di Rossella VODRET
Novità sugli ultimi giorni di Caravaggio dalla ricostruzione di Francesca Curti.
È stato pubblicato nel numero 160 del 2023, della rivista “Storia dell’arte” un fondamentale articolo di Francesca Curti[1] contenente importanti novità sugli ultimi giorni di Caravaggio.
La scoperta di nuovi documenti e la loro corretta interpretazione da parte della studiosa, anche in relazione alle fonti note, hanno portato l’Autrice ad una nuova entusiasmante lettura della frenetica sequenza dei drammatici fatti avvenuti nel luglio del 1610.
Ci voleva la serietà e la costanza di Francesca Curti per chiarire uno dei più intriganti problemi dell’ultimo periodo trascorso dal Merisi tra la partenza da Napoli, l’arresto che si credeva avvenuto a Palo e la morte che lo colse a Porto Ercole il 18 luglio del 1610. Molte le ipotesi formulate negli anni dagli studiosi, nessuna però in grado di ricostruire in modo attendibile quanto era effettivamente avvenuto.
Gli “enigmi” erano tanti, così come le domande, rimaste finora senza risposta.
Per meglio comprendere la portata dei nuovi studi di Francesca Curti, ritengo utile un sommario riepilogo dei drammatici eventi vissuti da Caravaggio nel luglio 1610, per come li avevo ricostruiti nel 2021 sulla base di fonti e documenti noti prima dell’articolo della Curti:
«…all’inizio di luglio Caravaggio lascia il palazzo di Chiaia in cui abitava Costanza Colonna[2] e si imbarca su una feluca probabilmente diretto a Roma per avere la grazia papale. Portava con sé una serie di quadri, non sappiamo quanti, ma sembra che non fossero pochi[3]: erano il suo lasciapassare per tornare a Roma ed esprimere gratitudine a tutti coloro che lo avevano aiutato. Aveva saputo che, grazie ad alcuni “gagliardi ”[4] aiuti, il Papa stava per concedergli la grazia.
Di chi erano i ‘gagliardi’ aiuti? Le fonti parlano del marchese Giustiniani[5] e del cardinale Ferdinando Gonzaga[6], ma senza dubbio un aiuto potente venne, anche e soprattutto, da Scipione Borghese, nipote del papa Paolo V.
Si è a lungo pensato che Caravaggio portasse sulla feluca solo tre dipinti: due San Giovanni e una Maddalena, ma la questione in realtà sembra diversa.
Ha fatto luce su tutta questa intricata vicenda Vincenzo Pacelli, che ha ritrovato e pubblicato una serie di fondamentali lettere e di documenti datati a ridosso della morte di Caravaggio[7]. Le lettere più importanti sono quelle scritte da Deodato Gentile, Vescovo di Caserta, a Scipione Borghese, all’epoca Segretario di Stato del papa Paolo V Borghese. Deodato sembra essere molto ben informato sugli ultimi drammatici giorni del grande pittore lombardo, che descrive con scrupolo e precisione. Vale la pena ripercorrere questa complessa vicenda attraverso le sue parole.
In una lettera del 29 luglio 1610, solo undici giorni dopo la morte di Caravaggio, Deodato informa Scipione della morte del pittore e delle circostanze che l’hanno preceduta: Caravaggio aveva lasciato Napoli per Roma partendo dal palazzo di Chiaia, dove abitava Costanza Colonna, portando con sé sulla feluca una serie di quadri. Tuttavia, sbarcato a Palo, era stato subito fermato dal capitano del locale presidio spagnolo e “carcerato”, per due giorni, forse a causa di uno scambio di persona[8]. Il pittore era riuscito a liberarsi pagando una forte somma di denaro, ma l’equipaggio della feluca, spaventato dal “romore” dell’arresto, aveva ripreso il largo ed era rapidamente tornato a Napoli. Caravaggio torna al porto di Palo e non trova più la barca, ritrovandosi in un desolato posto di frontiera intorno al 10-11 luglio, da lì
“per terra e forse a piedi si ridusse fino a Porthercole, ove ammalatosi ha lasciato la vita” [9].
