di Francesco MONTUORI
Migranti sull’About
di M. Martini e F. Montuori
Mario RIDOLFI, le Torri di viale Etiopia
di Francesco Montuori
Raccontando, su un Casabella del 1953, delle case-torri di Ridolfi in viale Etiopia, Giancarlo De Carlo definì l’opera “barbarica, robusta, abbandonata all’impeto dei sentimenti; in essa c’è lo sforzo di assumere intera la realtà in tutte le sue varietà contraddittorie” e più tardi nel 1956 sulle pagine di Comunità, Guido Canella e Aldo Rossi così scrissero: questi edifici portano nel colore gli accenti drammatici della tavolozza di un Guttuso e sono immersi in quella atmosfera della Roma moderna che cinema e letteratura neo-realista hanno così ben penetrato.”
Ridolfi aveva appena completato il quartiere INA-Casa al 7 km. della via Tiburtina, che uno degli autori, Ludovico Quaroni, definirà autocriticamente il paese dei barocchi. Capovolgendo il carattere sostanzialmente antiurbano di quella esperienza Ridolfi affronta con piglio diverso, per l’Ina Assicurazioni, gli edifici “a torre” di viale Etiopia, un’arteria periferica, tangente alla ferrovia, in quello che i romani soprannominarono, per la suo squallore caotico, il quartiere africano. Otto edifici di abitazione con un nucleo di negozi, servizi collettivi e spazi verdi, in grado di ospitare circa 1.500 abitanti.
La superficie del comprensorio di 12.000 mq. era stata destinata dal Piano Regolatore ad edificazione intensiva; l’altezza massima prevista era di mt. 28, portati a 31, grazie ad una disposizione temporanea ad hoc. Un complesso rilevante, paragonabile per intensità edilizia all’Unité d’habitation de grandeur conforme che Le Corbusier aveva progettato per 1660 abitanti nella città di Marsiglia.
Mario Ridolfi era nato a Roma nel 1904 da una famiglia artigiana che lavorava nell’edilizia;
si impiega presto presso una studio di ingegneria ma nello stesso tempo frequenta le scuole serali ad indirizzo edile. Nel 1924 si iscrive alla Scuola Superiore di Architettura di Roma dove si laurea nel 1929. Già nel 1932 vince il concorso per l’Ufficio postale Nomentano a piazza Bologna che realizzerà nel 1933. Le sue origini culturali sono innestate nel movimento razionalista europeo ed in particolare nell’esperienza, a lui congeniale, dell’empirismo svedese di Asplund e nelle opere di Aalto e Terragni.
Insegna per quarant’anni all’Istituto Tecnico Industriale Galileo Galilei. Nel 1946 è eletto consigliere comunale a Roma nelle liste del Blocco del Popolo, esperienza che lo segnerà profondamente. E’ l’epoca della grande emigrazione delle masse contadine del Mezzogiorno, con cui stabilirà un profondo legame culturale.
“Come lavoro? Che dire? Come vedi disegno su questo tavolino senza tecnigrafo, che odio perché spazza via tutto…Insomma lavoro con due squadrette, un doppio decimetro, la pennetta con pennino e l’inchiostro di china. Faccio tutto a mano libera però prima sul dietro della carta lucida mi faccio un quadrettato 10×10 tanto per controllare ogni tanto la perpendicolarietà, chilometri di disegni: perché il disegno è una verifica del mio pensiero ma è anche una costruzione in sé stesso….spesso disegno i particolari in una scala più grande del vero per poter spaccare il millimetro”
Così confiderà a Maurizio di Puolo in un dialogo del 1970.
Il complesso realizzato per l’Ina Assicurazioni è costituito da otto case-torri di dieci e nove piani
con pianta a forma rettangolare, smussata ai lati. Il terreno è ondulato ma gli edifici sono posizionati in modo da raggiungere tutti la stessa altezza; sono edifici di due differenti tipi: il primo, tipo A, è composto di 40 alloggi distribuiti 4 per ogni piano; il secondo, tipo B, di lato più breve, è composto da trenta alloggi distribuiti 30 per piano. Tutti i piani abitati sono eguali fuorchè il quinto e l’ultimo che presentano i muri esterni arretrati in modo da creare un loggiato perimetrale che definisce la misura in altezza, determinando due fasce continue profondamente chiaroscurate. La copertura, a “cappa”, diventerà tipica nelle case di Ridolfi, riutilizzata nelle case di via Marco Polo. La gabbia strutturale in cemento armato è denunciata con evidenza all’esterno del volume: ugualmente la trave di collegamento orizzontale, originalmente sagomata, come vedremo, in modo da funzionare come gocciolatoio dei pannelli murari perimetrali in mattoni intonacati di vari colori.
