di Sergio ROSSI
Nel mio precedente saggio (cfr https://www.aboutartonline.com/tra-sisto-iv-e-giulio-ii-botticelli-e-michelangelo-alla-cappella-sistina-precisazioni-smentite-e-nuovi-argomenti/ ) citavo il bel libro di Marco Bussagli I denti di Michelangelo [1], su cui voglio ora soffermarmi, partendo proprio dal suo assunto di fondo che, come sottolinea lo stesso autore, per quanto possa sembrare paradossale
«non ha bisogno di essere dimostrato. Basta infatti saper guardare con attenzione alcuni dei personaggi dipinti o disegnati da Michelangelo nelle sue opere per rendersi conto che si caratterizzano per un’anomalia anatomica di cui non si può dubitare: la presenza di un quinto incisivo che spicca al centro della bocca».[2]
Naturalmente non si tratta di una sorta di vezzo anatomico, perché il Buonarroti, è sempre Bussagli a sottolinearlo nel presentare il suo volume
«ha usato quest’anomalia con chiara coerenza simbolica e attribuendole un preciso significato, che questo libro ora porta alla luce. Il quinto incisivo connota le figure che appartengono al mondo prima della rivelazione di Cristo, ma allude anche alla violenza, alla bestialità, nonché alla natura lussuriosa. Michelangelo crea, così, un suo enigmatico linguaggio simbolico che però affonda le radici tanto in una precisa tradizione iconografica, quanto in una serie di testi filosofici e religiosi riferiti al rapporto dell’uomo col peccato e il male».
Non è però mia intenzione quella di recensire questo volume facendone un riassunto o un collage di citazioni fior da fiore, ma piuttosto quella di evidenziare gli innumerevoli spunti che esso mi ha fornito riguardo a temi di ricerca a me più congeniali, innanzitutto quelli riguardanti il Caravaggio, che ha con Michelangelo, oltre al nome di battesimo, molti altri elementi in comune, non sempre sottolineati a dovere dalla storiografia.
Inizierò pertanto dal capitolo che Bussagli dedica alla volta della Cappella Sistina, ricco anche di puntuali analisi teologiche e filosofiche in relazione agli scritti di San Paolo e di Gioacchino da Fiore come probabili fonti della Volta stessa, su cui non posso addentrarmi per motivi di spazio; mi concentrerò piuttosto sul paragrafo dedicato all’episodio del Serpente di bronzo.
Qui, in estrema sintesi, Michelangelo raffigura due gruppi di persone: i peccatori, di cui ben quattro presentano l’anomalia del mesiodens, avvolti dalle spire dei serpenti velenosi e coloro che invece, voltandosi verso il serpente di bronzo issato da Mosè, riescono a porsi in salvo.
In altri termini i peccatori hanno scelto il male, non si sono voltati; mentre i “buoni” hanno seguito il consiglio (che è l’insegnamento) di guardare il serpente e si sono salvati. E analoga tematica la ritroviamo nell’episodio de L’arca di Noè, perché anche qui troviamo quelli che riescono a salvarsi, trovando rifugio nella Madre Chiesa e coloro che, privi di fede, rimangono irrimediabilmente avvolti nel peccato.[3]
Venendo a Caravaggio, mi viene ironicamente da pensare di quanti siano ancora gli storici dell’arte che si rifiutano di “voltarsi verso il serpente di bronzo”, ossia verso la verità inoppugnabile delle profonde implicazioni religiose e agostiniane del pensiero del Merisi preferendo la cecità di vecchi pregiudizi sulla natura eretica o al massimo agnostica del nostro pittore. Questo vale in particolare per la tela con il Martirio di San Matteo nella cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, eseguito, come è noto, in occasione del Giubileo del 1600.
In questo dipinto Caravaggio opera uno scarto concettuale proprio dei grandi innovatori, fondendo passato e presente in una realtà senza tempo e quindi sede privilegiata del fatto sacro. Così da un lato viene ricreata l’atmosfera dell’età dei protomartiri, immaginando Matteo che celebra la messa e contemporaneamente battezzi i neofiti; dall’altro però sono raffigurate tutta una serie di persone che vestono alla moderna e sottraggono così la scena ad ogni collocazione storica.
