di Carlo FALCIANI & Antonio NATALI*
Arte a Firenze nella seconda metà del Cinquecento
Il Cinquecento a Firenze Tra Michelangelo, Pontormo e Giambologna
Nel 1980 apriva proprio qui, a Palazzo Strozzi, Il primato del disegno, l’esposizione che, nel novero delle mostre raccolte sotto la comune titolazione di Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del Cinquecento, era incentrata sull’arte fiorentina di tutto il XVI secolo, dagli albori all’epilogo. N’era curatore Luciano Berti, che dell’espressione figurativa del Cinquecento è stato uno dei maggiori esegeti. Sotto la sua guida s’erano mossi quasi tutti gli storici dell’arte degli uffici di via della Ninna, cioè della Soprintendenza; che, dopo essersi chiamata delle Gallerie Fiorentine, era stata ribattezzata Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici, per poi perdersi nelle circonvoluzioni lessicali, includenti (per quei beni medesimi) l’impronunciabile attributo di “demoetnoantropologici”, e infine pervenire allo sgretolamento, minacciato, promesso e realizzato per una giovanilistica insofferenza delle regole (spacciate per fisime “burocratiche”). In quella mostra era esposto un numero così elevato d’opere (800) che se, conforme all’uso odierno, il catalogo fosse stato concepito con schede nella pagina di destra e foto in quella a fronte, non sarebbero bastati (e non è un’iperbole) cinque tomi. Però chi usciva dalle sale di Strozzi, magari stremato da quel percorso, s’era fatta un’idea della varietà, della complessità e della qualità dell’arte fiorentina del Cinquecento. Quell’escursione indusse a esplorare con maggiore acribia i tratti e gli artefici meno noti – e però quanto lirici – del secolo. Ma per cavarli decisamente dalla nebbia dell’oblio sarebbe stato necessario che ne seguisse un impegno tenace nella divulgazione degli esiti di quelle indagini, offrendoli alla conoscenza d’un pubblico più largo, che invece si preferiva avviare nell’ovile dei feticci, ch’era rendita sicura per l’industria culturale. E dunque sempre gli stessi nomi eclatanti; abusati e perciò svuotati della loro forza poetica.
Ormai lontana quasi quarant’anni, quell’esposizione di Palazzo Strozzi – che veniva a porsinel solco delle due grandi mostre dedicate al Cinquecento, allestite nella medesima sede nel 1940 e nel 1956 – esprimeva una fiducia forte nei confronti della progressione degli studi proponendo una potente ma paritetica emersione di opere realizzate nelle varie stagioni dell’intero secolo, spregiudicatamente conferendo a una creazione di secondo Cinquecento (poco o punto conosciuta, ma d’altissimo tenore) il medesimo risalto concesso ai maestri celebrati d’inizio secolo. Si offriva così al visitatore la possibilità di scegliere un proprio percorso di preferenze, e soprattutto agli storici (ai quali ancora si parlava unitamente al pubblico più largo) la possibilità di aprire a cascata nuovi àmbiti di studio. Come poi davvero è stato nei decenni successivi; in cui sono fiorite pubblicazioni monografiche su tanti artisti che al 1980 erano quasi dimenticati eppur poetici e grandi al loro tempo.
In ideale continuità col Primato del disegno abbiamo cercato di seguitare a volgerci sia agli storici che al pubblico, cercando di toccare anche materie e argomenti quasi sempre trascurati o sottaciuti; com’è per esempio la lettura dei contenuti e delle trame, che non solo è parte integrante dell’esegesi delle opere, ma soprattutto è, per il pubblico, assai più coinvolgente delle indagini e delle analisi filologiche; che sono ovviamente imprescindibili, ma che rischiano sovente d’esser dai più tollerate alla stregua di una liturgia appannaggio di pochi sacerdoti. Ed è stata – questa – una scelta che ha avuto il suo esordio con la mostra del 2010 dedicata al Bronzino e ch’è proseguita nel 2014 con quella sul Rosso Fiorentino e il Pontormo, per chiudersi oggi con questa rassegna che si concentra sulla seconda metà del secolo, riepilogando, in un prologo conciso, la lezione dei maestri dei primi decenni. Prologo che – accettando il rischio delle solite polemiche sulle trasferte effimere dei capi d’opera celebrati – abbiamo voluto fosse ricco e prezioso; tale da far capire di quale forza d’urto e d’attrazione fossero capaci i modelli della stagione d’esordio.
