P d L
L’approfondimento che ci siamo ripromessi di fare su quanto sta emergendo dalle indagini diagnostiche e dai ritrovamenti archivistici che potrebbero riscrivere molte pagine relative alla vita e alle opere di Michelangelo Merisi da Caravaggio, ci porta oggi ad incontrare un vero maestro del restauro come Bruno Arciprete, autore del restauro delle Sette Opere di Misericordia, l’opera forse più geniale dipinta dal pittore milanese nel corso del suo soggiorno napoletano, ma anche restauratore di un notevole dipinto che riproduce la Crocifissione di sant’Andrea, il cui originale si trova al museo di Cleveland, ritenuto da alcuni studiosi replica di mano dell’artista e che per questo ha provocato molte discussioni; proprio da qui abbiamo iniziato la conversazione, resa ancor più gradevole dalla coinvolgente spontanea simpatia del protagonista.
–Comincerei con il chiederti se sei aggiornato sulle indagini scientifiche che si stanno effettuando sulle opere di Caravaggio e che potrebbero anche aiutare a stabilire se determinate riproduzioni sono autografe o no; tu ad esempio hai lavorato sulla Crocifissione di Sant’Andrea già collezione Back-Vega che replica il dipinto oggi a Cleveland ritenuto originale.
R: La Crocifissione ex Back-Vega è un bel dipinto, molto sciupato, malgrado tutto mostra punti di alta qualità, e la tecnica esecutiva è simile a quella di Caravaggio. Sulla base delle indagini che abbiamo condotto al tempo del restauro posso dire che è senz’altro di notevole livello; detto questo, tocca allo storico dell’arte, elaborando una ricerca filologica e un’analisi stilistica, attribuire l’opera a una mano piuttosto che ad un’altra, come ha fatto Gianni Papi nel suo saggio sulla ex Crocifissione Back-Vega. Ho saputo che il dipinto è stato esposto al Museo di Cleveland per un confronto con quello ritenuto l’originale e non ha affatto sfigurato, ma è stato ritenuto copia, insomma qui si apre il discorso sulle repliche e sulle copie, argomento già affrontato in modo interessante sulla tua rivista da Claudio Strinati.
–Che tu ricordi, furono fatte tutte le analisi? Perché sembrerebbe che si sia stata realizzata solo la fluorescenza ai raggi X.
R: No, non è così, sapevo di questa osservazione e ne avrei voluto discutere; in effetti, seppure non commissionate da me, posso assicurare che tutte le indagini diagnostiche sono state realizzate da ArsMensurae di Stefano Ridolfi che i giorni 20-21 dicembre 2010 a Zurigo ha analizzato il dipinto: fluorescenza UV, riflettografia infrarossa, esame radiografico e analisi mediante spettrometro EDXF. Non tutto è stato pubblicato nel libro di Papi ma confermo che l’indagine fu completa. Posso mandartele appena le trovo perché sono in un fascicolo insieme a quelle ultime sulla Giuditta di Tolosa.
–Ok, ci fidiamo, piuttosto visto che l’hai nominata, che mi dici su questa tela di Tolosa, la tela che ha fattto tanto discutere?
R: Bel dipinto! Sono andato a vederlo a Parigi e il primo impatto è stato sorprendente, e tu sai bene che la primissima impressione è molto importante, e fu un’ottima impressione. A mente fredda lo confermo, posso magari dire che all’ 80 % sia di mano di Caravaggio e il resto elaborato da qualcun altro, perché alcuni brani pittorici in effetti lasciano perplessi.
–Forse ti riferisci alla vecchia Abra che sembra su un tono grottesco non tipico del Merisi e che però si dice che sia ridipinta ?
R: No, non precisamente, non parlo di ridipinture; secondo me la questione è diversa, tanto che quando ci fu il convegno di Milano, a Brera, per discutere del dipinto, io sostenni l’ipotesi che si potesse trattare di un dipinto ‘non finito’ da Caravaggio, cioè che in queste parti meno riuscite ci fosse la mano di qualcun altro; forse Finson? Perché certo, le divergenze qualitative ci sono; ho anche pensato – ma è una pura ipotesi senza riscontri documentari- che la Giuditta, con lo sguardo così rivolto verso l’esterno possa essere stata la committente e, per quanto riguarda la vecchia dissi a Claudio Falcucci che probabilmente sarebbe stato il caso di fare un’indagine stratigrafica per vedere se c’è della vernice tra lo strato finale del volto della vecchia e una precedente stesura pittorica, perché se si trova della vernice tra le due stesure si potrebbe sostenere che quella parte sia stata ripresa e rielaborata successivamente. Ma non so poi se questo sia stato fatto.
