di Nica FIORI
“Se riduciamo i 13,8 miliardi di anni dell’Universo a un periodo di dodici mesi, i dinosauri compaiono verso Natale, mentre i primi Homo sapiens arrivano solo pochi minuti prima dei fuochi d’artificio di Capodanno”.
Rifacendosi a questa asserzione della paleoarcheologa Rebecca Wragg Sykes (in Neanderthal, vita, arte, amore e morte, 2020), l’artista romano Pietro Ruffo ha intitolato L’ultimo meraviglioso minuto la sua mostra che si tiene a Roma, nel Palazzo delle Esposizioni, dal 29 ottobre 2024 al 16 febbraio 2025.
Curata da Sébastien Delot, direttore della collezione del Museo Nazionale Picasso di Parigi, e prodotta e organizzata da Azienda Speciale Palaexpo, presieduta da Marco Delogu, la mostra è concepita come un lungo e articolato viaggio nello spazio e nel tempo e si presta a molteplici letture visive e riflessioni sul nostro pianeta, a partire dal titolo, che potrebbe anche apparire ingannevole, in quanto sembra escludere il futuro, mentre il tempo è eterno.
L’ultimo minuto non è altro che il tempo infinitesimale trascorso dall’uomo sulla terra e l’aggettivo “meraviglioso” toglie quel sentore di catastrofe che qualcuno potrebbe percepire pensando alla fragile bellezza del nostro mondo, il cui cambiamento climatico rischia di arrivare a un punto di non ritorno, che, secondo alcuni scienziati, potrebbe essere molto vicino. Come evidenzia lo stesso Ruffo nella mostra, i cambiamenti climatici ci sono sempre stati, nel corso delle varie ere geologiche che hanno continuamente modificato la crosta terrestre con formazione di oceani e continenti, innalzamento di montagne, vulcanesimo, creazioni di arcipelaghi e abissi marini.
Come scrive Ivana Della Portella, vicepresidente dell’Azienda Speciale Palaexpo, nel suo testo di presentazione della mostra, l’artista si addentra
“nella dimensione di quello che oggi viene definito genericamente come antropocene … E Ruffo lo fa con spirito indagatore, usando gli strumenti a lui più congeniali, come la carta, il legno, la ceramica o altri materiali sperimentali. Progetta il suo tessuto geologico con perizia rara. Accompagnando lo sguardo oltre il confine, oltre gli spazi, oltre il tempo”.
La sua opera lì per lì può provocare “un senso di spaesamento” – afferma ancora Della Portella – tuttavia
“man mano che la si osserva con acutezza, svela l’arcano di un immaginario profondo e intenso”.
Non possiamo che concordare con questa impressione, perché la ricerca artistica di Pietro Ruffo, già apprezzato dalla critica e dal pubblico internazionale (ricordiamo che alcuni suoi lavori sono entrati a far parte di importanti collezioni museali, tra cui i Musei Vaticani), deriva da considerazioni filosofiche, storiche, scientifiche ed etiche, mentre dal punto di vista estetico appare legata agli elementi base della sua formazione da architetto: il progetto, la carta e il disegno. Ogni suo lavoro ha origine da uno studio meticoloso, attento ai minimi dettagli, e prende forma sul foglio attraverso segni e colore; non mantiene tuttavia la bidimensionalità di un semplice disegno, poiché la carta viene intagliata e sovrapposta rendendo l’idea della stratificazione, che metaforicamente allude agli scavi stratigrafici che hanno riportato alla luce il passato dell’umanità e quello ancora più remoto del nostro pianeta.
Ed è proprio “Il mondo prima della creazione dell’uomo” il tema della prima sala della mostra, ripreso dal titolo di un libro di Camille Flammarion del 1886, che Ruffo ha letto da adolescente soffermandosi sulle suggestive illustrazioni e su frasi come questa:
“Non vi erano che foreste selvagge ed impenetrabili, fiumi i quali scorrevano silenziosamente framezzo a rive solitarie, montagne senza anima viva che le ammirasse … e notti stellate senza alcuno che le contemplasse”.
Per dare l’idea della vegetazione del pianeta ancora non antropizzato, Ruffo ha disegnato con una penna bic una foresta primordiale (Primordial Forest, 2024) in una sorta di un immenso sipario (700 metri quadri) che corre lungo tutto il perimetro dell’ambiente, circondando i visitatori di immagini di piante e minerali relativi a un suo remotissimo passato (si parte da 55 milioni di anni fa). Per rendere l’idea delle montagne, con le diverse stratificazioni geologiche, ha poi raffigurato una porzione del Gran Canyon in una poderosa struttura autoportante (4 metri per 21) che taglia la sala, dipinta a inchiostro su carte intelate con la tecnica del camaïeu (ovvero usando diversi toni della stessa tinta, in questo caso la terra di Siena bruciata).
L’artista ha immaginato su quel canyon alcune conchiglie e qui il mio pensiero corre a un altro letterato ottocentesco, il poeta Giacomo Zanella, che nella poesia “Sopra una conchiglia fossile” ci fa sognare con questi versi:
“Occulta nel fondo / d’un antro marino / del giovane mondo / vedesti il mattino; / vagavi co’ nautili, / co’ murici a schiera; / e l’uomo non era”.
