato araldico, lo stemma Stefaneschi, fa da guida nella ricostruzione della cronologia e di parte dei significati dei mosaici cavalliniani a Santa Maria in Trastevere. Presentati alla vigilia del Giubileo del 1300, quelle mirabili opere non poterono ostacolare, contrariamente alle aspettative politiche di Bonifacio VIII, il ridimensionamento dell’idea di plenitudo potestatis del papato di fronte al sorgere dei moderni Stati nazionali; solo due anni dopo la morte di Bonifacio VIII (11 ottobre 1303), infatti, Clemente V (1305-1314), ex arcivescovo di Bordeaux, decretò nel giugno del 1305 il trasferimento della curia pontificia ad Avignone, dove sarebbe rimasta circa settanta anni.
Ma sul piano della fede, quei mosaici transtiberini consolidarono, come meglio non si sarebbero potuto fare con mezzi estetici, il ruolo centrale del mistero dell’assunzione di Maria in cielo, riconosciuta tuttavia dalla Chiesa cattolica, con la Costituzione Apostolica di Pio XII Munificentissimus Deus, solo l’1 novembre 1950.
Vitaliano TIBERIA Roma, 22 agosto 2021.
In ricordo della festa dell’Assunta , settantuno anni dopo il dogma del suo riconoscimento.
*Ho fatto una prima sommaria comunicazione sullo stemma Stefaneschi, senza i riferimenti all’interpretazione dantesca e ad altre riflessioni che qui si presentano, il 13 maggio 2017, in occasione del I Convegno sull’araldica religiosa, organizzato dal Polo Museale Romano e dal Centro Studi Araldici di Varese, ad Oriolo (VT), il 13-14 maggio 2017.
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