Manuel de Falla e Arnold Schönberg. Due grandi del ‘900 al 49° Cantiere d’Arte di Montepulciano

di Claudio LISTANTI

Dopo la più che convincente inaugurazione del 12 luglio scorso la programmazione del 49° Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano è entrata subito nel vivo con una serie di proposte musicali molto seguite dal pubblico, sempre numeroso alle esecuzioni.

Fig. 1 Un momento de El retablo de maese Pedro. Foto Irene Trancossi.

Tra queste proposte si sono rivelate particolarmente interessanti le esecuzioni de El retablo de Maese Pedro di Manuel de Falla e Pierrot lunaire di Arnold Schönberg. Il motivo principale dell’interesse risiede nel fatto che sono due capolavori musicali di non comune ascolto soprattutto all’interno di un Festival per di più a breve distanza di pochi giorni l’uno dall’altro. Una scelta artistica che condividiamo pienamente perché ha consentito al pubblico di essere a contatto con due grandi capolavori del primo quarto dello scorso secolo che riescono, per motivi opposti, a mettere in risalto lo spirito artistico-estetico che ha animato uno dei secoli più importanti della storia che, in questo caso, ha prodotto due capolavori che seppur contrastanti nei contenuti musicali, sono comunque emblematici per testimoniare i fermenti dell’epoca.

El retablo de maese Pedro fu composto da Manuel de Falla negli anni compresi tra il 1919 e il 1923 utilizzando un suo testo ispirato ai contenuti dei capitoli 25 e 26 del Don Quixote di Cervantes. Fu eseguito per la prima volta a Siviglia il 23 marzo del 1923 ma in forma di concerto mentre, il 25 giugno dello stesso anno, fu rappresentato a Parigi nel palazzo della principessa di Polignac, che aveva commissionato il lavoro. In questa occasione l’opera fu diretta da Vladimir Golschmann; nella parte di Don Chisciotte ci fu Héctor Düfranne, cantante noto per essere stato il primo Goulaud nel Pelléas di Debussy mentre al clavicembalo sedeva un mito come Wanda Landowska. Il successo fu notevole e confermato anche l’anno successivo quando, il 14 ottobre 1924 “El retablo” venne eseguito al Festival di Bristol in Inghilterra diretto da Malcolm Sargent.

Fig. 2 Una scena de El retablo de maese Pedro. Foto Irene Trancossi.

La partitura è composta per tre voci soliste e un’orchestra di una ventina di elementi e fa de “El retablo” un’opera molto raffinata in quanto ad invenzione musicale, con la quale Falla riesce a fondere lo stile della musica popolare spagnola con una sapiente orchestrazione per immergere lo spettatore in una strana dimensione che lo trascina tra il reale e il fantastico.

Il tutto rappresenta con rara efficacia il teatrino ambulante per marionette di Maese Pedro appunto, in un momento nel quale va di scena la storia di Melisendra, figlia putativa di Carlo Magno e sposa di don Galifero, rapita dal sultano di Saragozza. Don Galifero, spronato dal suocero corre a recuperare la moglie. Riuscendoci è inseguito assieme alla sposa dai soldati arabi di Saragozza. Tra il pubblico c’è un cavaliere che si lancia con la sua spada contro le marionette saracene per difendere i due sposi giungendo a distruggere, per lo scopo, il teatrino di Maese Pedro. Questi non è altro che Don Chisciotte che scambia la donna per la sua Dulcinea; un atto che sublima qual contrasto tra realtà e finzione che è alla base del lavoro.

La particolarità di questo piccolo gioiello di Manuel de Falla è che si tratta di un’opera musicale che vuole rinnovare la tradizione popolare e storica della Spagna evidenziando al fianco di elementi derivanti dalla musica medievale anche temi di carattere popolare filtrati da una raffinata ed elegante orchestrazione per una sorta di rinnovo della tradizione ma con mezzi innovativi che la rendono opera dal gusto squisito e ricercato.

Prima di riferire della realizzazione è doveroso ricordare cha a El retablo è stato anteposto una sorta di preludio, Imágenes Errantes ouverture per baritono e orchestra musicata da Stefano Pierini su commissione 49º Cantiere ed eseguita per l’occasione in prima assoluta. Scenicamente descriveva l’ingresso in sala di Don Chisciotte e Sancho Panza evidenziando una musica di buona fattura con una parte vocale destinata al baritono piuttosto impegnativa. Pratica piuttosto diffusa oggi quella di abbinare a grandi capolavori pagine musicali contemporanee che spesso, come in questo caso, stridono con la perfezione formale delle partiture originali nonostante la innegabile bravura dei compositori coinvolti nell’operazione come anche questa serata poliziana ha dimostrato.

Fig. 3 Giovanni Petrini (Maese Pedro) e Markos Bindocci (Trujamán). Foto Irene Trancossi.

