di Claudio LISTANTI
Wolfgang Amadeus Mozart è stato il protagonista assoluto del concerto sinfonico della scorsa settimana inserito nell’ambito della Stagione Concertistica 2022-2023 dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ed affidato all’esperto direttore austriaco Manfred Honeck e ad una compagnia di canto nella quale si è messa in evidenza il soprano Rosa Feola. L’appuntamento musicale cha richiamato presso la Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica un pubblico particolarmente numeroso finalmente ritornato, e con continuità, ai livelli pre-covid.
La locandina, infatti, prevedeva due grandi capolavori del genio salisburghese, la Sinfonia n. 40 in sol minore K 550 e la Messa in do minore per soli, coro e orchestra K 427. Proprio l’esecuzione di questo capolavoro è stata, forse, l’attrazione principale della serata non tanto per i valori assoluti di ognuna delle due composizioni previste che appartengono entrambe ai punti più altri della Musica di tutti i tempi ma, piuttosto, per le esecuzioni non frequentissime della Messa in do minore che, se pensiamo alla più che centenaria storia dei concerti dell’Accademia di Santa Cecilia, prima di oggi se ne possono contare solo cinque edizioni precedenti la prima della quali fu solo nel 1950 grazie al grande Vittorio Gui.
La Messa in do minore per soli, coro e orchestra K 427 ricopre un ruolo di primaria importanza nell’ambito della copiosa produzione musicale di Mozart che, nonostante la sua prematura morte a 35 anni, ci ha lasciato una cospicua eredità musicale all’interno della quale la musica religiosa possiede un notevole ‘peso’. L’esperienza di Mozart del campo del sacro iniziò, prestissimo, a 10 anni con il breve Kyrie K 33 per concludersi poco prima della fine della sua vita terrena con il Requiem K626. Tra questi due estremi ben 18 Messe, 8 Litanie o Vespri, 34 lavori vari come Kyrie, Offertori, Antifone, Mottetti, Inni.
Il genere ‘messa’, come si può vedere ha stimolato costantemente la sua fantasia fin dal 1768, a 12 anni, con la Missa brevis K49 per giungere a questa in do minore composta tra il 1782 e il 1783 che chiuse la sua esperienza con questo genere musicale. Un lungo periodo durante il quale Mozart, influenzato inizialmente dallo stile italiano, progressivamente ha allargato la sua visuale ottenendo ispirazione anche da Bach e Händel. La composizione di queste messe, per la quasi totalità, scaturiva da commissioni dell’ambiente religioso e aristocratico dell’epoca che lo costringevano ad utilizzare uno stile consono a questa finalità.
Con la Messa in do minore, però, non ci troviamo di fronte ad una committenza ma ad una libera scelta del compositore del quale tutti conosciamo la religiosità. Una ispirazione ‘pura’ quindi, stimolata dal fatto che Mozart volle dedicare alla futura sposa Constanze che proprio in quel 1782 era ammalata, per auspicarne la guarigione con la prospettiva di condurla poi a Salisburgo per farla conoscere al recalcitrante padre Leopold contrario alla loro unione. Il matrimonio avvenne dell’agosto del 1782 dopo il quale Leopold diede la sua approvazione.
Mozart raggiunse Salisburgo solo nel luglio del successivo 1783 a causa dei suoi impegni e, anche, per la gravidanza di Constanze che si concluse nel mese di giugno con la nascita del primo figlio che morì però dopo poche settimane.
Quando arrivò a Salisburgo la partitura comprendeva poco più della metà della messa con il Kyrie e Gloria completi, con il Sanctus e Benedictus composti solamente per alcune ‘particelle’ (vocali, violini e per le principali dell’orchestra) e con il Credo solo in abbozzo; era mancante l’Agnus Dei (parte che nelle precedenti messe Mozart aveva dato sempre il meglio di sé).
La prima esecuzione avvenne a Salisburgo presso la Chiesa di San Pietro il giorno 25 agosto 1783 integrando le parti mancanti con altre sue composizioni, esecuzione alla quale non seguirono altre. Quindi, l’altro elemento che contraddistingue l’evoluzione di questo capolavoro è che nei successivi otto anni che seguirono fino alla morte, Mozart non provvide al completamento della messa: un destino analogo all’altro suo capolavoro sacro, il Requiem K626, rimasto incompiuto per il sopraggiungere della morte. Ma Mozart utilizzò la musica della messa K427 per comporre buona parte della cantata Davidde penitente K. 469 che scrisse nel 1785 su testo di Saverio Mattei.
