Marilyn Lavin Aronberg, “l’area intorno ai glutei” nel ‘500 e “l’autosufficienza di Tiziano”

di Marilyn LAVIN ARONBERG
(Trad. ital. di Marcello Fagiolo, with English text in PDF)

In seguito alla pubblicazione del contributo di Marcello Fagiolo ”Contact” di Gabriele Basilico: le sedie parallele e le stimmate dell’illusione” (cfr https://www.aboutartonline.com/gabriele-basilico-e-gian-lorenzo-bernini-i-nudi-i-simboli-e-il-mistero-dei-ventiquattro-troni-e-ventiquattro-anziani-vestiti-di-bianche-vesti-saggio-inedito-di-marcello-fagiolo/) abbiamo ricevuto da Marilyn Lavin Aronberg la segnalazione del suo saggio Art of the Misbegotten: Phisicality and the Divine in Renaissance Images (pubblicato nel 2009 in “Artibus et historiae”, pp. 191-243) che costituisce una sorta di introduzione storica al tema dei significati sacri e profani della esposizione della nudità e in particolare della esibizione di nudità “a posteriori” come scriveva scherzosamente Marcello Fagiolo. In particolare un capitolo di questo poderoso e straordinario saggio è dedicato a “Posteriora mea” (si tratta, come vedrete di un colpo di scena finale).
Abbiamo poi ottenuto dalla autrice – a cui esprimiamo la nostra più viva gratitudine – il permesso di pubblicare la traduzione di quel capitolo, adattato al nostro pubblico e alquanto semplificato (sono eliminate le note e ridotte le illustrazioni), grazie all’intervnto del Prof Fagiolo, mentre il testo completo in inglese viene qui allegato come pdf.
Siamo molto lieti, per di più, di riportare l’attenzione su questo testo fondamentale in un momento in cui vengono rilanciati gli studi sull’erotismo nell’arte del Rinascimento: si pensi, ad esempio, alla grande Mostra Giulio Romano – Arte e desiderio, che si è chiusa recentemente in Palazzo Te a Mantova.

“POSTERIORA MEA”

Marilyn Aronberg Lavin

In Italia nel corso del ‘500 le visioni di glutei si moltiplicarono in modo esponenziale. Esaminerò qui brevemente l’uso espressivo della veduta tergale di figure che si guardano alle spalle in scene sia religiose che profane. La sfida è leggere in queste opere il “linguaggio del corpo” per comprendere più a fondo la funzione visiva della figura girata di spalle, considerando anche la vista dal basso, finalizzata alla esibizione dell’area intorno ai glutei.

Partendo dalla fine di questa vicenda, devo osservare preliminarmente che all’inizio degli anni ‘70 Tiziano impiegò la rappresentazione tergale in una delle sue opere più misteriose, nota, tra gli altri titoli, come “La Ninfa e il Pastore”.

Le vedute tergali, ancora piuttosto rare, non costituivano una novità ai tempi di Tiziano.

 

L’arte antica aveva molti casi di figure femminili come le Nereidi, le Naiadi, la Madre Terra e talvolta l’Arianna dormiente che venivano rappresentate da dietro. L’unico tipo che ha suscitato interesse sulla veduta tergale è la semi-drappeggiata Venere Callipigia ovvero “dalle belle natiche” (l’esempio più conservato è il marmo farnesiano del Museo Nazionale di Napoli).

Figure femminili che esibiscono i glutei si trovano in miniature medievali o in elementi architettonici come la piccola mensola trecentesca nella volta del Duomo di Firenze. Ma ci sono anche figure che voltano le spalle allo spettatore per ragioni più oggettive. La figura di spalle appare più volte in Giotto, per esempio in scene con figure sedute attorno a un tavolo. […]

Gli artisti del Quattrocento, timidi nel rappresentare le terga delle donne, non esitavano nelle vedute frontali della donna sdraiata in posa classica: prima vestita (Botticelli), poi semi-nuda (Piero di Cosimo) e infine completamente nuda nella splendida Venere dormiente di Giorgione a Dresda (cfr. M. Meiss 1976).