La feluca arrivò a Napoli con le “robbe” che Caravaggio aveva lasciato sulla barca al momento dell’arresto, immediatamente riportate in casa di Costanza, da cui il pittore era partito. Ma, scrive Gentile, che era andato evidentemente subito a controllare, tra gli effetti riportati dalla feluca non c’erano più i quadri, tranne due San Giovanni e una Maddalena, (forse da identificare con la Maddalena Gregori[10]) anch’essi portati a casa di Costanza. Dalle parole del Vescovo risulta evidente che i quadri sulla feluca non erano solo tre, ma di più, che erano ben conosciuti da Deodato e che erano destinati a Scipione Borghese, all’epoca Segretario di Stato del papa Paolo V, evidentemente ben informato dal vescovo del prezioso carico della feluca.
Alla marchesa di Caravaggio Gentile raccomanda di custodire bene i tre dipinti superstiti e di non lasciarli vedere a nessuno perché erano destinati a Scipione Borghese. Una raccomandazione vana. Solo due giorni dopo da un’altra lettera, piuttosto sconfortata, scritta il 31 luglio da Deodato a Scipione Borghese [11], veniamo a conoscenza che i tre quadri erano stati sequestrati, tra le proteste di Costanza, dal Priore di Capua dell’Ordine dei Cavalieri di Malta[12] ed erano in mano di ignoti “ministri regij”. Diodato, per cercare di risolvere il problema, invita Scipione a scrivere al Viceré ribadendo che i tre quadri superstiti erano destinati a lui.
Dopo poche settimane anche lo stesso Vicerè di Napoli, don Pedro Fernàndez de Castro, conte di Lemos[13], evidentemente sollecitato da Scipione Borghese[14], entra nella questione. Non è però chiaro perché con una lettera datata 19 agosto, pochi giorni dopo il rientro della feluca, il conte di Lemos scriva al giudice degli affari militari e ad altre autorità dei Presidi di Toscana facendo riferimento a tutto quello che era rimasto a Porto Ercole dopo la morte di Caravaggio, rivendicandone la proprietà. Addirittura acclude alla lettera un inventario, che avrebbe chiarito tante cose, ma che purtroppo è andato perduto. Tra i beni rivendicati, il Conte di Lemos cita, in particolare, un San Giovanni Battista, evidentemente diverso dai due ritornati a Napoli sulla feluca e consegnati a Costanza. Il Viceré non si lascia sfuggire l’occasione, nella lettera, di chiarire che le proprietà di Caravaggio non spettavano in alcun modo al Priore dei Cavalieri di Malta, dal momento che il pittore era stato espulso dall’Ordine.
Finora non sappiamo se il Viceré sia riuscito poi ad ottenere il San Giovanni Battista richiesto ai presidi di Toscana, in ogni caso abbiamo notizia, sempre da Deodato, che un quadro di questo soggetto, destinato a Scipione Borghese e identificabile con il quadro oggi nella Galleria Borghese, nel dicembre del 1610 era trattenuto dal Conte di Lemos per trarne una copia[15]. Il povero Vescovo, nel darne notizia, rassicura comunque Scipione che lui stesso provvederà a spedirlo, non appena saranno risolte le questioni ereditarie e i debiti con i creditori, visto che Caravaggio a Napoli aveva lasciato “molti debiti, a’ quali bisognava sodisfare oltre gli interessi delli heredi”. In realtà non risulta che gli eredi di Caravaggio rimasti in Lombardia abbiano mai ricevuto parti della sua eredità[16], non stupisce invece che Caravaggio, secondo il suo costume consolidato, abbia lasciato molti debiti a Napoli, forse di gioco.
Solo il 26 agosto del 1611 Deodato riesce finalmente a spedire su una barca a Scipione il suo San Giovanni Battista, il quale, ovviamente, a causa dei vari spostamenti “innanzi e indietro” sulla feluca e per essere stato “in mano di questi sig.ri [cavalieri di Malta, ministri regi, Vicerè]” si era rovinato. Gentile, che non ha ardito riparare i guasti, esprime tutto il suo rincrescimento per i danni patiti dal quadro e, soprattutto, se a causa di questi danni, “l’ornamento è debole, et indegno delle sue stanze”[17].
Malgrado l’autorevole testimonianza di Diodato, riferita praticamente in diretta, tutta l’ultima tragica vicenda della vita di Caravaggio e la caccia ai suoi quadri partita dopo la sua scomparsa, appare poco chiara e decisamente confusa»[18].