Del resto anche in Europa la presenza di innumerevoli reperti fossili marini ci fa capire che l’acqua copriva territori poi emersi e già gli antichi greci pensavano che questo elemento fosse, tra i quattro archetipici, quello più potente, la forza primigenia da cui si genera la vita e a cui tutto farà ritorno, secondo il concetto filosofico di Talete di Mileto, riportato da Aristotele nella sua Metafisica, che è alla base della filosofia occidentale.
La prima sala riserva altre sorprese, perché aggirando la struttura centrale troviamo De Hortus (2024), ovvero una serie di basse installazioni circolari di diverse dimensioni, dove resti di vegetali (fossili) di vari colori, realizzati a inchiostro, acquerello e intagli su carta intelata, sembrano galleggiare come ninfee.
Lungo il sipario che evoca la foresta primordiale troviamo, inoltre, sette piccoli quadri con sovrapposizioni di foglie brillanti su carte variamente disegnate.
Il percorso della mostra procede addentrandosi nell’Antropocene: l’epoca geologica in cui l’ambiente terrestre, inteso come l’insieme delle caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche in cui si svolge ed evolve la vita, è condizionato dagli effetti dell’azione umana. Nella seconda sala i visitatori si trovano immersi in un archivio visivo che ripercorre simbolicamente le tappe dell’evoluzione dei nostri antenati, a partire da Saccopastore, un’opera del 2024 che raffigura a olio e intagli su carta intelata i teschi dei Neanderthal di Saccopastore, una località romana dove è stato trovato un primo cranio nel 1929 e un secondo nel 1935. Il primo cranio rinvenuto, che presenta due fori dovuti probabilmente a un’involontaria picconata, apparteneva a una donna vissuta oltre 100.000 anni fa (Paleolitico inferiore) ed è uno dei più completi tra tutti quelli dei neandertaliani ritrovati in Europa.
Troviamo esposte anche le opere Amigdale e Statue votive, realizzate nel 2021 sempre a olio e intagli su carta intelata. Mentre le amigdale (pietre generalmente composte da selce, ossidiana e quarzite, scheggiate a forma di mandorla) rimandano ai primi rudimentali strumenti usati dagli uomini primitivi, nelle immagini delle statuette votive sembra di cogliere già un primo pensiero religioso rivolto a una divinità primordiale dalla forma umana.
Nella terza sala i visitatori si trovano immersi in una video-installazione, dal titolo The Planetary Garden, realizzata in collaborazione con Noruwei. Ispirata all’omonimo testo del filosofo francese Gilles Clément, l’opera restituisce in forma tridimensionale il movimento, lo slittamento e il cambiamento del paesaggio nel tempo. La distanza temporale si annulla portando il passato nel presente o, al contrario, riportando il presente al passato.
L’ultima sala è quella che suscita maggiormente l’interesse dei Romani, perché illustra l’Antropocene attraverso le stratificazioni di Roma. È emozionante pensare a quando, in un paesaggio preistorico assai diverso da quello attuale, vivevano piante e animali adattati a climi caldi, che attiravano diversi predatori, fra cui anche i già citati cacciatori neanderthaliani, i cui crani sono stati trovati, oltre che a Saccopastore, in altre località del Lazio (è nota soprattutto la grotta Guattari nel Circeo). A Roma alcuni ritrovamenti di elefanti antichi e numerosi reperti geologici, paleontologici e archeologici sono esposti nel Museo di Casal De’ Pazzi, che ricopre parte di un deposito di epoca pleistocenica, contemporaneo a quello perduto del colle della Velia, il cui sbancamento nel 1932 ha restituito i resti fossili dell’Elephas antiquus, databili a ca. 200.000 anni fa ed esposti nel 2021-22 nello stesso Palaexpo in occasione della mostra “La scienza di Roma”.
Com’era Roma quando il suo territorio era attraversato da giaguari, elefanti e rinoceronti ? E com’era al momento della sua fondazione nel 753 a.C.? Volendo rispondere a queste domande, l’artista ha proposto una passeggiata inedita nella storia e nella preistoria del territorio romano mediante l’utilizzo di due note mappe della città, quella settecentesca di Giovanni Battista Nolli e quella ottocentesca di Luigi Canina, innestate con squarci di inattesi panorami. Tra le architetture raffigurate riconosciamo anche il Pantheon in Antropocene 89. Rome Pantheon.
Nelle opere raccolte in questa sala, realizzate tra il 2023 e il 2024, si passa dalle profondità marine con i suoi pesci e molluschi che invadono l’Urbe (Antropocene 77, Rome Under the Sea), alla foresta primordiale (Antropocene 92, Rome Covered by a Primordial Forest) e poi al teatro di grandi costruzioni architettoniche (Antropocene 51, Rome Imperial Period; Antropocene 53, Rome Porta Maggiore e altre). L’antologia di paesaggi esplorata in queste opere, create apposta per l’esposizione romana, si presenta come
“un mosaico di momenti storici e futuri ipotetici, in cui ogni tassello della trasformazione è allo stesso tempo conseguenza di eventi naturali e dell’intervento umano”.
Di grande interesse è anche il catalogo che accompagna la mostra, edito da Drago; a cura di Sébastien Delot, presenta contributi del curatore, di Guido Rebecchini, di Rebecca Wragg Sykes e di Sofia Di Gravio.
Nica FIORI Roma 3 Novembre 2024
*La foto d’apertura è di Giorgio Benni
“L’ultimo meraviglioso minuto. Pietro Ruffo”
Palazzo Esposizioni, Roma, via Nazionale, 194