di Daniela CARDONE
Andrés Jaque è Associate Professor alla Graduate School of Architecture, Planning and Preservation (GSAPP) della Columbia University di New York, presso la quale insegna dal 2013.
È il fondatore dell’Office for Political Innovation (OPI), studio di architettura con sede a New York e Madrid. Nel 2014 Jaque e OPI hanno ottenuto il Leone d’Argento alla Biennale di Venezia per il miglior progetto di ricerca nella sezione Monditalia con Sales Oddity, Milano 2 and the Politics of Direct – to – home TV Urbanism. Nel 2021 Jaque è stato il curatore della terza Biennale di Shangai, dal titolo Bodies of Water.
Mies e la gatta Niebla è la traduzione in lingua italiana del volume di Andrés Jaque già edito in spagnolo e curato in Italia da Gianluca Burgio e Ramon Rispoli.
A buona ragione Gianluca Burgio scrive nella postfazione che la visione proposta dal libro supera la dimensione, privilegio di pochi, di un’architettura che limita il suo raggio a un campo chiuso e circoscritto.
I saggi raccolti nel volume raccontano gli spazi vissuti, l’architettura che viene fuori dal contrasto tra ciò che è vivibile e non, tra ciò che visibilmente umano e non umano. Non un’architettura di geometrie e volumi, di distribuzioni al metro quadro. Lo spazio domestico, urbano e sociale è inevitabilmente uno spazio conflittuale e contrastivo, in cui le complessità si scontrano con i compromessi e tuttavia, con nuove opportunità, attraverso cui si configura il rapporto tra gli attori e l’ambiente in cui viviamo. Un’analisi per varchi che cerca di farci uscire dagli schemi compositivi e progettuali, dalle istanze estetiche e formali, dai labirinti di una progettazione auto referenziale fine a se stessa.
Il libro non potrebbe dirsi un racconto dell’architettura ma una microstoria in cui il fattore umano e lo spazio architettonico entrano in gioco simultaneamente in una dimensione empatica. Gli attori della storia sono individui, cittadini e nuclei familiari che disegnano lo spazio dell’abitare e lo spazio domestico, quello vissuto fatto di collezioni, giardini, orti, odori e sapori.
L’architettura di André Jaque sulle tracce dell’Act Network Theory, mette sotto la lente di ingrandimento gli edifici non visti come assemblaggi, ma come complessi di entità umane in cui gli aspetti performativi anticipano senza annullarne lo spessore, tutti gli aspetti compositivi.
Per questo la microstoria è una narrazione che attinge al linguaggio della misura e della precezione umana allo stesso tempo: lo spazio abitato è un micro palinsesto vissuto, le strutture sono fonemi e semantemi, verbi e dispositivi attraverso cui leggiamo, metaforicamente, la stessa architettura come una continua liason tra ambiente costruito e dimensione vissuta, nel quale ‘umani e non umani negoziano il proprio spazio’.
Da Pasadena a Silver Lake, da Hollywood, sino alla West Coast di Los Angeles, a Malibu Colony, l’autore si spinge in un percorso di domesticità il cui sguardo registra e documenta il significato dell’abitare come processo umano, l’edificazione dell’ambiente domestico come un’esperienza quasi sensibile, spirituale, personale e collettiva allo stesso tempo. Così come la modernità della cultura californiana ha trovato posto nella Casa di Schindler, uno spazio continuo per organizzare vita sociale, esplorare dimensioni culturali e politiche della vita quotidiana, o l’abitazione in stile ranch californiano di Pasadena, completamente rivestita in noce da John e Onil.
Un luogo in cui il tempo si è fermato, in cui come scrive Andrés Jaques
«la presenza di modellini di aerei, manifesti di mostre d’arte e libri di artisti contemporanei sembra celebrare l’eclettismo e un chiaro disinteresse per la coerenza».
Un’incoerenza sensata, del vivere sensato cioé, in cui l’interdipendenza tra le parti e la logica della vita trovano una propria sequenza, un proprio ordine esattamente nelle storie di vita stilizzate, nel costruttivismo degli abitanti di quegli spazi domestici che diventano, attraverso giardini, libri e collezioni, quasi un ‘urbanizzazione privata, una micro urbanizzazione che declina la vita, dall’esterno all’interno, esattamente come un racconto.
Così la storia esterna si muove parallelamente al racconto interno delle abitazioni, del nucleo interno fatto di contenuti e non di vuoti, disegnando la piena corrispondenza tra il vissuto, il corpo e la forma, andando sugli oggetti e sulle pareti come se si volesse compiere un’esperienza tattile, toccando anziché limitarsi a guardare.
Nella logica narrativa di Andrés Jaque l’idea dello spazio vissuto e dell’ambiente abitato raccoglie un’architettura di reciprocità e di appartenenza che abbracciano, per certi versi, il valore cosmico dell’abitare semperiano. Un’architettura che da un lato appare cosmopolita e soprattutto empatica e relazionale, secondo le prospettive riconducibili alle ‘reti’ dell’Actor-Network-Theory. Per un altro queste stesse teorie sono i presupposti che ridefiniscono la progettazione architettonica e che possono modificare le formulazioni iniziali del progettista rispetto a delle intenzioni rivelatesi non necessarie o non compatibili con l’essere umano. Scrive infatti Ramon Rispoli, curatore del libro:
«Quanti e quali attanti umani e non umani, collaborano all’associazione sintagmatica che costituisce il ‘programma’ di una determinata architettura?».
Se l’architettura ha a che fare con le politiche del quotidiano, essa si risolve nello spazio e nel tempo, nel modo in cui i corpi che abitano, che vivono, ne percepiscono l’essenza.
Un po’ come – viene da pensare – la metafora corporea dello shintal, con cui Tadao Ando qualificava l’esperienza sensibile dell’individuo rispetto al contatto e alla percezione dello spazio vissuto. Lo stesso piano secondario, quello più nascosto, ma non evidentemente meno vissuto, dello scantinato del Padiglione di Mies van der Rohe, progettato nel 1929 per l’Esposizione internazionale di Barcellona. Il racconto di Andres Jaque va all’avanscoperta in uno spazio della fabbrica che non è visibile a tutti, lo scantinato dove si accumulano attrezzature di pulizia, lastre di granito, tende rosse scolorite, ma che almeno per un certo tempo sono state parte integrante dell’edificio.
È esattamente questo lo spirito con cui il volume interpreta il legame tra architettura e individuo, il corpo della fabbrica raccoglie i corpi e il vissuto umano che costituisce una traccia della socialit・, delle negoziazioni, degli esperimenti, degli incidenti, persino delle discussioni che hanno fatto parte dell’esistenza ‘durevole’ del Padiglione. Questi oggetti nascosti – scrive André Jaque – sono gli equivalenti architettonici del Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde:
«come se gli elementi scartati di velluto, vetro e travertino continuassero ad avere, magicamente, lo stesso valore del padiglione, per il semplice fatto di esserne stati parte integrante in un certo momento».
Daniela CARDONE Napoli 20 Novembre 2022