di Nica FIORI
“Quelle due statue, che erano quattro o cinque volte più alte d’un elefante, rappresentavano due uomini seduti sulle ginocchia ed erano formate di massi enormi, di forma quadrata, saldamente cementati fra di loro. Sul capo avevano una specie di fichu triangolare, che cadeva lungo i lati della faccia, allargandosi al di sopra delle spalle ed avevano sotto il mento quelle strane barbe, formate da una specie di dado, più stretto in cima e più largo sotto, che si osserva in tutti gli antichi monumenti egiziani. … Mirinri si era arrestato, guardando con visibile emozione i due colossi. Se egli era veramente un Faraone, il suono doveva udirsi; se rimaneva muto quale delusione!”
I celebri Colossi di Memnone vengono così descritti da Emilio Salgari nel romanzo “Le figlie dei faraoni” (1905).
A uno scrittore come lui, che nutriva una grande passione per i paesi esotici (in realtà mai visitati, ma studiati sui testi enciclopedici della sua epoca), non poteva certo sfuggire il riferimento al fatto che una di quelle statue emettesse all’alba uno strano suono che sembrava un canto. Secondo una tradizione il suono si faceva udire solo in presenza di un faraone, ovvero di un figlio del Sole.
Proprio per questo fatto straordinario e inesplicabile questi colossi, una delle attrattive dell’antica Tebe, godevano in età ellenistica di una venerazione grandissima. Si tratta in realtà di due statue gigantesche di Amenofi III (ellenizzazione dell’originale Amenhotep III), poste all’entrata del suo tempio funerario nella città dei morti, che si ergeva un tempo sulla riva occidentale del Nilo.
Questo faraone, detto il Magnifico, regnò dal 1388 al 1350 a.C. circa e il suo regno fu considerato un periodo di prosperità e di splendore artistico senza precedenti, prima della crisi religiosa e politica provocata dal successore Amenofi IV, che dopo sei anni di regno cambiò il proprio nome in Akhenaton per ribadire il suo credo monoteista in Aton (il disco solare), inimicandosi così i sacerdoti del potente dio Amon, considerato il re di tutti gli dei egizi.
In un paese come l’Egitto, dove si ergono simboli giganteschi del potere dei faraoni, non ci meraviglia più di tanto la grandezza delle statue gemelle di Amenofi III seduto (alte 18 m), perché egli disponeva di enormi ricchezze, tanto che per il suo tempio funerario fece realizzare centinaia di statue della dea Sekhmet, una per ogni giorno dell’anno. Il tempio, dedicato a Mut, fu fortemente danneggiato da un terremoto nel 1200 a.C. e le statue furono successivamente utilizzate per un nuovo tempio di Mut in un altro luogo e ancora oggi vengono fuori dagli scavi (v. articolo https://www.aboutartonline.com/il-male-e-il-bene-della-dea-sekhmet-una-potenza-grande-quanto-linfinito-in-vaticano/).
Ma torniamo al periodo ellenistico, che reinterpretò i colossi dell’antico faraone, già all’epoca molto deteriorati, come raffigurazioni di Memnone. Le pietre che cantavano erano considerate una prerogativa degli Etiopi, trattati dagli Egizi con grande rispetto perché dalla loro terra misteriosa giungeva l’acqua del Nilo. Ebbene, Memnone, il cui nome si è sovrapposto per assonanza a quello di Amenofi, era etiope, figlio del mitico re Titono (o Titone) e di Eos, l’Aurora. Chi meglio di lui poteva cantare dal suo simulacro di pietra?
Memnone, secondo il greco Pausania, aveva combattuto da eroe sotto le mura di Troia. Il suo nome era stato cantato perfino da Omero. Egli era nero, ma il più bell’uomo tra i viventi e, come Achille, indossava un’armatura forgiata da Efesto.
Dopo aver ucciso Antiloco, morì per mano di Achille. Invano la madre chiese a Zeus l’immortalità per il figlio: da allora ogni mattina Eos piange lacrime di rugiada. E le Memnonidi, gli uccelli nati dai tizzoni del suo rogo funebre, volano, si azzuffano e cadono poi sulla tomba dell’eroe, come offerte funebri, quando il sole ha percorso tutti i segni dello zodiaco.
Nessuno mette in dubbio che il colosso di Tebe emettesse realmente un suono, interpretato come il saluto dell’eroe alla madre nascente. Troppe fonti antiche ne parlano. Strabone fu il primo ad affermarlo, avendo udito il suo strano crepitio nel 20 a.C. in compagnia di Elio Gallo, prefetto d’Egitto, senza riuscire però a capire se la vibrazione partisse dalla statua o dal piedistallo. Uno dei tanti autori antichi, Filostrato, descrive il fenomeno nella sua Vita di Apollonio di Tiana (II-III secolo d.C.) con parole affascinanti: “I raggi del sole colpiscono le labbra, come un plettro che tocchi la lira, producendo una voce che consola la dea del mattino”.
