Massimo Pulini e Andrea Guastavino a Firenze; pittura e fotografia tra modernità e storia

di Sabrina FOSCHINI

 Revision – Ossa di Vetro

Massimo Pulini e Andrea Guastavino, due artisti con diversi percorsi e un filo mai interrotto di amicizia che li ha legati negli anni, condividono uno sguardo innamorato sulle cose, in particolare su quegli oggetti che sembrano impregnati della memoria altrui. Il loro gesto artistico ha sempre cercato il germe del nuovo, nella traccia evidente di ciò che li ha preceduti, ha sempre voluto essere non un percorso netto, ma una sovrapposizione, un’aggiunta, il punto estremo di una sedimentazione con radici lontane, nella memoria, nella tradizione, nella storia.

La pittura del primo e la fotografia del secondo si sono soffermati su temi naturalmente affini, hanno ricercato nel paesaggio il gusto della rovina, nelle opere della storia, il difetto, il guasto, l’offesa del tempo che sfigura i lineamenti apollinei di una statua e gli dona il calore di un’anima sofferente. In questi ultimi anni, i due artisti romagnoli si sono ritrovati in città diverse e senza premeditazione a lavorare su vecchi negativi fotografici di vetro.

A volte il caso prende il nome di destino, a volte è come una lettera che trovi dopo anni il suo destinatario e così è accaduto, che per le strade di Firenze, ai lati di un cassonetto, siano state abbandonate intere scatole di questi negativi raccolti da Guastavino. Si potrebbero considerare come l’ossatura, la sindone di straordinarie immagini d’inizio novecento, che facevano parte dell’archivio smembrato di un fotografo fiorentino prossimo alla distruzione. Quale migliore destinazione per delle fotografie orfane d’occhi, abbandonate all’oblio, che cadere nelle mani di un fotografo contemporaneo, innamorato della persistenza del tempo? Forse il tempo trova il modo di medicare da solo le sue ferite, raccoglie sacche di spazio in cui fermarsi e rivivere e questo è lo stesso pensiero che da sempre nutre l’opera di Guastavino e di Pulini. Ma non c’è mai una quiete nel ritorno, tutto può ancora mutare, persino il tempo già passato può essere memoria in divenire e allora il gesto dell’artista di affogare le stampe in un bagno di cera come a domandare silenzio, sembra il suo personale monito a resistere alle lusinghe delle sirene, per poter beffare i destini e continuare il viaggio. L’ intervento di Guastavino su un materiale così fortemente connotato, così pervaso dal fascino della nostalgia, è allo stesso tempo carezzevole e crudele. Le sue stampe a partire da uno sguardo ereditato dal predecessore, come un vampiro benefico che invece di uccidere riporti alla vita, fanno riaffiorare presenze, emozioni, spazi dimenticati e li sottopongono a un’iniziazione al presente, con segni che li confondono, li mutano, li travestano, li fanno infine diventare altro, alludere alla pittura, sfiorare il disegno.

Massimo Pulini invece si era già da alcuni anni imbattuto nel fondo di un rigattiere con migliaia di negativi su vetro, contenenti architetture, persone, pubblicità di oggetti, dipinti antichi ritratti nei loro palazzi, che si sono dimostrati appartenere a Villani, l’importante fotografo bolognese. Massimo ha scelto di servirsene come basi della propria pittura, che in tutto il suo percorso artistico, ha sempre danzato a braccetto con la storia. Le presenze spesso angeliche, bibliche o mitiche che sovrappone all’impronta di luci e ombre lasciate dalla fotografia, non hanno mai rappresentato per lui un gesto di appropriazione o dissacrazione, ma la carnalità di un rapporto amoroso, uno sdraiarsi a fianco, il legarsi di due nature che combaciano nello stesso tempo pur appartenendo a epoche diverse. Un connubio impossibile dove la vicinanza e l’amore abbiano infine ragione del tempo. Sul lavoro della luce, l’impressione ottica che ha fermato per sempre un pezzo di mondo, il pittore torna con le proprie figure tracciate in tocchi veloci a pennello, con il solo bianco, figure che a loro volta sono raccolte da studi e ricerche storiche appassionate. Spesso sui negativi forieri di storie perdute, Pulini imprime il positivo di alcune lettere, quasi dei capilettera da libro miniato, con alfabeti comuni o classici come il greco e l’ebraico, che fanno pensare al punto di partenza per una scrittura nuova, una narrazione segreta, una lettura misterica che attraversa ancora una volta le generazioni. Per concludere si potrebbe dire che pur con percorsi opposti, l’uno che va dalla fotografia alla pittura e l’altro che con la pittura blandisce la fotografia, entrambi gli artisti stanno costruendo un percorso d’immagini che sposano le ferite della storia con le dimenticanze del quotidiano, o le bellezze fortuite del caso, e realizzano convivenze forzate eppure felici di cose che non si somigliano, ma che si ritrovano a desiderare lo stesso sguardo.

di Sabrina FOSCHINI      Settembre 2017