di Massimo PULINI
Luigi Gentile pittore di Innocenzo X, un idealista al tempo di Velázquez
Nel 1648 tre raffinati ingegni provenienti da luoghi diversi e attivi a Roma, ognuno con la propria arte, contribuirono a realizzare una piccola, ma preziosissima opera destinata a papa Innocenzo X Pamphilj. Entro una cornice in argento disegnata da Alessandro Algardi e sbalzata da Francesco Perone, è iscritta una Annunciazione dipinta su rame (Foto 1) da Luigi Gentile[i] o Louis Cousin Primo, artista fiammingo che visse lungamente, operando con notevole successo, nella penisola italiana.
Sul verso del rame risulta inciso lo scudo papale con l’arma della famiglia Pamphilj e anche nel fronte della cornice appaiono in bella evidenza due colombe che portano col becco un rametto di ulivo, simbolo distintivo del casato di origine eugubina, che divenne pienamente romano. John Gash e Jennifer Montagu diedero notizia dopo averlo rintracciato a Londra nel Museum of the Order of St. John-min[ii]. Per questo importante oggetto i due studiosi sono riusciti a reperire ampia documentazione archivistica che ne attesta la diretta committenza papale.
Alla pubblicazione fece seguito Lucia Ajello[iii] che qualche anno dopo rese noto un altro dipinto di Luigi Gentile conservato a Salamanca e ancora munito della propria cornice d’argento con frutti e fiori sbalzati a festone (Foto 2), anch’essa con riferimenti al simbolo di Speranza e di Pace caro a papa Innocenzo X, il cui stemma è finemente inciso nella lastra che chiude il dorso del dipinto (Foto 3).
La singolare rifinitura sancisce una origine che anche in questo caso trova riscontro nei documenti d’archivio andando a confermare una commessa apicale che le carte riferiscono proprio fino al costo della lastra retrostante:
“adì 16 ottobre 1648 la S.a’ di N.S. Papa Innoc. X deve haver fatto una Cornice d’argento di piastra ovata pesa dot otto e 12 a 12 libbra 32,50 Per fattura della sud.ta Cornice 55, per scudi sei e 50 per intagliar l’arme e il rame aggiustato con la cornice per quattro zecchini indorar il sud. Rame oro, fattura e imbrunitura […]”[iv].
Il dipinto di Luigi Gentile, che raffigura in questo caso una Presentazione al Tempio, viene espressamente ricordato nella documentazione romana e fa parte di ben ventisette opere eseguite dall’artista per il pontefice, nello stesso periodo in cui lavora alla corte Diego Velázquez per eseguirne il famoso ritratto, durante il secondo soggiorno romano del pittore spagnolo.
Purtroppo le carte ricordano solo quattro soggetti dei dipinti realizzati, e riguardano tutti l’infanzia e la vita di Gesù. Gentile viene pagato anche per un olio su rame raffigurante una Madonna col putto S. Giuseppe et angioli in un paese il 18 gennaio 1646. Mentre il 23 gennaio del 1648 per «La Presentazione di Gesù Cristo al Tempio con S. Simeone e altre figure» l’artista fiammingo viene saldato nella stessa ricevuta relativa a un «Battesimo di Gesu Christo con Giovanni Battista e con un Dio Padre nel Cielo e angeli» e a una «Madonna con Christo e Elisabetta e Giovanni e S. Giuseppe»[v].
Un precedente mio saggio apparso su questa stessa rivista[vi], dava ulteriore sostanza a quel che le biografie di Luigi Gentile riportano e sottolineano, cioè la particolare applicazione del pittore verso opere di piccolo formato, che venivano apprezzate per la composizione e loro finitezza.
Presento qui alcuni dipinti che, per la preziosa qualità e la cura con la quale sono eseguiti, potrebbero far parte di quelle prestigiose commissioni. I primi due formano una inequivocabile coppia, anche se ora si trovano da una parte all’altra dell’Oceano Atlantico.
Il 9 dicembre del 2010, all’asta Sotheby di Londra, è transitata un’ardesia di 67 centimetri di diametro raffigurante un Busto di Gesù Bambino circondato da nuvole [vii] (Foto 4 e 6).