Per il Bronzino fu progettata una mostra monografica (la prima completa sull’artista) che vanificasse l’interpretazione di Agnolo come “manierista” d’algida finezza, e lo presentasse invece in tutta la sua varietà espressiva, sia come pittore, che come poeta. Artista capace di frequentare i registri più vari, da quelli di grado elevato, a quelli di basso tenore: poeta e pittore; ora petrarchesco, ora burlesco. Restituito al ruolo di paradigma delle possibilità linguistiche fiorentine dell’intero secolo, nella mostra il pittore era stato anche svincolato dalle categorie – romane e michelangiolesche – con le quali Giorgio Vasari aveva sistemato la “maniera moderna”, per essere ricollocato al centro di una via in cui al piano letterario corrispondesse quello di una pittura dotata di naturalistica sensibilità: carattere solitamente ritenuto estraneo alle arti cittadine di quel secolo che si voleva tutto artificioso e, appunto, “manierista”.
La seconda mostra, dedicata al Pontormo e al Rosso Fiorentino, aveva badato a inquadrare il dialogo fra due maestri iconici del cosiddetto “Manierismo” e insieme a meditare sull’eccentricità dei linguaggi pittorici fiorentini di primo Cinquecento; sulla quale però la letteratura critica (e non solo) ha fin troppo insistito. Di nuovo, storicizzando anche i giudizi vasariani, si era cercato di restituire l’interezza e l’individualità di due artisti grandi, considerati emblematici di un pensiero creduto monolitico e per solito reputati quasi gemelli. L’assunto sotteso all’esposizione era quello di rivelare la loro differente tempra, la loro poesia difforme e perfino d’opposta tensione. Due pittori in genere ritenuti paradigmi di una modernità d’avanguardia, e invece voci di una lontana ma liricissima libertà espressiva, ancora capace di parlare al nostro tempo e d’assurgere a metafora della poesia di un’intera stagione.
Il terzo e ultimo capitolo, che oggi s’apre, è finalmente votato a offrire un plausibile viatico per l’intero secolo, al contempo indicando – sempre nell’ottica d’un approccio spregiudicato – la possibilità di rivisitare i molteplici accenti, mettendo in discussione i tanti punti fermi (spesso luoghi comuni) secondo i quali, dopo l’epoca magnifica della Firenze di primo Cinquecento, il destino della città fosse stato quello d’un autunno languoroso e sterile. Un tramonto, dunque; e neppur dorato di bagliori. Mutato il luogo d’osservazione, anche quella parte di solito reputata avvolta dalle ombre di un crepuscolo imminente, ci è apparsa colma di bellezza e di varietà d’inflessioni d’alta poesia, che la ricerca spasmodica di feticci ha relegato nell’àmbito angusto delle pubblicazioni specialistiche.