Tutti noi abbiamo ricevuto in eredità questo splendido incompiuto che come tale genera discussioni e dibattiti tra quanti sono propensi ad una totale ricostruzione sia utilizzando brani dello stesso autore e di analoga poetica, sia con l’introduzione di brani di altri compositori: soluzioni che provocano l’inevitabile stridore tra i vari stili utilizzati in contrapposizione ad altri, che si lasciano coinvolgere dal fascino dell’incompiuto, sensazioni e stati d’animo che derivano non solo dalla musica ma anche di tutte le arti visive.
Nel corso degli anni diversi sono stati i tentativi di completamento della Messa in do minore; tra questi quello citato dal musicologo e critico musicale tedesco Hermann Abert nell’impareggiabile biografia critica su Mozart databile tra il 1919 e il 1924, nella quale cita quella approntata nel 1901 a Dresda da Alois Schmitt:
“In questo caso – scrive Abert – le parti mancanti le ha integrate in parte con brani di altre messe, in parte con pezzi sacri staccati di Mozart aggiungendovi alcune chiuse da lui stesso composte e modificando qua e là le parti di accompagnamento. Questa elaborazione ha il merito di aver introdotto l’opera nei normali concerti di musica sacra, è però criticabile nella sua realizzazione”.
A dimostrazione del suo pensiero cita la sostituzione del Crocifixus con un Lacrymosa e l’uso di due Kyrie, il primo tratto dalla Messa K 139 e l’altro appartenente all’opera K322, lamentando anche problemi ed errori negli interventi musicali ex-novo dello stesso Schmitt, elementi che seppur accompagnati ad interventi senza dubbio validi ne compromettono comunque la percezione d’insieme. Il completamento di Schmitt ebbe però il grande merito di consentire a questa composizione di reggere la sfida del tempo e giungere con facilità fino a noi.
A partire dalla seconda metà dello scorso secolo con l’applicazione di criteri filologici per andare alle radici dei capolavori musicali, una soluzione come quella messa in campo da Schmitt fu progressivamente considerata superata. Pur persistendo ancora la soluzione dell’inserimento delle parti mancanti che avevano il pregio di consentire alla Messa di essere introdotta nella liturgia, nel 1956, però, il musicologo statunitense Howard Chandler Robbins Landon ne approntò una nuova edizione basata interamente sul recupero della stesura originale, abolendo tutte le parti aggiunte in passato e ripristinando anche le cosiddette ‘particelle’ che evidenziavano solo la linea di canto e del basso numerato. Successivamente questa prassi fu sempre più utilizzata.
Tra le molte rivisitazioni c’è quella del compositore e direttore d’orchestra austriaco Helmutt Eder che ne approntò una edizione che è tra quelle più utilizzate oggi, adottata anche da Manfred Honeck per il concerto di Santa Cecilia. Tale versione, che non è possibile inserire nella liturgia ecclesiastica, risulta però affascinante e coinvolgente in quanto più vicina allo spirito mozartiano dove emerge con forza una sacralità con non ne contraddice la religiosità ma risulta essere più rivolta ai sentimenti personali del compositore finalmente libero dalle convenzioni appartenenti alla musica sacra dell’epoca. Una composizione senz’altro più genuina e personale come dimostra il fatto per il quale Mozart stesso che non ha mai pensato a completarla.
I critici di oggi sono pressocché unanimi nel considerare la Messa in do minore un’architettura musicale grandiosa basata su un impressionante organico che prevede soprano, contralto, tenore, basso, doppio coro misto, flauto, 2 oboi, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, e la sezione degli archi. C’è la curiosità della mancanza dei clarinetti in quanto a Salisburgo, per la quale fu scritta, non erano utilizzati. Citando le parole usate della musicologa Carla Moreni nell’illuminante saggio contenuto nel programma di sala del concerto, la messa è
“Monumentale nell’invenzione contrappuntistica, stupendamente barocca, corale e severa, appare tuttavia insieme squarciata da Arie di conturbante sensualità e virtuosismo”.