Vi figurava con una attribuzione al Sassoferrato, ma avevo già nel mio archivio e nella cartella di Luigi Gentile la foto di un altro dipinto del tutto combaciante con un Busto di Vergine circondato da nuvole (Foto 5 e 7).
Anche il Museo dell’Ontario di Toronto[viii], che possiede questa seconda pietra nera, ne ha interpretato il nitore classico come variante singolare del metodico e raffinato artista marchigiano. La lastra di ardesia dipinta è incastonata in un’elegantissima cornice, assolutamente identica a quella del dipinto passato alla casa d’asta londinese.
Anche la stesura pittorica appare gemella e raggiunge un purismo che davvero si colloca tra lo stile del Sassoferrato e quello di Carlo Dolci. L’invenzione iconografica trova un’impennata emblematica nella fitta e sensibile raggera luminosa, sicuramente eseguita con polvere d’oro unita al pigmento.
Il lucido supporto di nera ardesia permette all’autore di ottenere una levigatezza estrema che si sposa in modo commovente al languido sovrappensiero degli sguardi, che restano sfuggenti anche quando si rivolgono a noi.
La finezza delle cornici lignee non permette confronti diretti con gli altri due sbalzi argentei, né vi figurano le armi del pontefice, ma le decorazioni a racemi di foglie che si dispongono ad ovale nei quattro angoli, appartengono al barocco romano e lasciano intuire una destinazione aristocratica.
Il volto della Vergine, tondeggiante e delicatissimo, riflessivo e mesto, ha forme e vocazioni che ormai ricorrono nel catalogo crescente dell’artista fiammingo, ma in particolare assomiglia alle fisionomie della Venere con Adone morente del Kunstistorisches Museum di Vienna (Foto 8) documentata al 1656 e della Allegoria della Pittura (Foto 9) che ho pubblicato nel precedente saggio[ix].
Proprio di questa recentemente ho ritrovato una copia[x] (Foto 10), sempre in collezione privata, che ci informa di un inaspettato taglio della tela, che in origine comprendeva anche un ampio sviluppo del tappeto sulla tavola, un vaso di fiori istoriato e una bellissima maschera.
Insieme restituiscono un racconto allegorico ben più complesso e ricco di significati e per questa ragione trovo giusto avventurarsi in un montaggio della parte originale sopra la derivazione (Foto 11), per farci immaginare meglio le qualità di ciò che si è perduto. Ci troviamo di fronte, è palese, a un taglio indotto da una bieca moltiplicazione commerciale, che tuttavia ci spinge a sperare in un futuro ritrovamento.
Con buona probabilità, un dipinto orchestrale di questo tipo, implicava la condivisione del cavalletto con un altro pittore, uno specialista in tappeti da tavolo, senza per questo escludere che Luigi potesse fare tutto da sé, data la versatilità alla quale ci sta abituando. Ma di regola, nella Roma barocca, certi ipertesti procedevano in coppia professionale se non addirittura in terzetto e se fu così, Gentile dovette collaborare anche in altre occasioni, perché è del tutto analoga l’impostazione di una tela che ho identificato al Museo Réattu di Arles, dove una giovanissima Berenice taglia la sua chioma, mentre si appoggia a un tappeto sul quale abbondano oggetti da toletta (Foto 12). Non a caso nel museo provenzale l’opera è classificata sotto il nome di Francesco Noletti detto il Maltese, maestro di rigogliose tessiture dipinte [xi].
Seppur più corsive vi si ritrovano le fisionomie della Madonna di Toronto e pure un bellissimo rame, recentemente restituitogli da Tommaso Borgogelli e presentato alla Galleria Cantore di Modena, ripete in modalità quasi cinetiche il medesimo volto in varianti che corrispondono alle Sette giovani martiri della fede cristiana [xii](Foto 13).
Viene da riflettere sulla possibile filiazione sacchiana di Gentile, che non significa necessariamente esserne stato allievo (tra loro c’era una differenza di sette anni), semmai conferma l’adesione a uno dei due partiti nei quali si divideva allora il Barocco romano, quello filosofico e composto, promosso per l’appunto da Andrea Sacchi e quello più enfatico guidato da Pietro da Cortona.