Il carnefice del santo si è confuso con gli altri neofiti per poter meglio compiere il suo gesto omicida ed infatti egli è nudo, come se si dovesse battezzare, ma invece si avventa su Matteo che viene raffigurato già a terra sanguinante, ai bordi della vasca lustrale, ma ancora vivo e sul punto di ricevere il colpo di grazia dal suo assassino. Al verificarsi di questo tragico evento è come se la scena si aprisse in due parti, orientandosi in due gruppi opposti tra loro, mentre sul fondo campeggiano i simboli della croce e del martirio. Il gruppo di sinistra, riccamente abbigliato, sembra quasi doversi confondere con le tenebre, con l’eccezione di due figure: una è quella del giovane che sta per snudare la spada e poi la rinfodera; l’altra è quella del Caravaggio stesso che si volge improvvisamente verso la luce con un’espressione come pervasa di dolente pietà verso il martire in procinto di essere colpito.
Il nostro pittore appare coperto da un mantello bruno e la sua sagoma quasi si confonde con quella sottostante, di un altro uomo di cui si notano solo il risvolto scuro di una cappa, le terga e le gambe coperte da una calzamaglia color carne, con bene in evidenza le scarpe ai piedi. Il fatto che di questa figura non si veda il volto, ma piuttosto si noti quel suo gesto deciso della mano, come per ribadire il rifiuto della grazia, ne accresce il valore simbolico, quasi incarnazione palpitante di coloro che si perdono letteralmente nelle tenebre per non essere stati sensibili alla chiamata divina: al contrario di Caravaggio, che alle tenebre si sottrae proprio in extremis volgendosi alla luce ed indirizzando la propria pietas verso il santo morente; e dunque egli si rappresenta come peccatore sì, ma ancora in grado di redimersi. Negare questa limpida analisi, come molti ancora si ostinano a fare, specie dopo l’inoppugnabile ricostruzione del pensiero michelangiolesco operata da Bussagli, mi appare francamente al di là di ogni giustificazione.[4]
Tornando appunto al libro che sto recensendo, va sottolineato come l’anomalia del mesiodens non è riferita solo ai peccatori e ai malvagi, ma, almeno in un caso, certamente clamoroso e anche questo assolutamente inedito, riguarda addirittura Gesù Cristo e più esattamente la Pietà di san Pietro. Dopo aver vagliato le diverse ipotesi che possano giustificare questa presenza in un’opera di così alta valenza religiosa e spirituale, Bussagli giunge alla conclusione che l’unica spiegazione verosimile è che qui Cristo è colui che prende su di sé il male del mondo. Quel dente in più, infatti, rappresenta
«il peccato originale che interruppe il rapporto diretto fra Adamo e Dio, un vincolo che soltanto l’Altissimo poté riannodare immolando il proprio figlio che, per questo motivo, non poteva che essere vero Dio e vero Uomo nello stesso tempo. Allora quel dente che deturpa il volto di Cristo è l’abisso del male colmato dall’immensità infinita del Bene di Dio, per la remissione del primo peccato all’origine di tutti i vizi. Qui davvero Michelangelo si fa teologo e, con gli straordinari mezzi creativi a sua disposizione, con tecnica inarrivabile, rende palpabile quell’indennizzo spirituale grazie al quale la bellezza apollinea del volto di Cristo non viene nemmeno sfiorata dalla bruttezza che il mesiodens rappresenta».[5]
La Pietà di S. Pietro mi interessa però anche sotto un altro aspetto, sempre riconducibile ai miei studi caravaggeschi, e cioè quello dell’età della Vergine nel gruppo marmoreo vaticano «del tutto incoerente con quella del Cristo, un uomo di trentatré anni, tenuto sulle ginocchia di una diciannovenne che avrebbe dovuto essere sua madre. Il fatto fu puntualmente contestato da cardinali e teologi. Dell’episodio ci danno conto sia Giorgio Vasari sia Ascanio Condivi che riportano la risposta di Michelangelo la quale, com’è noto, era ispirata dall’incipit del XXXIII canto del Paradiso della Divina Comedia. Dante, infatti, spiega che Maria è contemporaneamente “madre” e “figlia” di Gesù, del quale pertanto si sottolinea la natura divina: «Vergine madre, figlia del tuo Figlio, /Umile ed alta più che creatura, /termine fisso d’eterno consiglio».[6]
Questo tema del rapporto madre/figlio, sia pure analizzato sotto un’ottica completamente diversa, è anche quello sottinteso ne La Morte della Vergine di Caravaggio ora al Louvre.
