di Francesco MONTUORI
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M.Martini e F. Montuori
Lungo Spaccanapoli
SAN DOMENICO MAGGIORE
La fondazione della basilica risale al 1238, anno in cui Carlo d’Angiò ne finanziò l’edificazione e affidò l’imponente edificio, costruito secondo la maniera gotica, ai frati predicatori Domenicani che, a tutt’oggi, risiedono nel Convento. Il re Carlo d’Angiò esaudì cosi un voto fatto alla Maddalena durante la prigionia patita nella vicenda dei Vespri siciliani, quando nell’ora dei vespri, una ribellione scoppiò a Palermo contro gli Angioini, dominatori francesi dell’isola.
La consacrazione della basilica avvenne nel 1255 per volere di papa Alessandro IV ma i lavori si protrassero fino al 1324, condotti con perizia ed esperienza, nella fase definitiva, dagli architetti francesi Pierre de Chaul e Pierre d’Angicourt (fig.1).
Il grande complesso domenicano è composto da molteplici episodi: la piazza con l’obelisco di San Domenico; la basilica di San Domenico Maggiore; il Convento domenicano con i suoi molteplici e sorprendenti ambienti. Tre chiostri articolano il complesso religioso, definendo i caratteri di un insula autonoma in prossimità di via dei Tribunali (fig.2).
Il convento di San Domenico Maggiore è il risultato di una secolare stratificazione che fu avviata a partire dal 1227 quando papa Gregorio IX inviò a Napoli un piccolo gruppo di domenicani che si stabilirono nell’antico monastero di San Michele Arcangelo a Morfisa. L’organismo, nel corso dei secoli si estese progressivamente in un’insula di grandi dimensioni (fig.3).
La basilica fu frequentata da numerose personalità: vi insegnò San Tommaso d’Aquino; dal 1515 al 1615 e dal 1701 al 1736 fu sede dell’Università di Napoli e vi studiarono i filosofi Giovanni Pontano, Giordano Bruno, Tommaso Campanella.
Il complesso, la chiesa ed il convento, sorge su una piazza lungo via Benedetto Croce e via San Biagio dei Librai in prossimità della piccola chiesa di San Nilo, lungo Spaccanapoli, nelle vicinanze del Gesù Nuovo e di Santa Chiara; la basilica si mostra con l’abside sulla piazza omonima ove si trova la classica guglia napoletana (fig.4).
Fin dal Rinascimento San Domenico ha rappresentato un polo strategico per la storia della città; i sovrani aragonesi elevarono la chiesa a Pantheon della loro dinastia e qui si trovano le loro sepolture, le Arche aragonesi.
Piazza San Domenico è una delle piazze più importanti di Napoli; essa si trova lungo il decumano inferiore della città, crocevia fra Spaccanapoli e via Mezzocannone; sulla piazza la basilica si affaccia con la sua zona absidale, chiusa in alto da una cornice merlata che si erge poderosa di fronte all’obelisco di San Domenico, scolpito da Francesco Antonio Picchiatti, eretto dai cittadini di Napoli per essere scampati dall’epidemia della pestilenza (fig.5).
La costruzione venne più volte sospesa poiché nello scavo delle fondamenta furono trovati sotto il livello stradale i resti di alcune mura e una parte di una volta di una antica porta della città. La costruzione dell’obelisco venne ripresa solo nel 1737 da Domenico Antonio Vaccaro su sollecitazione di Carlo III di Borbone; al centro si erge la statua di San Domenico, tra due palme lavorate in bassorilievo.
Dalla piazza si accede alla Basilica attraverso una grande scalinata, voluta inizialmente da Alfonso I d’Aragona per accedere alla piccola chiesa romanica di San Michele Arcangelo a Morfisa; essa permetterà anche l’accesso al transetto destro della basilica domenicana. La piccola chiesa di San Michele costituirà il primo nucleo di quello che diverrà il grande complesso domenicano: la basilica, il monastero, l’ospedale; in seguito nella ricostruzione di tutto il complesso San Michele Arcangelo fu integrata al nuovo imponente tempio, conservando il suo ingresso laterale (fig.6).
Alta sulla piazza si staglia l’abside su cui, al culmine della monumentale scalinata, si apre l’ingresso della basilica (fig.7);
la facciata, come in altre chiese di fondazione angioina, prospetta sul cortile dell’omonimo convento e mostra, nella sua stratificazione, i segni dei numerosi rimaneggiamenti subiti a partire dal Rinascimento quando terremoti ed incendi costrinsero a importanti rifacimenti. La chiesa è a tre navate con il transetto e l’abside poligonale, ritmata da robusti pilastri cui si addossano le colonne che sorreggono gli archi acuti. All’interno determinanti furono i rifacimenti barocchi fra cui la sostituzione delle pavimentazioni ad opera di Domenico Antonio Vaccaro (fig.8).
Il soffitto a cassettoni fa parte di un rifacimento settecentesco; al centro si nota lo stemma dell’Ordine Domenicano; seguendo la navata centrale ci troviamo di fronte l’imponente Altare Maggiore, opera di Cosimo Fanzago, recinto da una balaustra, con cattedre marmoree alla base dei pilastri. Sotto l’altare si conservano le spoglie del beato Raimondo da Capua che fu confessore di S. Caterina da Siena (fig.9).