Molto evidenti nella messa sono i modelli di Bach e di Händel fonte di ispirazione del ‘tardo’ Mozart che irrompono con forza nelle prime due parti, il Kyrie ed il successivo Gloria che di questa messa sono gli elementi trainanti dominati dagli incisivi interventi del coro e dei due soprani previsti che si riverberano nel “Kyrie eleison” iniziale per irradiarsi nelle otto parti del Gloria con l’Allegro vivace del grandioso “Gloria in excelsis” iniziale e dal coinvolgente ritmo del “Cum santo spiritu” che conclude questa sequenza. All’interno, pagine di straordinaria spiritualità come il “Laudamus te” affidato al soprano e due grandi pagine per due soprani, il “Domine Deus” e il “Quoniam tu solo” affidato ai due soprani; assieme sono incastonati altri interventi del coro, l’Adagio del “Gratias agimus tibi”, il “Qui tolis peccata mundi” un affascinante Largo per doppio coro e “Jesu Christe” altro essenziale Adagio per coro.
Le due successive parti sono appena abbozzate ed anche in questo caso c’è stato l’intervento di Eder. Il Credo introdotto dall’ Allegro maestoso del coro seguito dallo straordinario “Et incarnatus est” a noi giunto come uno ‘schizzo’ e completato dal prima citato Elmut Eder affidato al soprano con le parti obbligate di flauto, oboe e fagotto, una melodia impalpabile e delicata, certamente uno dei gioielli di questa partitura. A concludere si riparte con un’altra pagina grandiosa, il “Sanctus” per doppio coro e il delicato “Benedictus” affidato alle voci soliste. Queste due ultime parti sono concluse dall’elegante fuga di stampo inequivocabilmente bachiano dell’”Osanna in excelsis” per doppio coro; un suggello veramente accattivante e coinvolgente.
Nella prima parte del concerto è stata eseguita la Sinfonia n. 40 in sol minore, K 550 uno dei pilatri del sinfonismo di tutti i tempi conosciuta a livello planetario per la quale è difficile aggiungere altre considerazioni ad accrescere quanto già tutti sappiamo. Rispetto alla sua popolarità c’è da dire che a partire dal 1906 è stata inserita nei programmi di Santa Cecilia ben 49 volte e frequentemente diretta da direttori di alto livello elemento che dimostra l’alto gradimento del pubblico romano dopo ogni esecuzione.
Per quanto riguarda gli interpreti possiamo dire che tutti si sono rivelati all’altezza del compito loro affidato ricordando che riferiamo le nostre impressioni dopo aver ascoltato l’esecuzione dello scorso 25 febbraio.
Tra gli interpreti c’era grande attesa per la prova di Rosa Feola alla quale è stata affidata la parte del primo soprano. Tale attesa era dovuta al fatto che la cantante casertana è legata artisticamente a Roma in quanto perfezionatasi presso l’Opera Studio dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con l’insegnamento della grande Renata Scotto. Ora ha raggiunto fama internazionale per tutte le sue interpretazioni operistiche apprezzate in tutto il mondo. Anche in questa occasione ha esibito una voce suadente, delicata e ben impostata che le consente di possedere una linea di canto sicura dalle emissioni controllate e sicure che ne hanno valorizzato il carattere sacro specifico della parte. Tutti elementi questi che hanno fatto di lei una delle stelle della serata applaudita a lungo al termine del concerto.
Nelle altre parti vocali Lea Desandre secondo soprano anch’essa in possesso di una voce duttile ed equilibrata. Al suo fianco il tenore svizzero Mauro Peter bravo a rendere la parte a lui affidata anche se non è quantitativamente consistente come quella affidata al basso Patrizio La Placa artista appartenente al Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia che ha dato un convincente contributo all’esecuzione.
Altra stella della serata si è dimostrato il direttore austriaco Manfred Honeck. Pur eseguendo la Sinfonia n. 40 senza particolari guizzi soprattutto per la mancanza, a nostro avviso, di un convincente respiro è però emerso con forza nella Messa in do minore offrendo una prova del tutto efficace agevolata anche dalla sua indiscutibile esperienza nel campo dell’opera lirica, genere che frequenta da anni con regolarità e successi in buona parte del mondo. È riuscito infatti a rendere l’esecuzione omogenea e, a tratti, entusiasmante grazie anche alla partecipazione dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e del Coro di Santa Cecilia diretto da Piero Monti.
Anche per Honeck un confortante successo personale al termine del concerto salutato da continui e fragorosi applausi anche per tutti gli altri interpreti.
Claudio LISTANTI