Ridolfi e Frankl, un ingegnere tedesco che collaborerà alle sue opere più importanti, esprimono nelle case-torri di viale Etiopia la loro netta opposizione per i tipi edilizi cosidetti “intensivi” che caratterizzano la periferia romana. Avevano insieme condotto una campagna per l’introduzione di metodi alternativi di intervento nelle periferie urbane, ma avevano perso la battaglia: il Piano Fanfani nel ’49 puntava piuttosto
sull’occupazione dei lavoratori, favorendo l’impiego di tecniche artigianali tradizionali, invece che sulla razionalizzazione e la sperimentazione nei cantieri, a favore di un’alternativa visibile e concreta alla crescita speculativa della “città degli intensivi” che si allargava, tumultuosamente, a macchia d’olio. Da qui anche una visione urbana in cui l’ordine generale e l’immagine visiva è costituita dall’uniformità ripetitiva del tipo
edilizio, come ancor oggi possiamo verificare percorrendo, in direzione dell’agro, le vie consolari, la via Appia, la via Tuscolana. Contro questo contesto Ridolfi e Frankl esprimono ad alta voce, nelle case-torre di Viale Etiopia la loro netta opposizione. Non con un astratto isolamento ma contaminando il progetto, assumendo tutta intera nel progetto la realtà della città.
Le otto case-torri, orientate sull’asse elio termico e non allineate all’edilizia preesistente si inseriscono nella periferia romana con un clamoroso fuori scala: l’imponente volumetria cui dà continuità lo sguincio angolare, gli irripetibili particolari costruttivi, i colori violenti degli intonaci, le quattordici varietà di maioliche smaltate dei parapetti, stabiliscono un rapporto di discontinuità non solo con il tessuto urbano circostante ma con la morfologia della città stessa. Al riduzionismo e al semplicismo allora in voga della prassi funzionalista le case-torri ridolfiane aprono al rapporto con il paesaggio romano e la storia stessa della città barocca.
Dislocate sull’altro lato dell’asse stradale di viale Etiopia le analoghe torri di Mario Fiorentino sembrano accettare senza timore il confronto con gli edifici ridolfiani.
Ridolfi e Fiorentino avevano a lungo collaborato; insieme avevano partecipato al progetto di concorso per il fabbricato frontale della Stazione Termini ed alla realizzazione del Quartiere Ina-casa del Tiburtino. Realizzate fra il 1957 e il 1962 le torri di Fiorentino vogliono rispondere in modo differente alle richieste del mercato edilizio in profonda evoluzione per la crescita economica del paese. Fiorentino, utilizzando più evoluti materiali modulari, immagina dei perfetti parallelepipedi verticali accoppiati due a due grazie ad uno sguincio a 45 gradi; sentinelle ben distanziate di guardia alla linea ferroviaria E’ tutta un’altra storia dunque: qui tutto appare così ordinato da far apparire come anacronistico il disperato, ma cosciente, tentativo di Ridolfi di opporsi alla prassi edilizia intensiva romana che l’amico Fiorentino, all’opposto, tenta di indirizzare verso una rinnovata razionalità.
Si è tentato di ridurre l’amore di Ridolfi per il materiale costruttivo e per la piccola scala ad una poetica del mondo separato dell’artigianato. Ma il suo essere artigiano non è una condizione subita per l’arretratezza delle difficoltà del dopoguerra, bensì un arma contro l’alienazione dell’immagine tecnologica. La grande attenzione al particolare costruttivo è inscindibile dalla scala monumentale degli edifici, la ricchezza dei dettagli è concepita contemporaneamente alle gabbie a grande scala in cemento armato. Non c’è una “seconda fase” progettuale per il decoro delle facciate, ma un continuo rimando fra il telaio strutturale, i tamponamenti intonacati a vari colori, gli infissi e i parapetti delle aperture, i bolli di vetrocemento che illuminano i corpi scala.
Il telaio portante, ben evidenziato, non è immaginato come una trama geometrica indipendente, ma come una membratura incorporata nelle facciate: le travi marcapiano, in corrispondenza dei piani, pur essendo elementi dello scheletro portante, sono conformate a guisa di gocciolatoi della parete. La gerarchia funzionalista tra elementi strutturali e finiture è abolita. La grande scala e i dettagli emergono con pari rilevanza nel definire lo spazio architettonico.
Ridolfi amava l’architettura, un atto che esprimeva compiutamente la sua voglia di vivere.
Aveva assorbito fino in fondo gli umori del suo tempo e della città in cui viveva ed era profondamente partecipe dai luoghi, dagli ambienti e dal tempo in cui si trovava ad operare. Per questo l’ampiezza della crisi che seguì gli anni della guerra lo condusse ad una riflessione critica sul funzionalismo architettonico, ne colse la sua deriva deterministica e realizzò questi autentici capolavori in grado di ricondurre la cultura italiana nel cuore del dibattito artistico europeo.
Francesco MONTUORI Roma marzo 2019