La fama raggiunta dal canto del colosso portò un flusso continuo di visitatori, tra cui alcuni imperatori romani. Ancora oggi sono leggibili numerose iscrizioni in greco e latino di persone che affermano di aver sentito il suono emesso dalla statua. In epoca a noi più vicina, questa antica meraviglia descritta e riprodotta da innumerevoli scrittori e artisti ha ispirato a Giovanni Pascoli questi versi di uno dei suoi Poemi Conviviali, “Le Memnonidi”:
“Or egli è pietra, e ben che nera pietra, / il figlio dell’Aurora ha le sue pene, / ché quando io sorgo, e piango, ei dalle vene / rivibra un pianto come suon di cetra… ”
È stato detto che la “statua sonante” avesse cominciato a cantare in seguito a una scossa sismica, che le aveva provocato una grande frattura all’altezza del ventre. Una spiegazione scientifica potrebbe essere legata alla natura stessa della pietra che, essendo formata da materiali eterogenei con una forte componente silicea, sotto le repentine variazioni di temperatura crepitava. Il suono comunque cessò nel momento in cui il colosso fu fatto restaurare da Settimio Severo (nel 199 d.C.) con grossi massi di marmo e cocciopesto. Con grande disappunto degli Egizi, la pietra divenne muta come qualunque altra pietra e, purtroppo, i faraoni non erano più lì per farsi riconoscere.
Un’altra versione dei fatti attribuisce la capacità di creare statue parlanti alla scienza magica dei sacerdoti egizi. Ciò avveniva, secondo alcuni, grazie a riti in grado di evocare gli spiriti nei corpi di pietra. Il gesuita Athanasius Kircher, che aveva una vera passione per lo studio delle cose egizie, riteneva che, nel caso di Memnone, non si trattasse di spiriti, ma di una sorta di organo idraulico (ne parla nell’Oedipus Aegyptiacus, vol.II, Roma 1652). L’acqua di un grande serbatoio, nascosto nei pressi del colosso, sotto i caldi raggi del sole si scaldava e, a poco a poco, evaporava. Grazie a un meccanismo studiato ad hoc, il vapore era introdotto in una serie di tubi fino a sfociare in una canna sonora, producendo così quel suono modulato, che veniva scambiato per voce divina. Quanto ai Romani, sarebbero intervenuti non per restaurare la statua parlante, ma per colpire la casta dei sacerdoti a loro avversa, mettendo fine così a uno dei loro più grandi prodigi.
Alcuni di essi, in effetti, erano degli illusionisti, o, come si direbbe oggi, creavano degli effetti speciali: statue che volteggiavano nell’aria, porte che si aprivano da sole, fuochi che si accendevano e si spegnevano da soli, dee che versavano latte dalle molte mammelle. Ma, man mano che le conoscenze scientifiche progredivano, di alcuni “miracoli” si cominciò a dubitare. Eugenio Lo Sardo, nel suo libro “Automata. Le macchine del mito” (Roma, 2003) scrive:
“Immaginate nel tempio di Philae, ai confini del regno d’Egitto, la base segreta dei sacerdoti scienziati. Consegna assoluta il silenzio, a chi viola l’ordine si tagli la lingua o si sottoponga ad atroci tormenti. Nell’area più celata dell’immenso complesso, circondata da coccodrilli e da feroci ippopotami, si sperimentano nuovi prodigi, insigni inventori ben pagati e omaggiati svolgono il loro lavoro … Si provano leghe, fusioni, potere dei liquidi e tante diavolerie …“.
Ovviamente si dovevano accompagnare gli eventi con riti e fumi d’incenso, così da creare la giusta atmosfera per assistere al miracolo. I maghi egiziani godevano indubbiamente di grande fama in tutto il mondo antico. Dalla Bibbia apprendiamo alcune notizie sulle loro capacità, come la trasformazione di un bastone inanimato in serpente e viceversa. Quando Mosè ordina al fratello Aronne di compiere questo prodigio, subito dopo i maghi del faraone fanno la stessa cosa, anche se poi il serpente di Aronne divora gli altri serpenti. Ma è impensabile che i sacerdoti non pilotassero la divinazione, quando veniva chiesto alla divinità di far conoscere il suo volere, come per esempio quando, intorno al 1500 a.C., la statua di Amon, durante una cerimonia, camminò e si fermò davanti a Thutmosi, il figliastro della regina Hatshepsut, che così venne riconosciuto faraone (Thutmosi III) e si appropriò del potere a scapito della matrigna.
Nica FIORI Roma 14 giugno 2020