Commissionata da Laerzio Cherubini per la chiesa carmelitana di Sanata Maria della Scala già nel 1601 fu in realtà dipinta solo nel 1606, anche se si ignorano i motivi che causarono questo ritardo; essa fu comunque rifiutata per le solite ragioni di “decoro” di cui parlano i biografi e successivamente acquistata nel 1607 dal duca di Mantova su suggerimento del Rubens, che del Merisi era un grande ammiratore.
Come ben sintetizzato da Mia Cinotti[7]:
«Il rifiuto fu causato secondo il Mancini dall’aver ritratto nella Madonna una cortigiana da lui amata (la famosa Lena modella anche della Madonna di Loreto e della Madonna della Serpe) o “qualche meretrice sozza degli ortacci”; secondo il Baglione e il Bellori dall’aspetto indecoroso della Madonna gonfia. Calvesi pensa che modella possa essere stata la monaca senese Caterina Vannini, una meretrice convertita molto cara a Federico Borromeo, morta nel 1606 gonfia di idropisia. Lo studioso, riallacciandosi al filone interpretativo pauperista che secondo vari critici ispira la pala, ritiene la Madonna gonfia di grazia. Altri pensano invece a un programma polemico contro la Controriforma, oppure al senso tragico della morte come morte fisica, cioè negazione del senso provvidenziale della storia e della speranza di un futuro oltre la vita. Io escludo che il Caravaggio avesse intenzioni blasfeme. Egli si attiene all’iconografia di base della “morte sonno” e ai personaggi essenziali, cui aggiunge la Maddalena, di origine iconografica trecentesca».
Nel commentare questo brano devo dire che non mi stupiscono tanto le vere e proprie dicerie delle fonti antiche che rientrano in quel clima denigratorio e malevolo verso il nostro artista tipico di quell’epoca, quanto le analisi moderne circa la presunta “blasfemia” o comunque l’ancor più presunto “ateismo” del Merisi che qui dipinge, al contrario, un quadro profondamente religioso e cattolico, proiettato proprio verso l’offrire un’immagine della Chiesa come Madre Misericordiosa.
Assai più articolato è invece il discorso circa l’interpretazione di Maurizio Calvesi: se è infatti da respingere, per quanto suggestiva, l’ipotesi che nella Vergine fosse stata ritratta Caterina Vannini, che nel 1606 aveva tra i cinquantaquattro e i cinquantasei anni, quindi almeno quindici se non venti in più della Madonna caravaggesca (che fra l’altro non è assolutamente un’ idropica), è invece da condividere e sviluppare l’altra intuizione dello studioso circa il fatto che il gonfiore della donna raffigurata «poteva assumere significati simbolici, come allusione alla Vergine del Parto, alla Vergine (o Chiesa) sempre incinta di Dio».[8]
Concetto ulteriormente ribadito da Rodolfo Papa, che parlando dell’ipotesi, già da me ricordata, che il Merisi avrebbe addirittura preso a modella il cadavere di una prostituta annegata nel Tevere la definisce una “sorta di leggenda” e aggiunge:
«Sembra più verosimile considerare che Caravaggio avesse voluto in realtà dipingere una donna incinta, e il termine “gonfia”, usato dal Bellori, proprio a questo allude, secondo l’uso popolare; e Maria è dipinta con il ventre dilatato per sottolineare la maternità di colei che è sempre Madre di Dio. Del resto è stato osservato come le riflessioni teologiche sulla morte della Vergine partissero proprio dalla sua maternità».[9]
In definitiva, la persona ritratta, se di ritratto come credo comunque si tratta, non è assolutamente la Lena, di cui non ricorda nemmeno alla lontana le fattezze; non è la Vannini; ma è semplicemente una bella donna poco più che trentenne e palesemente incinta, come anche il gonfiore delle gambe e dei piedi, conseguenza del tutto normale della gestazione, testimonia.