Come scrivevo nel 2021 nel testo che ho riportato, restavano aperti una serie di interrogativi a cui fino ad allora non era stato possibile dare risposte certe: perché la feluca torna nella città partenopea riportando solo tre quadri e non tutti quelli che il pittore aveva portato con sé? Dove sono finiti gli altri dipinti che Caravaggio aveva portato sulla barca? Perché, dopo essere stato liberato, invece di avviarsi a sud verso Roma, sua ultima meta, distante solo una quarantina di km., si avvia verso nord a Porto Ercole che dista da Palo ben 116 km? È verosimile che abbia percorso questa distanza “a piedi”, come riportato da documenti e biografi, attraversando zone malariche e malsane che probabilmente gli causarono poi le febbri che lo portarono alla morte?
E, infine, perché il Viceré cerca gli effetti di Caravaggio a Porto Ercole? È possibile che in questa drammatica ricostruzione dei suoi ultimi giorni di vita, Caravaggio abbia portato con sé “a piedi” una parte dei suoi quadri? Non sembra verosimile.
Al di là dei molti dubbi che tutta la ricostruzione di questa vicenda lasciava insoluti, sappiamo che, stremato e febbricitante, Caravaggio muore “per malattia” il 18 luglio 1610 nell’ospedale di S. Maria Ausiliatrice di Porto Ercole, assistito dalla Compagnia della Santa Croce[19]. Fu probabilmente sepolto in una fossa comune.
Fin qui le notizie note e i tanti dubbi esistenti prima dell’articolo di Francesca Curti.
L’accurata ricerca della studiosa parte da un importante ritrovamento archivistico pubblicato da Giulia Cocconi[20], che riveste una importanza essenziale per spiegare i fatti dell’estate del 1610.
Si tratta, in particolare, di due procure con le quali Giovanni Francesco Tomassoni – dimorante a Parma, dove si era rifugiato dopo l’omicidio del fratello Ranuccio – incaricò l’altro suo fratello, Mario Tomassoni, di stipulare per suo conto a Roma la pace con due dei protagonisti della tragica rissa del 28 maggio 1606: Onorio Longhi e Caravaggio.
Partendo da questa testimonianza documentaria, analizzandola sotto il profilo istituzionale e giuridico e tenendo ben presenti i documenti e le fonti biografiche note, la Curti ricostruisce un’attendibile successione degli eventi degli ultimi giorni di Caravaggio che si sono svolti, sulla base dei documenti esaminati, in modo completamente diverso da quanto finora creduto.
Le due procure sono datate rispettivamente 20 novembre 1609 (Onorio Longhi) e 15 marzo 1610 (Caravaggio) e con esse Tomassoni si impegnava a fare con entrambi gli artisti la “pace”. Spiega al riguardo la Curti, con opportuni riferimenti giuridici:
«Come ben esposto da Valerio Antichi, la pace … era un atto pubblico rogato da un notaio che sanciva “la sospensione del conflitto fra due o più soggetti”, prevedendo “uno specifico procedimento, implicante una serie di azioni rituali tra i contraenti” come “scambiarsi l’osculum, cioè il bacio, bere dallo stesso bicchiere, mangiare dal medesimo piatto”, ricorrere ad un notaio o ad un ecclesiastico perché registrasse l’atto di pace”, tutti gesti necessari affinché “la comunità prendesse atto dell’avvenuta riappacificazione […] e le autorità civili ne riconoscessero l’ufficialità”. Rompere la pace significava tradire un obbligo sia religioso che politico e infangare per sempre il proprio onore»[21].
La “pace”, dunque, era uno strumento giuridico essenziale e indispensabile per ottenere la grazia papale per i condannati in contumacia come erano Caravaggio, Onorio Longhi e lo stesso Giovan Francesco Tomassoni[22]. Di fatto, la domanda di grazia al Papa si sarebbe potuta formalizzare esclusivamente solo dopo aver ufficialmente registrato la pace, non prima.
Di particolare interesse è inoltre la notizia che le trattative di pace si sarebbero dovute svolgere a cura di Mario Farnese per quanto riguardava Onorio Longhi, e del cardinale Odoardo Farnese e di suo fratello, il duca di Parma Ranuccio Farnese, cioè i due membri più importanti della famiglia parmense, per quanto riguardava il Merisi[23]. Non solo, ma i documenti ci informano che la trattativa per arrivare alla pace, nel caso di Caravaggio, era partita il 15 marzo 1610, cioè quasi quattro mesi prima della morte del pittore a Porto Ercole, quando Michelangelo era ancora a Napoli.