Era stato proprio Berti col suo Principe dello Studiolo a divulgare le virtù dei protagonisti di quel momento estrapolandoli dal limbo brumoso nel quale erano stati collocati come sole propaggini tarde del “Manierismo”. Quel libro, di bella scrittura e di grande finezza critica, uscito esattamente cinquant’anni fa, è tuttora attuale, non soltanto per le sue indubbie doti, ma anche perché il periodo che n’è fulcro non è più parso in seguito meritevole d’esser portato a una più diffusa nozione. Ne sono state semmai celebrate – e a buon diritto – la magnificenza, la raffinatezza e lo splendore di corredi cortigiani; cui tuttavia è stato conferito un sapore equiparabile al lusso funerario di un’epoca in decadenza. Un sentimento che ha interferito anche con la lettura delle due arti che quel secolo aveva esaltato al segno di ritenerle degne di una disputa cólta riguardante il loro primato: pittura e scultura; alle quali non ha giovato il riverbero appunto di quel registro suntuario, giudicato estraneo alla categoria del naturalismo, ritenuta la più nuovae vincente del secolo in arrivo. Per seguire quei linguaggi misti e complessi nati oltre la metà del Cinquecento serviva però evocare Michelangelo, Andrea del Sarto, il Pontormo, il Rosso Fiorentino, il Bronzino, e lo si è fatto rappresentandoli qui al massimo grado, non già per un ossequio al mito che l’incorona e ne fa cassa di risonanza. Non sono qui, insomma, come la civetta del Nano Morgante del Bronzino, ch’è trucco indispensabile a “uccellare”. Sono qui, invece, perché a chiunque sia manifesto che le voci di quei grandi erano ascoltate (di più: erano venerate) per la loro altezza e la loro intensità. Quelle voci rifulgono dunque in esordio per dare ragione di quale sia l’origine degli artefici (essi pure grandi e ingiustamente negletti) che a Firenze, appunto nella seconda metà del Cinquecento, sulle orme dei padri camminarono, liberamente nondimeno esprimendosi, talora arrivando perfino a sviare quegli esempi o comunque a liberarsi della loro tutela.
Esponendo le creazioni di quei maestri abbiamo peraltro consapevolmente corso anche un altro rischio comune all’oggi: quello della delusione di chi, avendo ancora negli orecchi i nomi di Michelangelo e del resto di quella compagnia eminente risuonati nelle prime due stanze, restasse sconcertato al cospetto d’artefici che non gli erano stati lontanamente ventilati neppure sui banchi di scuola. Un azzardo che s’è accettato nella fiducia che, nonostante il conformismo della nostra età, le indubbie qualità poetiche di pittori e scultori misconosciuti avrebbero alla fine prevalso sui luoghi comuni. Azzardo pericoloso, ma meritevole d’essere affrontato, nella convinzione che una mostra debba essere bella e insieme capace d’offrire pensieri e opportunità di riflessione a visitatori consapevoli, mai da noi immaginati come consumatori di prodotti di moda dispensati da un’industria che s’autodefinisce culturale.
Le forme robuste eppure dolci e naturali d’Alessandro Allori, la lirica vibrante e soave a un tempo di Santi di Tito, il vigore crudo e fiammingo delle scene dello Stradano, la grazia vivida di Cavalori e quella salda e quasi parmense di Macchietti, e poi, ancora, la leggiadria cólta di Cellini, i bronzi e i marmi avvitati del Giambologna, quelli severi di Caccini, e via discorrendo, eravamo certi che non sarebbero rimasti silenti agli occhi di coloro che si fossero risolti a un viaggio a Firenze per una mostra priva di nomi di richiamo nella titolazione ufficiale. Essendo tanti gli artefici che compongono il panorama della seconda metà del Cinquecento e aspirando a fornire comunque un quadro che coi modelli d’inizio secolo abbracciasse un arco cronologico così ampio, è evidente che le assenze siano molte, non solo quanto a nomi e opere, ma anche sul piano concettuale e storico; non potendo però, né volendo, riproporre la messe di creazioni del Primato del disegno, abbiamo lavorato al progetto anche focalizzando talune tematiche simboliche di un’età intera, troppo complessa per esser tutta sistemata in un’esposizione.
La prima tematica, storica e al contempo sacra, è connessa alla diffusione delle prescrizioni controriformate, che fin da subito segnarono la concezione delle grandi pale d’altare e che mutarono il volto delle chiese fiorentine, in un programma grandioso che aveva il suo corrispettivo civile nella decorazione dei luoghi del potere mediceo imperniata sull’agiografia familiare. L’intento sotteso alla scelta di giustapporre i due indirizzi (il sacro e il profano) è quello d’attestare simbolicamente la varietà e la ricchezza linguistica e ideologica di tutto il secolo (nella sua interezza), mettendo in fila serrata gli artefici annoverati (a giusta ragione) fra i maestri assoluti dell’arte occidentale e quelli – essi pure grandi, però – la cui poesia è stata (ingiustamente e per troppo tempo) sottostimata se non addirittura disprezzata. Un errore di valutazione – quest’ultimo – indotto o almeno confortato anche dall’antico pregiudizio che riguarda l’espressione figurativa (considerata esanime, miope, bigotta e umbratile) che all’incirca dopo il 1560 si era allineata sui precetti della riforma cattolica attinenti all’arte sacra (e non solo). Epoca per la quale gli studi di Federico Zeri su “pittura e controriforma” (che oggi fanno sessant’anni) e quelli che ne seguirono non sono bastati a scalzare preconcetti in grado di distorcere e banalizzare una cultura invece fervida; cultura viceversa prospettata come del tutto incapace di quegli scarti (e non solo figurativi) che avrebbero dovuto far da preludio al secolo nuovo del barocco.
