di Selene CAVALLINI
Dal 20 settembre è in corso la prima grande retrospettiva di Marina Abramovic intitolata The Cleaner, a Palazzo Strozzi, che si snoda tra il Piano Nobile, la Strozzina e il cortile.
La mostra, che sarà possibile visitare fino al 20 gennaio, è curata da Arturo Galansino, Lena Essling, Tine Colstrup, Humlebæk e Susanne Kleine ed unisce oltre 100 opere ripercorrendo le varie fasi della sua vita e della sua carriera dagli anni Sessanta agli anni Duemila, è inoltre la prima donna cui è stato dedicato un intero allestimento in questa sede.
La Abramovic nasce a Belgrado, nella ex-Jugoslavia, nel 1945 da genitori partigiani, durante la seconda guerra mondiale, i quali ricoprivano ruoli di rilievo all’interno dell’esercito sotto il regime comunista di Tito. Cresce con la nonna, moglie di un patriarca della chiesa ortodossa serba. La spiritualità cristiana, in forte contrasto con l’educazione dei genitori, contribuirà alla ricerca spirituale che la Abramovic approfondirà per tutta la vita attraverso viaggi nelle realtà aborigene dell’Australia, in Brasile e sarà un elemento fondamentale nelle sue performance.
Al Piano Nobile di Palazzo Strozzi la prima opera con cui si entra in contatto è Imponderabilia, interpretata da performer selezionati per il periodo dell’esposizione, che Marina realizzò con Ulay la prima volta nel 1977 alla Galleria Comunale d’Arte di Bologna. (Fig. 1)
La volontà di Marina e Ulay era quella di diventare parte stessa del museo, questo per sottolineare l’imprescindibilità tra l’esistenza dell’artista e l’esistenza del museo. Si posero sulla porta d’accesso alla Galleria come due cariatidi di epoca classica, costringendo il pubblico a passare in mezzo a loro.
Ulay è un artista tedesco che ha accompagnato Marina per 12 anni sia nella vita privata che professionale, e con il quale ha vissuto girando per l’Europa nel furgone Citroën esposto per l’occasione nel cortile di Palazzo Strozzi.
Con Ulay ha realizzato le performance più celebri come Relation in time nel 1977 (Fig. 2), Light/Dark (Fig. 3) e Relation in space nel 1979 (Fig. 4), dove ad essere sperimentato è l’incontro/scontro tra energia maschile e femminile.
Insieme studiano pratiche meditative incontrando aborigeni, maestri sufi, monaci buddisti e danno vita a opere come Nightsea Crossing, dove ad essere attraversato è proprio l’inconscio.
La loro relazione d’amore e la loro collaborazione artistica termina nel 1988 con The Lovers, il celebre
cammino lungo la Muraglia Cinese, sotto la quale, secondo la tradizione cinese si muovono draghi la cui energia è assorbita da chi la percorre. Per realizzare questa loro ultima performance Marina e Ulay partirono dai due punti opposti della Muraglia, ciascuno dei due camminò per 2500 km fino a quando si incontrarono a metà circa dell’intera lunghezza, dopo 90 giorni, e si dissero addio. La performance è testimoniata da un video proiettato in una sala del Piano Nobile dove è presente anche un oggetto al centro che ha la forma di due vasi collegati (1989). La superficie di quest’oggetto, per metà lucida e per metà opaca, simboleggia la diversità di Marina e Ulay che con il tempo si è poi tramutata in incapacità di comunicare (Fig. 5).
Da questo momento in poi inizia per la Abramovic una nuovo fase, che lei stessa definisce introspettiva, di solitudine artistica e da vita a opere come Balkan Baroque (Fig. 6).