Va da sé che i puristi cresciuti alla lezione dei bolognesi Domenichino, Reni e Albani, come il Sassoferrato, Gian Domenico Cerrini e Lorenzo Greuter, fiancheggiavano quella schiera e anche lo stile tornito e levigato di Luigi Gentile vi trovava maggiore assonanza, mentre si pone lontano dalle pastose sfrangiature dei cortoneschi.
Torna utile allora rivedere quello che considero un apice dell’artista, per qualità e ingegno concettuale: la Venere che incontra Apollo e le Muse [xiii] (Foto 14) di collezione privata, che pur essendo eseguita su tela dimostra una estrema e cristallina smaltatura.
Il racconto arcadico lascia dietro a sé ogni affettazione che altri adepti del genere difficilmente riuscivano a superare e il risultato appare sincero e terso come la luce che ne profonde la grazia. Davvero raro ritrovare, in un dipinto di contenute dimensioni, un così armonico movimento di ‘massa’, nella prospettiva costruita su sole architetture di corpi, che degradano in pulviscoli cromatici senza smarrire alcun accordo entro una struttura che va giudicata a tutti gli effetti ‘sinfonica’.
Dispiace a questo punto mostrare solamente attraverso foto in bianco e nero un’altra nuova pittura di soggetto mitologico conservata a Roanne, nel Museo Joseph Déchelette[xiv] sotto il nome di Filippo Lauri. Anche in questo caso si tratta di una piccola tela di Luigi Gentile, nella quale Venere, Mercurio e Amore si scagliano contro Bacco (Foto 15), disperdendo un festino con ninfe e satiri che si svolgeva in una radura boschiva.
La vocazione all’ideale, espressa in contesto arcadico aderisce, come si è detto, all’alfabeto coniato a Roma da alcuni artisti felsinei, ma che trovava nella declinazione di Sacchi una riva intellettuale ed estetica che di certo Gentile condivise e fece propria. Lo rivela ogni scelta di campo contenuta nei nuovi dipinti, che ci conferma una postazione di altissimo livello e di prolungata fortuna, sia in ambiente ecclesiastico che nel gusto laico di ispirazione letteraria.
Rimanendo per alcune opere ad una visione in bianco e nero, ma per le quali va immaginato una gamma luminosa e tersa, segnalo un rametto con una Cerere e Nettuno [xv] (Foto 16), che sopporta qualche consunzione e non è privo di ridipinture, ma appartiene senza meno al Gentile maturo, malgrado nel museo berlinese sia catalogato come lavoro di Francesco Romanelli.
Passo poi a un altro bisticcio arcadico, questa volta tra Le Ninfe di Diana che aggrediscono Callisto[xvi] (Foto 17) schedato nell’archivio Zeri come opera di ambito bolognese mentre ne viene segnalato un passaggio sul mercato antiquario romano nel 1968.
In tutta evidenza, a partire dalle fisionomie dei putti e delle ninfe, si tratta di un dipinto di Louis Cousin anche se in questo caso le dimensioni sono più ampie.
Luigi Gentile si era già dimostrato incline a narrare, senza scrupoli o incertezze, storie pagane a sfondo morale, allegorie tratte dall’iconologia del Ripa o episodi desunti dall’Antico Testamento. In particolare avevo reso noto alcune versioni di un tema che dovette essere gradito all’artista e ai suoi collezionisti, parlo delle numerose varianti del Ritrovamento di Mosé (Foto 18-19-20-21) alle quali aggiungo un altro inedito, forse il migliore, passato da Bonhams a Londra il 29 aprile 2015 come Donato Creti [xvii].
Meno frequente è la rappresentazione da opere letterarie contemporanee all’artista e credo possa servire la conoscenza di una Erminia e Tancredi (Foto 22) passata sul mercato il 2 giugno 2015 sotto il nome di Sebastiano Mazzoni[xviii], che rientra nel repertorio patetico del barocco più maturo, declinato in direzione classicista.