–No, in effetti non mi pare; però da questo che stai dicendo si può arguire che un’indagine di questo tipo sia per te usuale.
R: Ma guarda, in certi casi semplicemente si può essere fortunati, voglio dire che se trovi tra uno strato pittorico e l’altro una stesura di vernice questo ci aiuterebbe a capire di più, si potrebbe dire che ci sono state due fasi nella realizzazione di quel brano. Certamente però se l’elaborazione è fatta in una fase successiva di pochi anni e non c’è presenza di vernice, allora non c’è niente da fare, non si potrà dedurre né elaborare alcuna ipotesi.
Inoltre, secondo me la lettura dei dati tecnici è sempre soggettiva, ad esempio posso vedere qualcosa che un altro non percepisce e poi le indagini non sono esaustive, insomma se di due opere la tecnica è uguale e le componenti sono uguali poi non significa che siamo di fronte ad uno stesso autore. Anche perché, tornando alla metodologia caravaggesca, si dice che nella prima fase romana la preparazione è chiara, che scurisce in seguito, e così via. Personalmente non sono d’accordo nel vedere le cose così, secondo me non si può parlare di una evoluzione precisa; se parliamo di preparazione in realtà questa viene scelta dall’artista secondo l’effetto pittorico che vuole raggiungere, sarà quindi uno dei mezzi necessari alla resa finale: se voglio un fondale chiaro userò una preparazione chiara e viceversa. Dipende sempre da ciò che si vuole ottenere. Nel restauro delle Sette Opere di Misericordia, ad esempio, abbiamo trovato due strati di preparazione e il secondo strato, quello su cui poi Caravaggio ha realizzato l’elaborazione pittorica è completamente scuro, con una concentrazione elevatissima di carbone.
–Parli del ‘nero – carbone’ ?
R:Esattamente, del ‘nero carbone’.
–Ti interrompo perché non so sei al corrente che su questo fatto che Caravaggio usasse questo elemento ci sono pareri diversi, nel senso che pare l’artista non l’abbia mai usato se non, per l’appunto, nelle Sette opere. In una recente intervista ad About Art una studiosa molto preparata in materia come Beatrice De Ruggieri, e con lei Marco Cardinali, ci ha confermato che “allo stato attuale degli studi, Caravaggio sembra non averlo usato praticamente mai, il nero carbone è caratterizzato da grani piuttosto grossolani”.
R: No, non è così; certamente conosco la serietà dei due studiosi che certamente hanno maturato in questo ambito una esperienza superiore alla mia, avendo potuto studiare varie opere di Caravaggio, però oltre alle Sette opere il ‘nero carbone’ è presente, come risulta dalle indagini, anche nella Decollazione di Malta, nelle opere siciliane e nel Davide della Galleria Borghese.
Peraltro chiariamo cos’è questo ‘nero carbone’; si ottiene bruciando tralci di vite, noccioli ecc. e qualche volta si trovano piccolissimi residui legnosi miscelati col pigmento. Per quanto riguarda le Sette opere di Misericordia posso dirti che è stato usato ‘nero carbone’ con una granulometria elevatissima, tanto è vero che ho scritto (ma evidentemente i report dei restauratori non sempre vengono letti) che Caravaggio volle ottenere una differenziazione delle parti mediante un’accentuata ricerca luministica, evidenziando il rapporto <lucido/ scabro>. Infatti, su una superficie granulosa le zone che presentano stesure di colore composte da più strati o da campiture di colore corposo, riducono i rilievi della preparazione e appaiono più lucide rispetto alle altre. Ne consegue che la superficie pittorica chiari e scuri oltre a presentare, come di consueto, una differenza cromatica, risultano differenti anche “fisicamente”. Si deve tener presente un altro aspetto che potrebbe giustificare l’uso del carbone nel dipinto napoletano, dove in alcuni punti affiora la preparazione nera che diventa comprimaria con le stesure pittoriche finali. Questa caratteristica inoltre, produce l’esaltazione del contrasto luce-ombra, come appare evidente sulla cotta bianca del diacono, dove il nero del carbone si alterna alle pennellate magre dei chiari, generando sul tessuto un effetto quasi palpabile del tremore della luce proveniente dalla fiamma instabile della torcia.