Per quanto riguarda la realizzazione scenica gli organizzatori del Cantiere hanno affidato il compito ad Anagoor che ha curato regia, scene e costumi, luci e sopratitoli, producendo uno spettacolo del tutto godibile nell’insieme e, soprattutto, rispettoso di quella eleganza e raffinatezza che ne sono alla base. Il teatro delle marionette è stato sostituito da una scena basata sul teatro delle ombre risultando del tutto accattivante e coinvolgente. Un elemento discutibile, forse, è stato quello di aver dato panni moderni al personaggio di Don Chisciotte creando sicuramente un contrasto visivo lesivo per quella eleganza dell’insieme che abbiamo prima evidenziato. Comunque i movimenti scenici sono risultati efficaci e coinvolgenti.

Per la parte musicale Michele Gamba ha offerto una direzione del tutto funzionale alla peculiarità di questo piccolo/grande capolavoro della musica. Vogliamo mettere bene in risalto che il ruolo di Trujamán è stato affidato ad una voce bianca, proprio come previsto dall’autore, per il quale è emersa l’interpretazione di Markos Bindocci che ha dimostrato di essere a suo agio con una linea vocale non molto semplice, accompagnando al canto una recitazione del tutto convincente con gesti spigliati ed efficaci dimostrando di essere ben inserito nelle scelte registiche alla base dello spettacolo. Per Markos un lusinghiero successo personale al termine dello spettacolo.

Fig. 4 G. Pieracci (Don Chisciotte), S. Bernardini (Sancho Panza), G. Petrini (Maese Pedro) e M. Bindocci (Trujamán). Foto Irene Trancossi.

Nelle altre due parti vocali buono il Don Chisciotte di Giacomo Pieracci e il Maese Pedro di Giovanni Petrini entrambi bravi nella realizzazione delle rispettive parti vocali e nell’interpretazione scenica così come bravo è stato il baritono Paolo Leonardi dimostrando abilità vocale nella realizzazione delle spericolate volute previste per l’Ouverture del Pierini. Al loro fianco va ricordato la parte mimica di Sancho Panza affidata a Stefano Bernardini e le ‘ombre’ realizzate da Aurora Amirante, Davide Calvarese, Sauro Casucci, Chiara Cipriani e Simone Paddeu.

Michele Gamba, direttore musicale del Cantiere, ha offerto una interpretazione lucida e coinvolgente di questa partitura coadiuvato dall’esperienza dell’Orchestra Camerata Strumentale di Prato per una esecuzione tanto intensa quanto energica e vivace.

Lunghi e convinti appalusi hanno salutato tutti gli interpreti al termine della recita (nello specifico quella di domenica 14 luglio) tributati da un pubblico convenuto numeroso presso l’elegante sala del Teatro Poliziano a dimostrazione della validità della proposta.

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Pierrot lunaire. Grande capolavoro nato nel segno dell’innovazione.

Qualche giorno dopo, il 16 luglio, il programma del Cantiere prevedeva un altro capolavoro fondamentale del ‘900 in musica, Pierrot lunaire di Arnold Schönberg altro evento molto atteso per la rassegna poliziana di quest’anno ed eseguito presso il Cortile delle Carceri.

Se El retablo è un chiaro esempio di musica novecentesca ma basato sulla tradizione, Pierrot lunaire è un’opera musicale di carattere completamente innovativo rivolta alla ricerca di nuove strade che si materializza con la completa rottura con il passato e con l’introduzione di un nuovo linguaggio armonico ed una particolare linea vocale.

L’occasione di questa ‘rottura’ fu data al musicista dall’attrice Albertine Zehme che nel 1912 chiese a Schönberg di scrivere un lavoro per lei. Poiché l’attrice era specializzata nel genere cosiddetto ‘melologo’ che aveva le caratteristiche di essere una sorta di recitazione con accompagnamento musicale, un genere mutuato dalle glorie del passato settecentesco e ottocentesco, che ancora ai primi del ‘900 era in auge grazie anche alle interpretazioni di grandi attrici quale era anche la viennese Zehme. Per soddisfare tale richiesta il musicista optò per le poesie del Pierrot lunaire – 50 Rondels bergamasque del belga Albert Giraud, pubblicate nel 1884, una raccolta di stile indubbiamente decadente che scosse l’interesse del poeta, drammaturgo e scrittore tedesco Otto Erich Hartleben che morì a soli 39 anni nel 1905. Hartleben, con ogni probabilità, rimase colpito dalla particolare vena fantastica e a volte canzonatoria del testo che decise di tradurlo in tedesco. Ma come egli stesso dichiarò, non fu una vera e propria traduzione ma, piuttosto, un ribaltamento dello stile poetico dell’autore belga in uno nuovo, personale, adatto alla visione letteraria dello stesso Hartleben. Schönberg operò una scelta tra queste 50 poesie, eliminando quelle a contenuto erotico e riducendole a 21 suddivise in tre gruppi di sette diventi le tre parti, melodrammi nello specifico, della composizione e base ideale per questa nuova forma di ‘melologo’ che il compositore austriaco aveva in mente.