Un’idea da lungo tempo accettata è che sia stato Giorgione a creare l’iconografia della donna di spalle coi glutei in evidenza; la tesi si basa sulla nozione di un disegno “perduto” di Giorgione che sarebbe la fonte di una piccola stampa di “una nuda tratta da Zorzi, stesa e volta”. Il motivo appare quasi contemporaneamente in due incisioni. Accenno anzitutto alla strana incisione di Marcantonio Raimondi, che ritengo parte di un contesto iconografico più ampio: erroneamente interpretata come “Il sogno di Raffaello” (Bartsch) dovrebbe intitolarsi più correttamente “L’incubo”.

Si ritiene che l’incisione risalga all’arrivo del Raimondi a Venezia nel 1507 e che sia collegata a Giorgione tramite l’analoga incisione di Giulio Campagnola che Marcantonio avrebbe visto in casa di Pietro Bembo. A questo punto della sua carriera, l’artista era perfettamente in grado di inventare autonomamente il motivo e, se ciò fosse vero, l’incisione costituirebbe una transizione ideale al tema della donna in veduta tergale, dato che la composizione comprende due donne nude, una rivolta in avanti e l’altra all’indietro.

Va precisato però che l’ethos della scena è lontanissimo dalla mentalità di Giorgione: si tratta infatti di una delle immagini più inquietanti nella storia dell’arte, che mi crea imbarazzo perfino mentre scrivo queste righe. Le due donne giacciono una di fronte all’altra su una roccia inclinata, sul bordo di uno specchio d’acqua. Più che addormentate, si direbbero “drogate”: i muscoli sono tesi; i corpi si flettono alla vita, i menti si sollevano spasmodicamente.

Sono avvicinate a destra da un mostriciattolo in forma di un pene mascherato, dalla coda a pungiglione e con una bocca che sbava ortiche. Altre tre creature disgustose superano Bosch nella loro bruttezza da incubo. La mise-en-scène è oppressiva: una laguna torbida e immobile; case in fiamme con sagome di persone nude che lottano per entrare e uscire. Una folgore lampeggia nel cielo mentre barche di salvataggio si dirigono verso una città innervata da canali, con finestre illuminate come occhi imperturbabili. Le due donne sembrano espulse dall’edificio alle loro spalle, simile a una prigione. Giacciono inerti, vulnerabili alla vespa in forma di pene che sta per attaccarle, punendo la licenziosità che risulta dal loro atteggiamento.

Nulla di più remoto dalle iconografie di Giorgione o da quelle classiche come “Le fanciulle di Lavinium”, “Iphis e Ianthe” o “Il sogno di Ecuba”. L’ambiente infernale è più vicino alla pena che il cristianesimo riservava al peccato lesbico, come si ricaverebbe da un sermone di san Bernardino (cfr. G. Ruggiero 1985). L’immagine, scioccante, spaventosa e terribile ci colpisce profondamente.

L’immagine che Marcantonio avrebbe potuto vedere in casa di Bembo era un’incisione assai virtuosistica di Giulio Campagnola con una donna “stesa e volta”. […] Si suppone una relazione con la perduta opera di Giorgione anche per quanto riguarda la posa: la pettinatura, ma non la posa, è in effetti simile a quella della madre allattante nella Tempesta di Giorgione.

Il parallelo con la sensualità della stampa di Raimondi non può essere negato, ma l’immaginazione di Campagnola è di altro genere, evocando una empatia viscerale. La fanciulla robusta e non idealizzata sembra cercare una privacy all’aria aperta. L’ambientazione non è pastorale: c’è solo una flora generica, un prato vuoto e sullo sfondo un edificio turrito vagamente nordico.

La ragazza si è appartata dietro un cespuglio, appoggiando una coperta a terra e trovando un supporto piuttosto scomodo per la spalla su un ceppo di albero vicino (“albero tagliato” significherebbe gergalmente “uomo castrato”). La donna cerca un piacere solitario, voltando discretamente le spalle allo spettatore e sollevando delicatamente il copriletto per inserire la mano che la sta portando alla felicità. Il bacino è contratto, le ginocchia sollevate, gli occhi chiusi, non nel sonno ma nel rimuovere tutti i sensi tranne il tatto.