Per avvedersi di quanto infondata sia quell’opinione basterà, nelle sale di Palazzo Strozzi, sostare al cospetto delle pale dipinte da Santi di Tito, che della pittura controriformata è il più lirico e dolce cantore. Basterà guardare la sublime Resurrezione di Santa Croce (cat. III.5) o la Visione di san Tommaso d’Aquino (cat. VII.1), con quelle due donne ai piedi della croce (Maddalena e Caterina), belle come fossero attrici d’una pellicola americana degli anni cinquanta (belle come Grace Kelly in La finestra sul cortile). E del pari sarebbe sufficiente osservare coi tempi dovuti le pale d’altare d’Alessandro Allori (cat. III.6, VII.3), monumentali eppure gentili, teatrali eppure domestiche, di cromia vivida eppure soave, per vagliare il peso dei preconcetti sulle arie grevi che a Firenze (e altrove) incomberebbero sulle scene sacre di secondo Cinquecento.
E però s’è anche voluto guardare alle mutazioni del genere del ritratto: centrale come in pochi altri luoghi all’espressione cittadina e alla memoria dei suoi protagonisti: i Medici, ma anche una messe di committenti, uomini e donne, consapevoli del proprio ruolo all’interno della storia. Si è voluto poi mettere a confronto lo svolgimento – coevo e anzi parallelo – di temisacri e temi profani, trattati dai medesimi artisti e nei medesimi tempi, evidentemente con lacoscienza di due piani distinti, entrambi nobili e coerenti all’espressione di una città adusa a frequentare una varietà di registri unica nel panorama italiano della fine del Cinquecento. I pittori che lavorarono ai primi anni settanta nello Studiolo di Francesco I s’impegnarono con piglio spregiudicato nell’esecuzione di pannelli dove le nudità sensuali erano sovente protagoniste; ma i soliti pittori mettevano lo stesso impegno nella dipintura d’opere destinate alle chiese, osservando senza infingimenti le norme di decenza richieste dai padri conciliari a Trento assieme a quel nuovo linguaggio dedito al “naturale” che sarebbe stata la via più ampia del nuovo secolo, del quale anche a Firenze si ebbero prove precocissime.
Né lo Studiolo di Francesco I (ambiente di cui a Palazzo Strozzi abbiamo cercato di rappresentare, in una sala analogica, l’estrema varietà di linguaggi) fu prerogativa del principe mediceo. Altre consimili stanze c’erano nelle dimore d’intellettuali ricchi, che peraltro della disposizione culturale postridentina erano esponenti indiscussi, com’è Bernardo Vecchietti; al quale si deve l’esempio forse più icastico di quel doppio registro. Nel parco della sua villa, chiamata “Il Riposo”, Bernardo si era fatto costruire un luogo ameno, una piccola grotta fresca d’acque correnti, spruzzanti da una fontana figurata in una donna nuda e appunto sensuale (la Fata Morgana, presente in mostra; cat. VI.11), con intorno panche e tavoli di pietra dove discorrere fra amici. E però, subito a fianco, anzi proprio attaccato, Bernardo aveva di lì a poco tirato su un tabernacolo, in cui aveva voluto fosse affrescato (probabilmente da Santi di Tito) l’episodio evangelico con Gesù e la samaritana al pozzo. Due donne dunque; e due acque. La samaritana incarnerà la donna che Gesù avvicina per redimerla, ragionandole di un’acqua che disseta ed è per la vita eterna.