Fig. 5 Il soprano Alda Caiello in Pierrot lunaire. Foto Irene Trancossi.

Per realizzarlo il musicista scrisse in partitura alcune note chiarificatrici fra le quali: l’esecutore deve essere

scrupolosamente cosciente della differenza che corre tra “suono parlato” e “suono cantato”: il suono cantato conserva immutata la sua altezza, mentre il suono parlato, con diminuendi e crescendi, abbandona subito l’altezza iniziale. L’esecutore deve però guardarsi bene dal cadere in un tipo di parlare ‘cantato’. Non è a questo che noi tendiamo; non si ha certo di mira il modo di parlare realistico-naturale. A contrario, deve essere ben chiara la differenza fra il linguaggio comune ed un linguaggio che operi in una forma musicale; ma esso non deve neppure richiamare alla mente il canto”.

Nasce così lo sprechgesang, una nuova vocalità che osserva il ritmo per portare la parola a toccare la nota ma mai fissarla, con l’intonazione oscillante tra crescendo e diminuendo.

La partitura prevede, oltre alla voce recitante femminile, la presenza di cinque strumentisti, pianoforte, flauto (anche ottavino), clarinetto (anche clarinetto basso), violino (anche viola), violoncello ed è ‘atonale’ caratterizzata quindi dall’abbondono dei vincoli della tonalità, primo grande passo verso la dodecafonia della quale Schönberg fu, oltre a grane teorico, anche importante realizzatore.

Fig. 6 Il soprano Alda Caiello in Pierrot lunaire. Foto Irene Trancossi.

Il Pierrot lunaire di Schönberg, eseguito per la prima volta a Berlino il 16 ottobre del 1912 con protagonista vocale la stessa Albertine Zehme, una volta espunto l’elemento erotico assume contorni fantastici e fantasmagorici mettendo in luce un Pierrot dal carattere ambiguo di ispirazione ‘romantica’ che man mano si deforma proponendo momenti onirici, a volte grotteschi e a volte contornati da allucinazioni che danno largo spazio alle sensazioni e allo stupore. Un chiaro esempio di espressionismo in musica che esalta con i suoni colori e stati d’animo in maniera spesso travolgente.

Eseguire Pierrot lunaire di Schönberg è piuttosto difficile sia per la parte squisitamente musicale sia per la parte visiva in quanto lavoro non precisamente etichettabile. Qui a Montepulciano la responsabile della messa in scena, Valeria Sara Costantin, ha costruito una regia particolarmente rivolta all’aspetto ‘onirico’ del lavoro sottolineando quella ‘deformazione’ interiore di Pierrot della quale abbiamo prima parlato concependo una cornice scenica prevalentemente bianca che richiamava l’ambiente lunare spesso evocato nei testi, concretizzata grazie alle scene di Gianni “Giaccio” Trabalzini che ha curato anche le luci realizzate da Teresa Zazzaretta  ed ai costumi di Mara Pieri.

Fig. 7 Alda Caiello e Mimma Campanale durate l’esecuzione di Pierrot lunaire. Foto Irene Trancossi.

Per quanto riguarda la parte musicale di rilievo la prova di Alda Caiello, soprano di provata esperienza nel repertorio contemporaneo e novecentesco, che ci sembra abbia realizzato con efficacia la particolare ‘vocalità’ di questo lavoro irto di insidie e difficoltà che rendono problematica l’interpretazione che in questa occasione è risultata senza dubbio valida. A dirigere l’esecuzione c’era Mimma Campanale, chiamata a sostituire con urgenza il direttore Michele Gamba del quale è assistente, regalandoci una prova molto apprezzabile anche grazie agli strumentisti scelti: Alice Morosi flauto, Raffaella Palumbo clarinetto, Lorenzo Brufatto violino, Sayako Obori viola, Fernando Caida Greco violoncello e Ciro Longobardi pianoforte.

C’è da mettere in evidenza che dopo Pierrot è stato eseguito Walzer ultimo dei Cinque Pezzi per pianoforte, op. 23. Comprendiamo l’intento storico degli organizzatori di porre in evidenza quello che è il primo esempio in Schönberg di composizione dodecafonica ma, irrimediabilmente, così collocato toglie qualcosa alla meravigliosa completezza e perfetta autonomia, sacrali per il Pierrot, tra le composizioni basilari dell’intera Storia della Musica.

La serata è stata accolta da un notevole successo da un pubblico che ha esaurito i posti disponibili presso il Cortile delle Carceri, evento piuttosto inusuale per un’opera come Pierrot lunaire, universalmente riconosciuta come capolavoro assoluto ma non molto apprezzata dal grande pubblico. Un successo che rende del tutto valida la scelta del Cantiere di inserirla nel programma del festival di quest’anno.

Claudio LISTANTI  Roma 21 Luglio 2024