Ancora una volta siamo ben lontani dalle modalità dell’antichità classica o da un presunto prototipo di Giorgione. La figura non finge nulla e non sembra scusarsi per quello che sta facendo. La masturbazione fu disapprovata nel 1510, ma non ritenuta illegale. Possiamo dire che la sua rappresentazione era all’avanguardia quanto la magistrale tecnica di Campagnola. Piccola per dimensioni, la stampa è grande per l’immaginazione; fra l’altro appaiono per la prima volta nella storia dell’arte le fossette sul fondo-schiena.

Dobbiamo poi ricordare che il figlio adottivo di Campagnola, Domenico, è stato ugualmente libero nella rappresentazione dell’attività sessuale all’aria aperta, come si vede in un suo disegno pieno di grazia e naturalezza. Anche la “veduta dal basso” ha un rapido sviluppo in questi anni, coinvolgendo le terga e gli attributi di figure umane e animali in aria, stagliate contro il cielo e viste di sottinsù. Un primo approccio si deve forse a Giulio Romano, nell’affresco di Palazzo Te a Mantova col Sole al tramonto e la Luna nascente.

Inserire le immagini affiancate [Fig. 9] (parte inferiore col Carro del Sole, tagliando il Carro della Luna in alto) e [Fig. 9bis]

Essendo il punto di vista sotto l’asse del carro, abbiamo una visione obliqua delle natiche e dello scroto di Apollo, il quale sta saltando verso il sole al tramonto; sono visibili anche i quarti posteriori di due cavalli che si tuffano sul bordo del cielo.

Il concetto fu ripetuto da Francesco Primaticcio, il quale – dopo aver lavorato con Giulio a Mantova e averlo sostituito quando fu chiamato in Francia – aggiunse in un suo disegno un senso di galleggiamento ancora maggiore. La scena viene spostata all’inizio della giornata, con la traiettoria del carro di Apollo che si muove in diagonale attraverso il cielo dal basso a sinistra verso l’alto a destra. La quadriga è scortata dalla figura di Aurora con le gambe in aria in una prospettiva tanto esasperata da far scorgere non solo i suoi glutei ma anche l’ano e la vulva; e viene da pensare che queste pose tanto rivelatrici – insieme umilianti e lascive – fossero accettabili soltanto perché contenute in iconografie pagane.

Ma queste vedute provocanti non erano limitate all’iconografia classica.

Carlo Portelli (1539-1574), incaricato di dipingere un’enorme pala d’altare per la cappella di famiglia del cavaliere Orlando Tappia di Toledo, nella chiesa fiorentina di Ognissanti (firmata e datata 1566), rappresentò Eva con un licenzioso nudo visto da dietro (V. Pace 1973). L’eterna tentatrice è posta al centro di una complessa allegoria dell’Immacolata Concezione. In piedi, in un contrapposto quasi danzante, si guarda alle spalle, in una posa che enfatizza la schiena nuda e le natiche, sottilmente velate da un panno dorato trasparente; non si tratta di una divinità pagana, ma del simbolo cristiano del peccato. L’iconografia esprime la posizione teologica sull’Immacolata dei Francescani spirituali, che allora avevano preso il controllo del convento. Molto più tardi la pruderie controriformistica rivestì goffamente la Eva “callipigia” con un drappo, felicemente rimosso in un recente restauro.

Poco prima della morte (27 agosto 1576) l’ottuagenario Tiziano ritornò sul tema della donna in veduta tergale.

È stato scritto che in quest’opera riemergono le innovazioni del primo ‘500, ma ritengo che esista una profonda differenza, dato che la donna “stesa e volta” diventa esplicitamente voluttuosa e provocante. Inoltre, considerando il carattere decisamente pastorale del quadro, il dibattito storiografico si è concentrato sulla ricerca delle fonti nell’opera perduta di Giorgione, nella mitologia classica, nella poesia antica e contemporanea e nelle idee sul “paragone”, ma, per quanto io sappia, nessuno si è chiesto più semplicemente perché Tiziano abbia scelto di presentare la donna con le natiche esibite in primo piano (F. Saxl 1935, 1970).