A sinistra si erge il grande Candelabro Pasquale; eseguito nel 1585 poggia su una bella base scolpita da Tino Di Camaino per il sepolcro di Filippo d’Angiò. Due scale ai lati dell’Altare Maggiore portano alla cripta ottagonale un tempo affrescata dal Salimena. Sull’altare, che è in marmo bianco, rosso e nero una tela dello stesso Salimena raffigura la Vergine circondata dai Domenicani.
Numerose e ricchissime sono le cappelle. Mantiene l’originario apparato decorativo la cappella Brancaccio, con le pitture medioevali di Pietro Cavallini, tra i più importanti seguaci di Giotto. Chiamato a lavorare alla basilica dal re Carlo II d’Angiò nel 1308 affresca le Storie di San Giovanni Evangelista (fig.10);
vi riconosciamo la lezione rivoluzionaria di Giotto chiaramente espressa nel maestro romano dai colori intensi, dai personaggi non appiattiti sul fondo astratto e bidimensionali come nella pittura bizantina, ma inseriti nel paesaggio e nelle tipiche scatole architettoniche di invenzione giottesca.
Al termine della navata destra è il Cappellone del Crocifisso che accoglie vari sepolcri dei Carafa dal XV al XVIII secolo (fig.11);
a sinistra dell’altare si apre la cappella Carafa di Ruvo ornata nella cupola da affreschi di Pedro Fernandez, pittore spagnolo operante a Napoli nei primi decenni del cinquecento: ai quattro lati figure di profeti e al centro una balaustra aperta su un cielo azzurro dove gli angeli fra le nuvole, che sorreggono lo stemma Carafa, creano uno scenografico effetto dal sotto in su che ricorda le pitture di Andrea Mantegna per la Camera degli Sposi del Palazzo Ducale di Mantova (fig.12).
Dal transetto destro si ammira il sepolcro di Giovanni d’Angiò opera di Tino da Camaino da cui si accede alla cappella ricavata dall’antica chiesa di San Michele a Morfisa e alla sacrestia, uno spazio barocco affrescato da Francesco Solimena con il Trionfo della fede sull’eresia ad opera dei Domenicani; lungo il ballatoio sono allineati i feretri dei sovrani e dei dignitari aragonesi. Imponenti nel presbiterio l’altare di Cosimo Fanzago; il transetto sinistro accoglie il sepolcro di Filippo d’Angiò di Tino di Camaino (fig.13)
Alcune delle opere più importanti eseguite per San Domenico si trovano oggi in diversi musei: la Madonna del pesce di Raffaello, oggi al Museo del Prado; l’ Annunciazione di Tiziano (fig.14) e la Flagellazione di Caravaggio al Museo di Capodimonte. Di quest’ultimo dipinto si conserva una copia fedele dipinta da un importante pittore caravaggesco napoletano, Andrea Vaccaro.
Numerosi sono gli ambienti del convento: il Grande Refettorio che venne eretto negli spazi dell’antica infermeria durante i lavori di ampliamento e ristrutturazione avviati da fra’ Tommaso Ruffo dei duchi di Bagnara, priore di San Domenico dal 1668 al 1672. Si tratta di un ambiente di considerevoli dimensioni, decorato sulla parete di fondo da una prospettiva ad affresco dipinta nel 1675 da Arcangelo Guglielmelli. Sull’ingresso è il dipinto murario raffigurante San Tommaso il preghiera di fronte al Crocifisso. Il Piccolo Refettorio, destinato ai frati infermi; qui una grande tela raffigura San Domenico a mensa con i frati serviti dagli angeli. La Sala del Capitolo con le pareti decorate da stucchi, realizzati da maestranze appartenenti all’ambito di Cosimo Fanzago; un’immensa scena del Calvario decora la parete di fondo della Sala, opera di Francesco Solimena (figg.15 e 16).
Il corridoio e la cella di San Tommaso è attualmente il dormitorio principale del convento; fu ristrutturato nel 1685 ed è’ affrescato da 25 dipinti murari con le storie della Vita di San Tommaso. Qui è la Cella di San Tommaso d’Aquino che vi soggiornò allorchè tenne la cattedra dello Studio teologico istituito dallo stesso convento.
La Sala della Biblioteca o Libraria, considerata fin dal XV secolo una delle più importanti biblioteche napoletane ed oggi confluita nelle raccolte della Biblioteca Universitaria e della Biblioteca Nazionale. Nel 1685 il Picchiatti eseguì lavori di rifacimento di rinnovamento dell’intera sala (fig.17).
Possedeva importanti scritti di Giovanni Pontano; opere di Senofonte ed Aristotile, di Ovidio, Seneca, Cicerone. Fu frequentata da due illustri confratelli: Giordano Bruno e Tommaso Campanella (fig.18).
Infine negli ambienti privati dei domenicani vengono conservati numerosi dipinti tra cui due tele di Mattia Preti del 1656 e 1660; una Maddalena di Fracanzano; pitture del Solimena; opere di Luca Giordano e di pittori di scuola napoletana del 1600.
Come in una successione di scatole, l’una dentro l’altra, Napoli rappresenta una continua sorpresa: ad una inattesa scoperta corrisponde una scoperta ancor più sorprendente……
Francesco MONTUORI Roma 23 gennaio 2022