di Nica FIORI
Il Trionfo dei sensi. Mattia e Gregorio Preti a Palazzo Barberini
Il restauro di una grande opera pittorica, realizzata da Gregorio e Mattia Preti negli anni Quaranta del Seicento e finora quasi sconosciuta, perché rimasta per anni in deposito presso il Circolo Ufficiali delle Forze Armate a Palazzo Barberini, ha fornito lo spunto per realizzare nella Galleria Nazionale di Arte anticadi Palazzo Barberini la mostra Il trionfo dei sensi. Nuova luce su Mattia e Gregorio Preti, a cura di Alessandro Cosma e Yuri Primarosa. Come evidenziato dal sottotitolo, l’esposizione esamina l’attività di Mattia Preti (1613-1699) e del fratello Gregorio (1603-1672), entrambi giunti a Roma dalla natia Taverna (Catanzaro) un po’ prima del 1630, quando ancora in città non si era spenta l’eco della pittura di Caravaggio. E a questo proposito viene spontaneo riallacciarsi a una precedente mostra, inaugurata nella Galleria Corsini nel 2015 e curata dallo scomparso Giorgio Leone, intitolata Mattia Preti: un giovane nella Roma dopo Caravaggio.
L’Allegoria dei cinque sensi, il dipinto intorno al quale si sviluppa la mostra,
è in effetti una monumentale tela d’impronta caravaggesca, che a prima vista sembra una scena di taverna con vari personaggi (musicisti, un fumatore di pipa, un oste e dei bevitori, dei giocatori di carte, un pittore, una chiromante), ma in realtà presenta un soggetto allegorico che ebbe particolare fortuna nel Seicento. Si tratta di un tema affascinante e carico di ambiguità, perché se è vero che illustra le funzioni della vista, dell’udito, dell’olfatto, del gusto e del tatto nella vita umana, allo stesso tempo ammonisce sugli effetti fuorvianti della seduzione dei sensi. Fu la filosofia aristotelica a configurare i cinque sensi come modi distinti di percepire la realtà esteriore, ponendoli alla base della conoscenza intellettuale e fisica, ma nel dipinto dei due pittori calabresi sono i filosofi Eraclito e Democrito, il primo che piange e il secondo che ride, a farci comprendere meglio il mondo che ci circonda, aiutati in ciò da una scimmietta, allusione alla follia e alla stoltezza del genere umano.
I filosofi (Eraclito, dietro Democrito, è difficile da individuare) sono collocati in basso a destra, mentre la scimmietta è posta in alto a sinistra e al centro della composizione è raffigurato un pittore sulla quarantina, che, simboleggiando il senso della “vista”, si volge verso l’osservatore quasi invitandolo a prender parte a ciò che accade alle sue spalle. Si tratta presumibilmente dell’autoritratto di Gregorio Preti, all’epoca ancora il più importante tra i due fratelli, sebbene Mattia fosse molto più dotato e avrebbe ben presto raggiunto grande fama lavorando in proprio.
L’opera è il frutto di una commissione importante,
presumibilmente da parte di un Barberini, perché le dimensioni (cm 174,5 per 363), il supporto costituito eccezionalmente di un’unica tela, l’uso del lapislazzuli e la complessità dell’invenzione la allontanano dalla produzione, spesso seriale, della bottega, come ha evidenziato Yuri Primarosa. Viene ricordata nel 1686 nell’inventario post mortem di Maffeo Barberini junior come “un quadro per longo con diversi ritratti: chi sona, chi canta, chi gioca, chi beve e chi gabba il compagno, lungo palmi 14 e alto palmi 8 in circa… di mano di Mattia Calabrese“. L’attribuzione all’epoca al solo Mattia era dovuta alla maggior fama di quest’ultimo, ma si tratta invece di un dipinto realizzato a due mani, dove l’ottimo restauro, finanziato dallo Studio legale Dentons e condotto da Giuseppe Mantella e Sante Guido, consente ora una maggiore leggibilità e l’attribuzione di alcune figure a uno o all’altro dei fratelli (la zona centrale sembrerebbe di Gregorio, il violinista sulla sinistra di Mattia e forse anche i filosofi).
Le indagini diagnostiche hanno evidenziato poche tracce di disegno preparatorio
e molte figure (quasi 20) di immagini poi cambiate in corso d’opera. La lettura del catalogo della mostra (De Luca Editori d’arte) chiarisce sia la collaborazione, sia le disparità stilistiche dei due fratelli “nell’ambito di una bottega che pur non essendo ancora di primissimo piano, era particolarmente attiva nella Roma del tempo”, come scrive la Direttrice delle Gallerie Barberini e Corsini Flaminia Gennari Santori.