A chiudere il nutrito gruppo di opere ‘picciole’[xix] affianco tre tondi eseguiti con supporti differenti, il primo è un rame e mette in scena una Allegoria della Speranza che allatta Amore (Foto 23), tema erotico e filosofico insieme, che era già stato messo in valore dal nostro fiammingo.
È conservato in una importante collezione privata di Ravenna ed è ambientato in riva al mare, in assonanza con l’àncora che è attributo della virtù, raffigurata qui in forma caritatevole. Il secondo è di nuovo un dipinto realizzato su pietra nera, ma di pochi centimetri di diametro e mette in scena un grazioso Gioco di putti (Foto 24). L’opera era sul mercato antiquario il 14 dicembre 2016 come bottega di Francesco Albani.
La stesura del terzo è invece in tela e torna su argomenti di un amore antico, mitologico, mostrando una Venere che trattiene Adone (Foto 25), dunque già la dea sapeva che il suo amato pastore sarebbe andato incontro alla morte[xx]. Alle spalle dei due si scorge un amorino con le braccia conserte al petto, forse pentito di aver suscitato un sentimento che implica dolore alla propria madre.
Aggiungo un rame quadrilobato con un’Apoteosi di San Giovanni Evangelista[xxi] (Foto 26), impostato come una vela che sta alla base di una cupola, mostra l’autore dell’Apocalisse giovane e portato in cielo da un gruppo di otto angioletti, festosi e del tutto affiliabili al Gentile.
Dopo essere transitata in asta come scuola di Francesco Albani, l’opera si trova ora in una collezione privata di San Marino, dove ho potuto riconoscerla.
Sia i putti che il santo servono da ponte per passare alle ultime novità di questo saggio, riguardanti alcune pale d’altare e implicanti viaggi dell’artista che le stesse fonti biografiche menzionano.
Il Passeri nel suo libro del 1772[xxii]afferma che la pala di Gentile, ancora conservata nella chiesa di San Marco a Roma e già presente nel 1665, venne eseguita al ritorno da un viaggio intrapreso dal pittore nelle Marche e nel Veneto. Laura Russo, che ha redatto la preziosa scheda biografica per il Dizionario della Treccani, ritiene errata la collocazione cronologica di questo soggiorno nell’Italia settentrionale, perché risulterebbe pressoché ininterrotta la presenza del Cousin a Roma dal 1639 al ’57, come attestano numerosi documenti ritrovati da Hoogewerff (1913, II, pp. 11 s.)[xxiii], ritengo invece assolutamente compatibile, non solo per la ormai comprovata rapidità esecutiva dell’artista, ma anche perché i viaggi di lavoro servivano talvolta a ricevere commesse che poi, potevano essere realizzate a Roma e quindi spedite alla destinazione definitiva.
È pur vero che nelle Marche e nella dimensione conventuale che accoglie quelle opere Luigi può aver trovato agio di lavorare producendo quadri corsivi e di alternato impegno creativo. Troppo spesso siamo portati a pensare che nei secoli scorsi gli spostamenti fossero solo di lunga durata, ma non era sempre così.
A questo proposito vorrei accostare alla Lapidazione di Santo Stefano, (Foto 27) eseguita da Luigi per i cappuccini di Pesaro, un’omologa pala che si trova a Brissago, nel Canton Ticino (Foto 28), che al tempo dell’artista era terra lombarda. Si tratta di un energico dipinto che al momento è attribuito a Vincenzo Dandini [xxiv], ma che posto a confronto con la variante marchigiana fa sciogliere ogni riserva circa la paternità del Gentile.
L’ingombro a piramide formato dal corpo e dalle vesti diaconali del Santo risulta di nobile costruzione e anche la figura del carnefice in primo piano si erge memore delle pale lasciate da Poussin e Valentin in San Pietro. Già presente in una visita pastorale del 1653 venne commissionata a Roma da un gruppo di immigrati provenienti dalle terre lombarde.