La scena è ambientata in un paesaggio aspro con un pastore e il suo gregge (all’estrema destra); in primo piano, sotto un albero scuro ma rigoglioso, il pastore siede in una posa precaria a gambe divaricate. Indossa una rustica tunica rossa con una pelle di animale intorno al collo e braghe bianche; una ghirlanda di fiori lega i capelli ribelli. Appoggia le dita sui fori di un flauto di legno che tiene sul petto mentre si sporge in avanti per scrutare la compagna, sdraiata quasi completamente nuda su un divano di roccia coperto da una pelliccia di animale (identificato spesso come leopardo ma anche come tigre o pantera), la cui testa è visibile sotto le ginocchia e una zampa penzola sotto le natiche.

La pelliccia, connessa alla tematica dei baccanali, enfatizza il contatto sensuale tra la carne nuda della donna e la morbidezza della fiera. La donna avvolge il braccio sinistro intorno al petto e insinua la mano destra tra le gambe: sembrerebbe lo stesso gesto delineato nella stampa di Campagnola e non ho dubbi che stia eseguendo lo stesso esercizio. L’atteggiamento appare ben diverso rispetto alla Venere di Giorgione (o alla precedente Venere di Urbino dello stesso Tiziano): la mano sinistra accarezza con le dita aperte il braccio, aumentando l’effetto del tocco della mano destra.

Il comportamento autoerotico coglie di sorpresa il flautista, che reagisce separando le gambe, abbassando lo strumento e fermando una musica che a suo avviso avrebbe dovuto produrre un risultato diverso. Certo il flautista non si sarebbe aspettato la freddezza della compagna, la quale, senza rivolgergli lo sguardo, appare non gelida ma assorbita nel suo piacere, con le narici socchiuse e il mento strofinato sulla spalla.

Ai margini di una collinetta sopra le ginocchia della donna il tronco spezzato di un albero robusto si staglia su un cielo rosato ma instabile. Il tronco mantiene intatto un ramo ancora verdeggiante, mordicchiato da una capra che si arrampica sull’albero esponendo i testicoli alla nostra vista.

Questo motivo, consueto nelle scene di vita pastorale, in Tiziano diventa un gesto tragico. Rappresentata contro un albero fallico ma castrato e sullo sfondo di un cielo fiammeggiante, in contrasto con l’oscurità dell’albero a sinistra, la capra affamata porta un senso di solitudine disperata e lussuriosa che aumenta la tensione drammatica delle figure in primo piano. Il vecchio Tiziano ritorna sì ai motivi giorgioneschi della sua giovinezza, ma rinuncia all’ambientazione pacifica e paradisiaca, entrando in una regione di severo impegno, in cui l’autodeterminazione combatte contro poteri invisibili.

Ruotando la figura femminile per esporre i quarti posteriori, Tiziano poteva evocare in qualche modo le parole rivolte da Dio a Mosè:

“Ecco un luogo vicino a me: ti metterai sulla roccia e passerà la mia Gloria, ti metterò in una fenditura della roccia e ti coprirò con la mia mano destra, fino a quando sarò passato. Poi ritirerò la mano e vedrai le mie terga [posteriora mea] ma non potrai vedere il mio volto” (Exodus 33, 21–23).

Nel nostro caso non “passa la Gloria” per la ragazza, ma si manifesta un nuovo tipo di trionfo. Questa poesia tizianesca non è immagine di amore pastorale ideale, ma dimostrazione della meravigliosa e inquietante complessità delle relazioni umane. Alla fine della sua vita, Tiziano si era reso ormai conto che – scartata ogni altra pretesa – poteva essere raggiunta infine e accettata una perfetta autosufficienza.

Marilyn LAVIN ARONBERG  (trad. Marcello FAGIOLO, Roma 19 gnnaio 2020)