È chiaro quindi che gli ultimi mesi napoletani del pittore furono tutti finalizzati al successo di questa trattativa – da cui dipendeva la grazia papale e la possibilità del suo rientro a Roma – a cominciare dal reperimento delle somme necessarie per affrontare il viaggio e per le trattative di pace.
C’è da dire ancora che i primi documenti che accennano a una possibile pace per Caravaggio risalgono addirittura all’agosto del 1607[24], quando il pittore si trovava a Malta. Le trattative con i Tomassoni partirono quindi molto presto dopo la rissa, ma, prima di stipulare la pace era necessario che i personaggi coinvolti trascorressero qualche anno in esilio, di solito cinque[25], e fossero in grado di sostenere le ingenti spese per la composizione della disputa e per la fideiussione.
Alla luce di queste fondamentali notizie assume un nuovo significato la fuga di Caravaggio nei feudi Colonna, a Napoli, a Malta, in Sicilia e poi di nuovo a Napoli: è chiaro che il pittore doveva far passare gli anni dell’esilio, non poteva tornare a Roma. Infatti, ecco che puntualmente, nel marzo del 1610, poco più di un anno prima della scadenza dell’esilio, arriva la procura di Giovan Francesco Tomassoni per stipulare la pace che coinvolge Odoardo e Ranuccio Farnese per la trattativa con Caravaggio.
Come ritiene la Curti, è del tutto verosimile che anche il pittore, per tutelare i suoi interessi, abbia coinvolto personaggi di pari prestigio, come il cardinale Ferdinando Gonzaga, ricordato da Baglione[26] e Bellori[27] come protettore di Caravaggio in questa vicenda, o il marchese Vincenzo Giustiniani, citato invece da Celio allo stesso riguardo[28].
Stabilito quindi questo primo fondamentale punto di partenza, cioè che Caravaggio parte da Napoli nel 1610 non per tornare direttamente a Roma, ma per partecipare alle trattative di pace con Giovan Francesco Tomassoni[29] attraverso i suoi emissari Odoardo e Ranuccio Farnese, tutti i tasselli di questa incredibile storia sembrano andare al loro posto. Grazie a questa ricostruzione, proposta dalla Curti sulla base dei documenti, i frenetici e incomprensibili spostamenti degli ultimi giorni del pittore assumono contorni più plausibili e reali.
Dunque, Caravaggio si ferma a Palo non per andare verso Roma per ricevere la grazia, come si è sempre creduto, ma piuttosto per svolgere le contrattazioni preliminari per stipulare la pace con il cardinal Odoardo e Ranuccio Farnese.
Il porto di Palo era il luogo ideale dal momento che pur essendo parte dello Stato di Bracciano su cui governava Virginio Orsini, i Farnese non solo avevano mantenuto numerosi possedimenti nella zona, ma lo stesso Odoardo ricopriva dal 1600[30] la carica di legato del Patrimonio di San Pietro della provincia di Viterbo che comprendeva anche Civitavecchia e il porto di Palo.
Il piccolo porto era quindi, di fatto, sotto la giurisdizione del cardinal Odoardo Farnese, un luogo sicuro in cui trattare i dettagli del contratto di pace[31]. Uno sbarco e un incontro, quindi, previsti e organizzati con un fine ben preciso.
Ma, si chiede giustamente la Curti, questa plausibile ricostruzione sembra contrastare con la carcerazione di Caravaggio appena sbarcato in un posto che in teoria doveva essere un luogo protetto.
Tuttavia, come riporta la Curti, alcune ricerche archivistiche pubblicate da Alessio Grasso[32] sul comandante del presidio militare spagnolo di Porto Ercole negli anni 1609-1610, Diego Roca Borja, aiutano a sciogliere anche questo problema. Questo personaggio, al termine del suo mandato, fu accusato di numerosi abusi di potere, soprattutto quello di eseguire condanne sommarie per poi estorcere ai condannati somme in denaro per la loro scarcerazione. È proprio quello che successe a Caravaggio, forse scambiato dal funzionario corrotto spagnolo con qualcun altro, probabilmente meno ingombrante e famoso. Una ipotesi questa che spiega anche l’accenno all’arresto per uno scambio di persona riportato da Diodato Gentile e da altri biografi seicenteschi[33].
Sulla base di queste notizie la studiosa ritiene possibile, credo giustamente, che in realtà la carcerazione di Caravaggio non sia avvenuta a Palo, dove era presenta un piccolissimo contingente militare di soli tre soldati[34], del tutto inadeguati per una operazione di questo genere, ma piuttosto a Porto Ercole, che era a tutti gli effetti un vero e proprio presidio militare spagnolo.