Realizza per la prima volta questa performance alla Biennale di Venezia nel 1997 e viene premiata con il Leone d’Oro. Marina per 4 giorni, 7 ore al giorno, ha sfregato ossa di bovino sanguinolente fino a renderle pulite, mentre intorno uno schermo proiettava suo padre, uno sua madre e uno lei che, con abiti da scienziata, raccontava la storia The Wolf-Rats, per poi concludere ballando canzoni popolari serbe. Il racconto disturbante del Wolf-Rats, che accompagna la performance, spiega come i ratti rinchiudendoli in una gabbia, con solo dell’acqua a disposizione iniziano ad essere affamati e a rischiare il soffocamento a causa della crescita dei denti, per cui cominceranno inevitabilmente a mangiarsi tra di loro. La suggestione principale di opere di questo tipo è la guerra nei Balcani, Baroque infatti si riferisce ai Balcani e alla follia bellica di quegli anni che segnano profondamente la vita di Marina. Pulire quella montagna di ossa era per lei un atto di purificazione da quegli orribili scenari che aveva visto.
Il tratto distintivo delle sue performance, oltre all’utilizzo del corpo, la resistenza fisica e psicologica, è il tempo, ed hanno la caratteristica di svolgersi per un tempo prolungato che va dalle 4 ore ai 3 mesi, come la celebre performance del MoMa The Artist is Present del 2012 durata due mesi, nella quale la Abramovic ha guardato negli occhi più 1500 persone, le quali, nel sedersi di fronte a lei, hanno sprigionato con il solo uso dello sguardo i loro stati d’animo. (Fig. 7)
È decisivo, per realizzare performance di questo tipo, sentirsi completamente nel presente ed essere presenti a se stessi, dichiara Marina.
Continuando il percorso espositivo e scendendo nelle sale della Strozzina ci si accorge che la stella è un elemento ricorrente. Oltre a essere un simbolo che evoca il comunismo è la forma della sagoma infuocata dentro la quale si sdraia, perdendo poi conoscenza per la mancanza di ossigeno nella performance Rhythm 5 nel 1974 (Fig. 8). La ritroviamo in Lips of Thomas, performance che replica nel 1975, nel 1993 e nel 2005, durante la quale se la incide sul ventre con un rasoio (Fig. 9).
In Rhythm 0 (1974) per sei ore Marina si mise completamente nelle mani del pubblico ponendo su un tavolo 72 oggetti che potevano utilizzare su di lei in qualsiasi maniera, tra cui un profumo, dello zucchero, del miele, una sega, una Polaroid, una piuma, delle forbici, uno specchio e una pistola con un proiettile. Durante quella performance la Abramovic capì che il pubblico sarebbe stato capace di ucciderla e, nonostante la sofferenza che provava mentre il pubblico la spogliava, toccava, baciava, tagliava, arrivando addirittura a puntarle la pistola contro, non si oppose a niente. L’autocontrollo, la concentrazione e il superamento del dolore stesso sono gli elementi che rende possibile attuare performance di questo tipo. (Fig. 10)
Emblematica è anche la performance Art must be beautiful. Artist must be beautiful del 1975 (Fig. 11), nella quale Marina, prima sussurrando poi urlando, si pettina violentemente con una spazzola di ferro e un pettine, domandandosi e domandando al pubblico perché un’opera d’arte debba ancora rispondere a un determinato canone di bellezza estetica.
L’opera d’arte, secondo Marina, per essere considerata tale non dovrebbe avere un canone cui rifarsi, ma dovrebbe emanare un’energia particolare, che chiama lo spettatore a sé, spingendolo a girarsi una seconda volta per osservarla di nuovo, ed è ciò che la Abramovic possiede, un’energia vitale spirituale, che scaturisce dal più profondo io, un’energia quasi sciamanica che rende tale un’opera d’arte.
Il suo successo e la sua affermazione come artista nello scenario mondiale è dovuto anche all’aver messo in scena per mezzo del suo linguaggio la paura di morire, la sofferenza e la caducità della vita, usando l’energia del pubblico che vive proprio questo tipo di paure.
È qualcosa di impercettibile con gli occhi che la rende un’artista unica nel suo genere, è l’essere diventata lei stessa, per mezzo della sua interiorità, un’opera d’arte ed è ciò che lo spettatore osserva e vive durante la visita a questa mostra.
Selene CAVALLINI Firnze novembre 2018