–Non c’era il ‘nero carbone’ nel dipinto ex Back-Vega ? Sarebbe stata una mezza conferma dell’autografia.
R: No, non c’era questo elemento nella Crocifissione Back-Vega; però a questo punto mi chiedo chi può averlo fatto; e lo stesso vale per la Giuditta di Tolosa che, messa a confronto con il quadro dello stesso soggetto attribuito a Finson, risulta di qualità superiore. Quindi se il dipinto di Tolosa non è di mano di Caravaggio chi sarà l’autore?
–Forse la risposta potrebbe averla suggerita Claudio Strinati nell’intervento su questi temi sulla nostra rivista, quando a fatto l’ipotesi che Caravaggio potesse realizzare una sorta di copyright ossia un prototipo che poi artisti della sua cerchia avrebbero potuto riprodurre, anche per venire incontro alle richieste sempre più incalzanti del mercato. Che ne pensi?
R: Certo potrebbe essere. Sicuramente è duro per alcuni dipinti distinguere la mano autografa da quella del copista; faccio l’esempio della Cattura di Cristo nell’Orto che secondo me è emblematico, perché la versione in collezione privata romana, da qualche tempo purtroppo non fruibile, ha caratteristiche tali da mettere perfino in discussione quella ritenuta originale di Caravaggio, oggi a Dublino. Il dipinto di Dublino è raffinato, prezioso, quello romano, corredato da una vasta documentazione, si presenta con pentimenti, modifiche, ed è più immediato nella realizzazione, mi convince di più. Ma forse sto varcando il limite oltre il quale non mi è consentito stare.
–Ecco, su questo aspetto ti vorrei chiedere come capire la differenza tra correzioni, ad esempio, e cambiamenti o pentimenti.
R: Ti faccio l’esempio delle Sette opere che ovviamente, parlando di Caravaggio, è quello che conosco meglio. Nella parte a sinistra è presente Sansone che beve da una mascella d’asino, analizzando invece la riflettografia, spostato a destra si vede un personaggio che beve da una caraffa; qui siamo di fronte ad un cambiamento vero e proprio, mentre la correzione può essere aggiustare un dito, rifilare o ingrandire un braccio e così via.
–Per quanto concerne un altro dipinto recentemente molto discusso ed oggetto di studi ed analisi, cioè il San Francesco in meditazione sulla croce, nonostante tutti gli sforzi ancora non si è riusciti a raggiungere certezze definitive su quale versione debba essere considerata originale. Secondo te è così difficile mettere d’accordo gli studiosi anche di fronte a risultati che possono essere definiti scientificamente ? Se ognuno continua a vederla come gli pare, mi chiedo a cosa servano studi ricerche convegni mostre ecc.
R: Ma il problema è quello che ti dicevo prima; è un’idea di molti studiosi che il pittore segua metodologie precise e l’opera d’arte non possa invece essere a volte il risultato di una sperimentazione differente dal solito, frutto di fattori dovuti al caso, insomma che possano esistere componenti diverse: magari in un posto trova materiali differenti rispetto al solito, e così via; ad esempio, non possiamo mica credere che quando arriva a Napoli Caravaggio si porti dietro rotoli di tele o di altro materiale, tanto più che era in fuga, per cui anche le preparazioni non sono tutte uguali. Per tornare ancora alle Sette opere ad esempio come ti dicevo ci sono due stesure differenti, mentre invece nella Flagellazione di Capodimonte, di poco successiva questo non appare, eppure si tratta di opere strasicure, documentate studiate, magari con problemi conservativi, come del resto la Sant’Orsola di Palazzo Zevallos Stigliano.
–Beh, quest’opera subì gli effetti del sole quando Caravaggio la mise ad asciugare per affrettarne la restituzione.
R: Ma non solo; sai che quando l’opera per divisione ereditaria giunse a Napoli, prima della partenza da Genova il dipinto fu restaurato nella città e il restauratore lo protesse con della carta per il viaggio e quando arrivò a Napoli la carta si era attaccata alla superficie pittorica. Diremmo oggi un dipinto un po’ sfigato, comunque un capolavoro per sintesi e uso della tavolozza ridotta all’essenziale.
–Mi fai pensare al fatto che allora sia improbabile la tesi di Maurizio Calvesi secondo cui Caravaggio usava incidere sulla preparazione partendo dal foglio disegnato.