Solo che qui, come in tante altre sue opere, Caravaggio trasfigura il dato iniziale di partenza, lo carica di tutti quei significati simbolici prima considerati, e quindi la “gravidanza” della Madonna morta, elemento ovviamente irrealistico e che ritengo il vero motivo del rifiuto della pala da parte dei frati carmelitani, la “gravidanza”, dicevo, assume tutto un altro valore se inteso in senso traslato; nell’accarezzarsi amorevolmente il grembo rigonfio la Vergine allude infatti alla nascita del Figlio che con il suo sacrificio salva l’umanità intera.
Del resto già il Pontormo, nella sua meravigliosa Deposizione in Santa Felicita a Firenze, al vertice della piramide visiva del suo dipinto raffigura la Vergine giovane e incinta che, come in un sogno, immagina il futuro martirio di Gesù.[10] E Michelangelo, nella Pietà di San Pietro, come abbiamo già sottolineato, scolpisce la Vergine più giovane del Cristo morto che trattiene sulle sue ginocchia.
Con Caravaggio, in qualche misura, il cerchio si chiude e non è più la Madonna giovane che prefigura la futura morte del Cristo ma la Madonna morente che ci ricorda la nascita del Redentore: è comunque sempre al ciclo nascita-morte-rinascita, tema fondante della religione cattolica, che si sta alludendo. Anche se nel caso del dipinto del Louvre non si può parlare di morte nel senso stretto del termine, perché come è noto, secondo la dottrina sostenuta da gran parte dei teologi e che il Merisi qui riprende alla lettera, Maria non sarebbe veramente morta, ma sarebbe soltanto caduta in un sonno profondo, dopodiché sarebbe stata assunta in cielo, come il termine latino Dormitio Virginis conferma; ed infatti Caravaggio ci mostra una Vergine per nulla sofferente ma che sembra piuttosto dolcemente addormentata.[11]
Tornando al libro di Bussagli, l’ultimo elemento che voglio qui sottolineare è la puntuale messa a punto da parte dell’autore del tema, di centrale importanza, dell’ortodossia cattolica, o al contrario della presunta adesione al protestantesimo, da parte di Michelangelo. E ancora, in relazione a questo, della sua vicinanza, questa sì inoppugnabile, alle teorie valdesiane, sintetizzabili, in estrema sintesi, nella massima che a nulla valgono le opere senza la fede e la fede senza le opere.
Partiamo a questo proposito proprio dal Giudizio Universale, in merito al quale sono state attribuite al Buonarroti le più disparate concezioni religiose: dal cattolicesimo ortodosso alle simpatie luterane.
Ma quest’ultima posizione è senz’altro da respingere perché il tema, centrale per la religione cattolica, della salvezza attraverso le opere è ben evidenziato dal sommo artista nella raffigurazione dei martiri, i quali tutti ostentano gli strumenti del proprio supplizio. E cosa è il martirio se non la più sublime delle opere?
Altro discorso è quello di ravvisare nel Buonarroti una aperta propensione per la teoria della doppia giustificazione, attraverso la fede e attraverso le opere, appunto, e un rifiuto netto del clima controriformistico di rigide imposizioni dottrinali che si stava formando proprio in quegli anni, ravvisabile nella grande libertà di invenzione e nell’indifferenza verso regole e precetti con cui è stato dipinto il Giudizio.
Proprio una lettura attenta e scevra da pregiudizi di due tra i più famosi componimenti poetici di Michelangelo può aiutarci, io credo, a dirimere in modo più esauriente tutta la questione. Il primo, scritto per Vittoria Colonna tra il 1538 e il 1541 così recita:
«Non ha l’ottimo artista alcun concetto /Ch’un marmo solo in se non circoscriva /Col suo soverchio, e solo a quello arriva /La man, che ubbidisce all’intelletto. /Il mal ch’io fuggo, e ‘l ben ch’io mi prometto, /In te, Donna leggiadra, altera, e diva, /tal si nasconde, e per ch’io più non viva /Contraria ho l’arte al disiato effetto. /Amor dunque non ha, né tua beltade, /O durezza, o fortuna, o gran disdegno /Del mio mal colpa, o mio destino o sorte, /Se dentro del tuo cor morte e pietate /Porti in un tempo, e che ‘l mio basso ingegno /Non sappia ardendo trarne altro, che morte».