Nel medesimo territorio sono già storicamente riferite a Gentile, ma sostanzialmente ignote agli studi, almeno altre due opere, una Santa Rosalia che intercede per la peste (Foto 29) e un Transito di San Giuseppe (Foto 30).
La Santa Rosalia in particolare trova relazione col Martirio di Santo Stefano ora pubblicato e testimonia una diffusione del culto della santa siciliana anche in regioni settentrionali. Tornano le tipologie fisiche affusolate e la fronte larga dell’angelo che ripone la spada nel fodero, che anche se l’opera non fosse documentata, equivarrebbe a una firma. Analoghi tipi formali li ritroviamo nell’Orazione nell’Orto (Foto 31) resa nota di recente da Tommaso Borgogelli e ritrovata a Napoli, presso la chiesa di Sant’Erasmo a Castel Sant’Elmo.
Sempre nel napoletano, precisamente alla Cattedrale di Pozzuoli, era presente, prima di uno sciagurato incendio che l’ha distrutta, una pala d’altare che le fonti riferivano a Gentile e che raffigurava Sant’Agostino e la sua famiglia spirituale[xxv].Di questa si è salvata solamente una foto in bianco e nero (Foto 32), che tuttavia ci restituisce un livello notevole di qualità e invenzione.
Era firmato da Gentile e i documenti della chiesa sanciscono una datazione molto precoce, tra il 1632 e il 1637, per un quadro che stupisce nella capacità dell’autore di adattarsi a esigenze visive ogni volta diverse.
Da quel che possiamo vedere si trattava di un’opera fortemente legata alla più nobile maniera degli artisti fiamminghi operanti nel meridione d’Italia e questa ennesima veste espressiva del nostro pittore apre ulteriori possibilità alla ricerca. Non mancherà nemmeno di ritrovarsi qualche altra opera di Luigi con più spiccate connotazioni naturalistiche, se non propriamente caravaggesche, come l’Incredulità di San Tommaso di Dublino e il Lot e le figlie della Pallavicini lasciano scommettere.
A chiusura di questo intervento presento infatti un’opera, anch’essa reduce da malanni conservativi, che tuttavia lascia scorgere la mano di Gentile in un periodo che potrebbe risultare prossimo alla distrutta pala di Pozzuoli.
Si tratta di una Madonna col Bambino con Sant’Anna, San Pietro e San Paolo (Foto 33), conservata a Narni nella Parrocchia dei Santi Giovenale e Cassio, dove risulta classificata come anonimo umbro del XVII secolo[xxvi].
Da tempo sto pensando a una monografia dedicata a Luigi Gentile, ma credo che, prima di dedicarsi a un lavoro così impegnativo, servano ancora studi che aggiungano date biografiche e qualche altra collocazione cronologica delle opere, per farsi un’idea più precisa del vasto arco professionale dispiegato dall’artista fiammingo. Serve anche attendere un assestamento degli effetti causati dalla mia proposta di attribuire a Gentile anche la candida e famosissima Sibilla Barberini (già considerato Ritratto di Beatrice Cenci), che ha aperto un ‘travaso’ di attribuzioni dal catalogo di Ginevra Cantofoli ancora non chiarito nei suoi contorni[xxvii].
L’argomento è troppo vasto e delicato per risolverlo in questo frangente e mi riprometto di tornarci sopra in modo più specifico e approfondito, dato che coinvolge l’intero movimento classicista romano, entro il quale sarà necessario fare il giusto spazio alle figure di Lorenzo Greuter e del nostro fiammingo, che solo fino a pochi anni fa non si percepivano. Soprattutto Luigi Gentile ora sappiamo che giocò un ruolo apicale e d’ora in poi glielo dovremo riconoscere. Un ruolo svolto lavorando a lungo per due corti papali così come per i più sperduti conventi cappuccini, tenendo sempre una postazione da idealista e narratore, disponibile per talento ad applicarsi sia alle miniature che ai quadri d’altare, sia nel campo del ritratto che in quello della favola mitologica o letteraria, giocando anche in concerto con altri artisti e inventando iconografie che fino ad ora hanno avuto ben più fortuna del suo nome.
Massimo PULINI MONTIANO 22 Dicembre 2022
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