R:No attenzione; la domanda è: come faceva a dipingere su una preparazione fresca da poco stesa sulla tela? quindi ci sarebbe da discutere riguardo alla velocità dei tempi di esecuzione e di essiccazione delle stesure pittoriche di un dipinto e soprattutto indagare se compaiono essiccanti, come ad esempio il litargirio o il minio; ti faccio un esempio: su un dipinto dell’artista fiammingo Martin van Heemskerck, San Luca che dipinge la Vergine, sono presenti sulla tavolozza raffigurata nel dipinto tracce di gel trasparente, cioè una miscela olio di lino e litargirio detto “olio nero”. Questa miscela asciuga in sei giorni. Aggiungendo ulteriormente vernici resinose si ottiene un gel trasparente utile per la realizzazione di ombre e velature. Vero è che non è dimostrato che l’abbia utilizzata anche Caravaggio ma sono del parere che a qualche cosa del genere sia ricorso anche lui per cercare di accelerare l’essicazione delle preparazioni o delle stesure pittoriche; infatti alcune incisioni appaiono come sgranate, caratteristica che evidenzia che la superficie o la preparazione era già in fase di essiccazione.
–D’accordo ma allora perché non ricorse a questa risorsa con il Martirio di Sant’Orsola, che invece espose al sole per farlo essiccare prima? Questo porterebbe a smentire la tua ipotesi.
R: No, perché in questo caso della Sant’Orsola fu l’ultimo strato che si deteriorò, cioè la vernice, qui parliamo di preparazione, della mestica.
–Quale il tuo parere sulla famosa tecnica ‘a risparmio’ di Caravaggio; anche qui le opinioni non sempre coincidono su quando la utilizzò, sul perché; tu che ne pensi?
R:In effetti è vero che la tavolozza di Caravaggio cambia già al tempo del primo soggiorno napoletano fino ad arrivare al massimo della sintesi con la Sant’Orsola, dove per l’appunto la tecnica al risparmio è prevalente rispetto alla stesura pittorica; c’è da credere –per fare una battuta- che se non fosse morto giovane avrebbe alla fine dipinto a monocromo. Ma anche in questo caso, non bisogna dare tutto per scontato; consideriamo intanto che il quadro di Palazzo Zevallos Stigliano, per i motivi che abbiamo detto, è molto abraso, ma poi va considerato che esiste un fattore fisico che si realizza nel corso del tempo, cioè una vera e propria migrazione del colore, quasi come se i colori venissero assorbiti dagli strati sottostanti specialmente gli scuri e le stesure poco corpose
–Ti è capitato nel corso del tempo di trovare elementi che non ti aspettavi mentre restauravi un dipinto?; parlo in generale, non solo riguardo a Caravaggio.
R: Ecco, un caso interessante capitò durante il restauro dell’Antea del Parmigianino che si trova a Capodimonte; mentre effettuavo la pulizia vedevo che il cotone urtava contro qualcosa di solido; presi la lente ed era un pezzettino di rame; ed effettivamente il verde lo si otteneva tramite l’ossidazione del rame un colorante che si deteriora moltissimo.
–A proposito di colori, una domanda che mi sono posto spesso e che pongo a te come specialista del campo è per quale motivo Caravaggio non usasse se non molto raramente il blù oltremare.
R: Non ci sono risposte possibili; certo non gli sarebbero mancati i soldi, visto i committenti a Roma a Napoli e ovunque; posso solo ipotizzare che il lapislazzuli è molto luminoso e tale rimane, al contrario dell’azzurrite che invece tende a opacizzare e a scurire, cosa che forse era più funzionale alla sua pittura, ma si tratta di illazioni.
–Alla fine come ultima domanda non posso che chiederti cosa ne pensi delle indagini diagnostiche che stanno affascinando e facendo discutere il mondo degli addetti ai lavori e che hanno interessato ultimamente molte opere di Caravaggio.
R: Parlo dal mio punto di vista, in alcuni casi le indagini possono essere di aiuto al restauratore; ho trovato molto impegnativo soprattutto lavorare su Tiziano, ma con le indagini riflettografiche ho potuto superare gli ostacoli che si venivano spesso creando. Tiziano senza dubbio con il suo metodo di dipingere realizzando sovrapposizioni di colori e continue stesure può essere stato un esempio anche per la tecnica poi messa in opera da Caravaggio. Certo le indagini rappresentano un documento in più, un completamento per la conoscenza di un’opera d’arte, da tenere però nella giusta considerazione.
P d L Napoli, 9 febbario 2018