Come da un blocco di marmo informe lo scultore può estrarre la forma perfetta in esso contenuta o dare vita a un’opera priva di qualsiasi significato, così l’amante, dalla contemplazione dell’oggetto amato, può ricevere “bene” e “pietà” o “ardore dei sensi” e “morte”.
Il concetto di libero arbitrio non potrebbe essere espresso più chiaramente.
Ma nel sonetto è anche sottinteso, nemmeno tanto celatamente, il tema della grazia e delle opere. La grazia, perché le metafore del blocco di marmo e della donna dei desideri (ché di metafore si tratta) sottintendono la teoria della predestinazione, ma in modo del tutto diverso da come la intendeva Lutero. Infatti sia il marmo che l’oggetto amato contengono già in sé entrambi gli elementi, della salvezza e della perdizione, ma sta solo al singolo individuo scegliere l’una o l’altra e per farlo egli ha comunque bisogno della fede, per respingere le tentazioni del male, e delle opere, nel caso dell’artista, è ovvio, ma anche dell’amante, perché peccare o astenersi dal male presuppone già di per sé un’azione.
Ancora più esplicito è Michelangelo in questa rima di poco posteriore, interpretata a torto da alcuni come una sua adesione alle teorie protestanti:
«Per fido esemplo alla mia vocazione /nel parto mi fu data la bellezza /che d’ambo l’arti m’è lucerna e specchio. /S’altro si pensa, è falsa opinione. /Questo sol l’occhio porta a quella altezza /c’a pingere e scolpir qui m’apparecchio. /S’e’ giudizi temerari e sciocchi /al senso tiran la beltà /che muove /e porta al cielo ogni intelletto sano, /dal mortale al divin non vanno gli occhi /infermi, e fermi sempre pur là dove /ascender senza grazia è pensier vano».[12]
Per Buonarroti l’arte e la ricerca della bellezza sono un dono divino, un qualcosa cui egli è sì predestinato, ma ancora una volta che lo possono portare al solito bivio tra salvezza (“l’altezza” cui egli aspira) e perdizione (“l’infermità dei sensi”). E se è vero che “ascender senza grazia è pensier vano” è altrettanto vero che quest’ultima da sola non basta perché è solo attraverso il libero arbitrio e di conseguenza un comportamento scevro dal peccato che l’individuo può salvarsi. Niente di più lontano dunque dalla massima luterana del “pecca fortiter, sed fortius fide et gaude in Christo”.
Prima di concludere, voglio ancora tornare al confronto col Caravaggio ed evidenziare come anche nel Merisi il concetto di libero arbitrio assuma un’importanza centrale in molte sue opere e in particolare nel David e Golia della Galleria Borghese già da me più volte analizzato, ma di cui finora mi è sfuggito un particolare per la cui segnalazione devo ringraziare proprio Marco Bussagli: la presenza, cioè, di un quinto incisivo nel volto di Golia.[13]
Cominciamo col dire che ritengo questo capolavoro, con Calvesi, del 1609/10, quindi eseguito poco prima di morire:
«Se, come ormai traspare, il Merisi inoltrò la domanda di grazia a Roma alla fine del 1609, dopo il suo arresto a Napoli, questa deve essere anche la data di esecuzione del David della Borghese, documento che ci parla con tragica chiarezza: è verosimile che il dipinto sia stato accluso alla petizione come dono al Pontefice (o al nipote, nella cui collezione entrò) per favorire la concessione della grazia Il dono per altro era eloquente, giacché il Caravaggio vi prefigurava la propria decapitazione, cioè quello che sarebbe accaduto se la grazia non veniva concessa. Identificandosi con il malvagio Golia attestava il proprio pentimento, si esponeva da solo all’<ignominia> ed ammetteva la colpa, ma probabilmente (sulla fronte è ben visibile la ferita inferta dal sasso) intendeva anche ricordare al Pontefice e al cardinal nipote il grave colpo ricevuto in testa durante lo scontro con Ranuccio Tomassoni, ovvero l’aggressione subita. David, infine, è prefigurazione del Cristo e il Pontefice è rappresentante in terra del Cristo: lo sguardo compassionevole (e, mai così marcato nell’iconografia tradizionale) allude in modo toccante alla cristiana pietà invocata».[14]
Vi è qui un soffermarsi sul dettaglio del sangue che scorre dalla testa mozzata, come su quello che è ormai quasi rappreso sul capo, che sembra dettato da un desiderio come catartico di autopunizione e che rimanda a quei rituali di autoflagellazione tipici della religiosità seicentesca: il sangue, il proprio sangue, offerto, sia pure metaforicamente, a Dio in un’ottica espiativa dei propri peccati.