Il quadro è messo a confronto con altri dovuti alla collaborazione dei due artisti, come Pilato che si lava le mani (1640 ca.) di Palazzo Pallavicini Rospigliosi, il Cristo che guarisce l’idropico (1630 ca.) di collezione privata milanese, e soprattutto con un’altra Allegoria dei sensi, intitolata Concerto con scena di buona ventura (1630-35), proveniente dall’Accademia Albertina di Torino, dove spetta al poeta Giovan Battista Marino, incoronato di alloro alla maniera antica, cantare i cinque sensi.
Anche in questo caso l’opera era prima ritenuta del solo Cavalier Calabrese (Mattia Preti), e solo nel 2003 attribuita ai due fratelli da Maurizio Marini. Primarosa concorda con questa ipotesi e attribuisce in particolare a Mattia “il brano pittoricamente più alto della composizione: quello all’estrema destra, con il poeta cantore coronato di lauro e l’uomo che regge uno spiedo.” Al pennello di Gregorio, invece, ascrive “il malinconico gentiluomo al centro della scena, il buffo locandiere con caraffa e le intere figure del violinista e della suonatrice di spinetta”.
Tra le 12 opere in mostra, suddivise in due sale, è del solo Gregorio Preti la tela Cristo mostrato al popolo (1645-1655), che costituisce una filiazione diretta del Pilato che si lava le mani, esposto nell’altra sala. Le altre opere sono tutte del giovane Mattia, che, pur cosciente dei nuovi sviluppi guercineschi e lanfranchiani del barocco romano (tra l’altro s’ipotizza un suo breve apprendistato presso Giovanni Lanfranco), è fortemente attratto dallo stile e dai temi caravaggeschi che alcuni artisti italiani e stranieri continuavano a proporre sulla scena romana nei primi decenni del Seicento (sulla scia della “Manfrediana Methodus”, una sorta di lessico caravaggesco creato da Bartolomeo Manfredi). E proprio sulle orme del Merisi, Mattia Preti avrebbe proseguito la sua carriera a Napoli e da ultimo a Malta dopo essere diventato cavaliere dell’Ordine di Malta.
Sicuramente significativa appare la scoperta di alcuni importanti dipinti inediti di Mattia:
primo fra tutti il monumentale Cristo e la Cananea, in origine nella collezione dei Principi Colonna, opera importante del periodo romano del pittore, databile su base documentaria al 1646-1647, dove si coglie l’influsso di Veronese e Tintoretto, che aveva avuto modo di ammirare nel suo viaggio a Venezia tra il 1643 e il 1645. La scoperta dello straordinario dipinto, ancora da restaurare, ha permesso di precisare la cronologia della sua prima produzione, perché è il primo dell’artista fornito di una data certa.
E per la prima volta possiamo ammirare anche due opere che documentano la riflessione di Mattia sulla pittura di Jusepe de Ribera. Si tratta di un Apostolo (1635 ca.) di collezione privata torinese, il cui profilo si ritrova nel San Pietro di Cristo e la Cananea, e dell’Archimede (1635-1640, Varese, Pinacoteca Larizza), che rimanda al suo interesse per i filosofi, manifestato anche nell’Allegoria dei cinque sensi. L’identificazione con il filosofo di Siracusa è legata alla presenza di una sfera di metallo, di un libro e di un bacile che alludono al famoso principio di Archimede.
Appartengono invece alla Galleria Barberini la Negazione di Pietro (1635) e La fuga da Troia (1640-1645), dalla possente plasticità. Chiude il percorso espositivo un’ulteriore scoperta relativa agli anni romani dell’artista: una Testa di bambina con collana di corallo, ritrovata nei depositi della Galleria Corsini. Si tratta di un’opera non finita, che doveva servire come modello per creazioni successive. Il volto, dall’espressione vagamente estatica, è influenzato dallo stile di Lanfranco e mostra affinità con quello della violinista raffigurata da Mattia nell’Allegoria dei cinque sensi Barberini.
Nica FIORI Roma febbraio 2019
Il trionfo dei sensi. Nuova luce su Mattia e Gregorio Preti
Roma, Palazzo Barberini, via delle Quattro Fontane, 13
Dal 22 febbraio al 16 giugno 2019. Orario: da martedì a domenica ore 8,30 – 19 (la biglietteria chiude alle 18). Biglietto Barberini Corsini: intero 12 €, ridotto 6€, gratuito per gli aventi diritto. Il biglietto è valido per 10 giorni dal momento della timbratura in entrambe le sedi museali di Palazzo Barberini e Galleria Corsini