L’altra donna, senza vesti, è chiamata a offrire un’acqua che disseta per poco, l’acqua per un sollievo effimero. Sacro e profano, uno accanto all’altro; in un accostamento ardito che si fa immagine veridica della Firenze d’allora. Non a caso per qualche tempo avevamo pure pensato che il binomio “lascivia” e “divozione”, desunto dai testi in voga in città nel secondo Cinquecento, potesse funzionare come titolo della mostra, ovviamente seguìto da un sottotitolo esplicativo: Arte a Firenze nella seconda metà del Cinquecento. “Lascivia” e “divozione” sono infatti due lemmi che s’adattano bene a sintetizzare due realtà, due visioni del mondo e perfino due condizioni dell’animo, differenti e financo antitetiche, che tuttavia convissero, procedendo su vie parallele.
Un percorso che a Firenze, più che altrove, è facile riscontrare; percorso, ch’esalta quella capacità di dominare linguaggi differenti (talora connessi alle novità scientifiche del tempo) e di non rinunciare alla complessità di registri che aveva fatto grande il secolo.
E del pari sarà facile verificare (nelle ultime due sale della mostra) come non sia poi vero che a Firenze dalla metà del Cinquecento la lingua figurativa illanguidisce e strema nei bagliori di un “Manierismo” estenuato e funereo, non producendo germogli capaci di dare frutti nel secolo venturo. Subito verrà di dire che troppo incomoda (ma anche un poco incongrua e superata oggi) è la comparazione dei linguaggi, tesa a trovare una supremazia del Seicento romano (con gli apporti emiliani e lombardi) su quello fiorentino. Supremazia che non è detto sarebbe poi confermata se s’andasse oltre la lingua e s’indagassero con acribia maggiore temi, trame e pensieri.
Ma soprattutto, nelle ultime due stanze, si potrà riflettere al cospetto della tela mantovana del Cigoli (cat. VII.6; e lo stesso si sarebbe potuto fare, se fosse stata presente, di quella di Gregorio Pagani dell’Ermitage) sulle relazioni dei due artisti con la moderna pittura emiliana (e non solo – come per solito accade – con l’eloquio di Barocci, che pure studiarono insieme). Oppure ci si potrà chiedere quale sia stato il contributo del fiorentino Pietro Bernini a Napoli e a Roma; lui che a Firenze, sulla facciata della chiesa di Santa Trinità, aveva lasciato il monumentale rilievo con le tre Persone trinitarie, al quale aveva lavorato anche Giovanni Caccini. E a Strozzi i due scultori s’affiancano nella stanza che chiude l’esposizione, cui è affidato giustappunto l’ufficio d’esibire le premonizioni fiorentine del nuovo secolo. Le quali sarebbero state più eloquenti e perspicue se si fosse potuto contare sulla strabiliante Annunciazione orvietana di Francesco Mochi, che le fonti dicono allievo di Santi di Tito: un’opera dove la Vergine, schiva, si ritrae chiudendosi nei suoi stessi panni, diventando sintesi di un sentire comune ai due Michelangelo (Buonarroti e Merisi): quello fiorentino nel poderoso muoversi dei panni e quello lombardo nella sedia, marmorea ma vera, che traballa e pare cadere, come lo sgabello di Matteo a San Luigi dei Francesi. Per converso, l’angelo che le porta l’annuncio copre di metafore ardite, e “in barocco”, l’avvitarsi di una posa che già ai fiorentini era nota per l’esempio del Giambologna.
Metafore di fiori e conchiglie nei panni al vento di quell’angelo che Francesco I aveva voluto espresse e disperse nelle concrezioni della Grotta di Buontalenti a Boboli: concrezioni dove affondano i Prigioni di Michelangelo e chiudono un’epoca, già però prefigurando parole e forme care alle arti del secolo nuovo.
Carlo FALCIANI & Antonio NATALI
*Ringraziamo i due studiosi e l’editore Mandragora -che pubblica il catalogo della mostra Il Cinquecento a Firenze. “maniera moderna” e controriforma- nella persona del dott. Mario CURIA, per aver concesso a About Art la pubblicazione in anteprima del saggio di apertura della mostra