Non sarà dunque un caso se è proprio al sangue che corre dalla testa mozzata del Battista che Caravaggio affida il compito di firmare il suo più alto e tragico capolavoro tardo, la Decollazione del Battista dell’Oratorio di S. Giovanni a La Valletta, che è, come è noto, l’unica opera firmata dal Merisi.
Quanto al David e Golia, la critica, unanimemente, ha scorto nel volto di Golia l’autoritratto, forse l’ultimo, di Caravaggio. Dunque il Merisi si raffigura nelle vesti di un reprobo e peccatore e la presenza nella sua bocca semischiusa del quinto incisivo ne rafforza l’identificazione con la perdizione e col male.
A ben vedere però quest’opera può considerarsi un doppio autoritratto, anzi una doppia autoidentificazione perché il pittore si rappresenta anche nella figura di Davide. Come in una sorta di flash back cinematografico, infatti, egli fa emergere dall’ombra la figura dolente del fanciullo che rievoca appunto sé stesso ancora non toccato dal peccato ma che quasi premunisce il proprio tragico destino esemplificato dal viso sconvolto di Golia, ferito alla testa proprio come lui era stato ferito nel tragico duello del 1606. E così come nell’immagine di Golia Caravaggio quasi si compiace di evidenziare i segni del proprio precoce decadimento fisico, nel volto di David i tratti sono come addolciti ed a prima vista possono sfuggire i connotati autobiografici della figura.
Ma i lineamenti essenziali del viso, i capelli ricci e bruni, gli occhi neri e profondi, il naso dalle larghe narici, la bocca carnosa, sono gli stessi del Bacchino malato e, soprattutto, l’espressione e la posizione del volto leggermente reclinato verso destra, il movimento aggrottato delle sopracciglia (che è assolutamente identico), l’espressione della bocca coincidono in modo impressionante con l’autoritratto di San Luigi dei Francesi, proprio quello in cui egli si volta all’ultimo momento verso la luce della grazia, e non credo che questa sia una semplice coincidenza. Identificandosi in entrambe le figure, quindi raffigurando in qualche modo nella propria personale vicenda il destino di tutta l’umanità peccatrice, l’artista compie un gesto di pentimento e insieme lancia un’ancora di speranza verso una possibile salvezza.
Per concludere col tema del mesiodens da cui siamo partiti, nel dipinto della Borghese Caravaggio contrappone quasi visivamente il volto quasi apollineo e dalle labbra perfettamente allineate di David con quello dionisiaco, e macchiato dall’anomalia del quinto incisivo, di Golia. Il Merisi sembra così volere sottolineare come alla nascita noi possiamo essere predisposti sia verso il bene che verso il male ed inclinare verso l’uno o l’altro degli elementi dipende solo da noi. Tuttavia, anche il più incallito dei peccatori può sempre redimersi e, se il suo pentimento è sincero e il suo comportamento coerente, può salvarsi.
Al momento di eseguire questa sorta di sublime testamento spirituale o ultima preghiera in punto di morte però, Caravaggio ancora non sapeva se le due grazie, quella terrena e quella divina lo avrebbero raggiunto ed il dipinto è come avvolto da un’atmosfera di mistica sospensione. Della grazia divina nulla ovviamente conosciamo, mentre la grazia papale è effettivamente arrivata, ma purtroppo insieme alla morte, il 23 di un assolato luglio del 1610 in quel di Porto Ercole, dove egli, come ebbe a scrivere Giovanni Baglione in una sorta di tragico epitaffio: “malamente morì, così come male aveva vissuto”.
Sergio ROSSI Roma 22 novembre 2020
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