C’è da dire che la notizia dell’arresto del pittore a Palo viene da Diodato Gentile, che lo scrive nella sua lettera del 29 luglio 1610, una fonte addirittura contemporanea ai fatti, quindi presumibilmente attendibile. Tuttavia, nella concitazione dei giorni immediatamente successivi alla morte di Caravaggio, girarono per l’Italia a riguardo le voci più disparate ed è plausibile che fosse giunta al Vescovo una notizia errata. Del resto Diodato nella stessa lettera riferisce che, nei giorni precedenti, per errore, la morte di Caravaggio era stata collocata a Procida. Evidentemente a Napoli arrivavano notizie contrastanti ed errate sugli ultimi giorni del pittore. È appena il caso di ricordare che anche Celio (1614) sbaglia indicando come luogo della sua morte Terracina.
In ogni caso, l’intuizione dell’arresto avvenuto a Porto Ercole, che stravolge quello che si è sempre creduto, oltre a essere plausibile, risolve altri due problemi rimasti finora insoluti.
Il primo riguarda le modalità di arrivo dei beni e del San Giovanni Battista di Caravaggio nel porto toscano: come vedremo, fu probabilmente lo stesso pittore a portarli via mare, ripartendo da Palo probabilmente con la feluca napoletana.
Il secondo perché chiarisce il motivo per cui il Viceré di Napoli, don Pedro Fernàndez de Castro conte di Lemos, nella sua lettera del 19 agosto 1610[35], richieda i beni di Caravaggio e il San Giovanni Battista al giudice degli affari militari dei Presidi spagnoli proprio di Porto Ercole.
Seguendo questa ricostruzione, è possibile che Porto Ercole fosse fin dall’inizio una tappa programmata del viaggio del pittore. In analogia con quanto avvenuto agli altri personaggi coinvolti nella rissa del 1606[36], anche Caravaggio aveva necessità di attendere sia la scadenza dei cinque anni di esilio previsti per queste tipologie di reato, sia la stipula formale della pace negoziata a Palo con il cardinal Farnese.
Non è fuori luogo a questo punto ricordare come proprio a Porto Ercole ci fossero vari possedimenti della famiglia Giustiniani[37] – i quali, secondo Celio, furono tra coloro che favorirono il ritorno a Roma del pittore – dove il Merisi poteva attendere tranquillamente la fine dei tempi dell’esilio e l’espletamento delle procedure di pace che gli avrebbero consentito di avere la grazia dal Papa e, quindi, di tornare a Roma.
In base dunque alla ricostruzione della Curti il pittore, dopo Palo, proseguì il suo viaggio verso Porto Ercole dove sbarcò con parte del suo bagaglio e il San Giovanni Battista, che la studiosa identifica con il dipinto oggi nella Galleria Borghese[38], venendo subito fatto arrestare dal corrotto comandante Diego Roca Borja.
Dopo essere stato liberato in cambio dell’esborso di una grossa somma di denaro, che aveva verosimilmente con sé in previsione degli accordi per la pace, Caravaggio si diresse verso il porto dove aveva lasciato la feluca con il resto dei quadri, i due San Giovanni e la Maddalena, ma, come sappiamo, a causa del “romore” del suo arresto, la piccola barca aveva ripreso il largo ed era già sulla strada di Napoli. È qui che Caravaggio, forse pesantemente provato dai giorni trascorsi in carcere, trova la morte.
Fin qui la convincente ricostruzione degli ultimi giorni di Caravaggio elaborata da Francesca Curti sulla base dei documenti ritrovati. Una ricostruzione che riesce a districare una concatenazione di fatti davvero complicata, sciogliendola in una successione di eventi logica e verosimile, di cui si dovrà necessariamente tener conto da adesso in poi negli studi sul grande pittore lombardo.
Nella seconda parte del suo articolo l’Autrice affronta, infine, il problema dei quadri che il pittore aveva sulla feluca, il San Giovanni rimasto a Porto Ercole e gli altri tre riportati a Napoli. Vengono qui ricostruite, con ricchezza di dati documentari, le loro complesse vicende anche burocratiche e amministrative, chiarendo una serie di circostanze rimaste finora oscure e aprendo nuove prospettive di studi.
Rossella VODRET Roma 26 Giugno 2024
NOTE