Misteri e segreti del nome di Roma. Le ipotesi più suggestive, da Flora a Maia ad Amor (Venere)

di Nica FIORI

O – ma qual nome ora, de’ tuoi tre nomi, / dirà l’Italia? Il nome arcano è tempo / che si riveli, poi ch’è il tempo sacro. / Risuoni il nome che nessun profano / sapea qual fosse, e solo nei misteri / segretamente s’inalzò tra gl’inni: / mentre sull’ombra attonita una strana / alba appariva, un miro sole, e i cavi / cembali intorno si scotean bombendo – / Amor! oh! l’invincibile in battaglia!”
(…)
Flora! Madre dei fiori, o tu cui sempre / è primavera, o tu che per le genti / immense hai sparso il nuvolo dei semi, / la Terra aiuta! Questa pia saturnia / terra produca in maggior copia i frutti / che già versava dal fecondo grembo”.

A un poeta latinista come Giovanni Pascoli, autore di questi versi tratti dal suo “Inno a Roma” del 1911 (composto in latino e tradotto dallo stesso poeta in italiano), non poteva certo sfuggire la leggenda relativa ai tre nomi di Roma: quello pubblico, quello segreto e quello celeste. Rifacendosi a quanto affermava nel VI secolo l’erudito bizantino Giovanni Lorenzo Lido nel De mensibus, Pascoli attribuì a Roma il nome segreto Amor e quello sacro di Flora.

Egli era sicuramente affascinato dalla possibilità che l’Urbe fosse legata a Venere, dea dell’amore (amor) e madre di Enea (cui viene fatta risalire la discendenza della gens Iulia, alla quale apparteneva Augusto), e nello stesso tempo alla dea dei fiori, della natura, “quella che in cielo è Flora”, la cui forza creatrice forse idealmente collegava alla vita, e quindi alla pace.

solo nei fiori tu il color di sangue / lodi e nel casto viso di fanciulle: / miele, olio, vino, o Flora, ami; non sangue”.
1 Venere Genitrice, Louvre
2 Flora Farnese, II sec. d.C. , MANN, Napoli

Una divinità questa che Pascoli aveva già nominata nel suo precedente carme “Post occasum urbis (“Dopo il tramonto dell’urbe”, 1907), specificando nel verso finale che Roma era stata chiamata con il nome divino Flora:audierat quae divino dea nomine Flora” (foto 1 e 2).

Le cose, in realtà, non sono così semplici e il nome misterioso della divinità celeste potrebbe rimanere oscuro.

Non sono affatto d’accordo due studiosi che ritengono di aver individuato, senza ombra di dubbio, in Maia il nome sacro di Roma. Si tratta di Arduino Maiuri e Felice Vinci (già noto per “Omero nel Baltico”), autori del saggio “Mai dire Maia. Un’ipotesi sulla causa dell’esilio di Ovidio e sul nome segreto di Roma (nel bimillenario della morte del poeta)”, uscito nel 2017 nella rivista “Appunti romani di Filologia”. Lo studio parte dall’idea che Ovidio fosse stato condannato all’esilio a Tomi, sul mar Nero, da Augusto per aver evidenziato nel V libro dei Fasti, dedicato a maggio, l’implicazione di Maia nella fondazione di Roma: un legame che nessun autore precedente aveva mai preso in considerazione.

3 E. Ferrari, statua di Ovidio (part.), 1925, Sulmona

È lo stesso Ovidio che nei Tristia dichiara che è stato condannato per un carme e per un errore, ma non può rivelare di cosa si tratti. Se per il carme si potrebbe pensare all’Ars amatoria, non gradita all’imperatore per il suo contenuto trasgressivo che contrastava con la rettitudine dei costumi che Augusto voleva imporre al suo principato, l’errore, secondo Vinci e Maiuri, doveva essere gravissimo, perché inerente al mistero del nome sacro della città; anzi quell’errore era passibile della sentenza di morte, commutata dall’imperatore nell’esilio, presumibilmente con l’ingiunzione che Ovidio non rivelasse mai il motivo della condanna (foto 3).

Maia è la principale divinità delle Pleiadi, le sette figlie di Atlante e Pleione (una Oceanina) trasformate in stelle: guardando la disposizione dei sette colli di Roma, si nota che essi corrispondono quasi del tutto alle Pleiadi, tanto da sembrare il loro riflesso sulla terra, con Maia in corrispondenza del Palatino, il più centrale dei colli, che vide la fondazione della Roma quadrata attribuita a Romolo. Le successive mura serviane sarebbero state costruite proprio seguendo la forma riflessa delle Pleiadi (foto 4).

4 Corrispondenza tra Roma e le Pleiadi

L’ipotesi è molto suggestiva e si basa su corrispondenze tra cielo e terra, in base al principio della Tavola smeraldina, attribuita a Ermete Trismegisto, che afferma “Ciò che è in basso è uguale a ciò che è in alto”: corrispondenze che sono evidenti anche in altre città costruite su sette colli (tra cui La Mecca, il cui nome deriverebbe da Maka, nome locale di Maia), tutte caratterizzate da culti antichissimi riservati alla Madre Terra e alle stelle. Oltretutto il 21 aprile, giorno natale di Roma, segna nel calendario l’entrata della costellazione del Toro e le Pleiadi sono visibili sotto questo segno zodiacale.

Maia nella religione greca è di norma associata a Ermes, il figlio nato dalla sua unione con Zeus sul monte Cillene, ed è quindi una dea Madre, oltre che una stella (foto 5).

5 Ermes e Maia, ceramica attica a figure rosse

La Maia romana ha un’origine latina ed è equiparata alla Maiestas. Il suo nome, associato al mese di maggio, potrebbe essere derivato dalla radice mag di magis e maius come divinità legata alla forza prorompente della natura, al suo germogliare in primavera, e la sua figura è collegata con il dio Vulcano che rappresenta il fuoco, il calore interno della terra. Ed è per questo che alle calende di maggio il sacerdote chiamato flamen volcanalis offriva un sacrificio alle due divinità associate (foto 6). Anticamente è stata da alcuni identificata con Fauna, con Flora e con la Bona Dea, della quale non si pronunciava il vero nome e il cui culto misterioso era riservato alle donne (foto 7).

6 Bartholomäus Spranger, Vulcano e Maia, 1590 Kunsthistorisches Museum Vienna
7 Bona Dea, statuetta di marmo con iscrizione, Coll. privata

Indubbiamente le numerose divinità femminili di età arcaica hanno dato luogo a diversi sincretismi che rimandano tutti all’idea di una dea Madre, una nutrice, una genitrice che allatta, e in questo caso ritorna in mente il culto di Venere genitrice, che trovò grande diffusione in età augustea insieme a quello di Marte, il dio della guerra, padre divino di Romolo e Remo, che doveva garantire la potenza dell’impero (foto 8, 9 e 10).

8 Il Tempio di Venere genitrice visto dal Clivo Argentario
9 Fregio con amorini, dal tempio di Venere genitrice, Museo Fori Imperiali
10 Fregio con Amorini, dal Tempio di Venere genitrice, Musei Vaticani

Il discorso sul nome segreto di Roma ovviamente rimane aperto, perché è difficile far luce su un mistero così remoto. Basti pensare che gli storici non sono d’accordo neppure sull’etimologia del nome Roma. Comunemente si ritiene che questo le sia stato imposto dal suo fondatore Romolo, ma in questo caso si sarebbe dovuta chiamare Romulia, come venne chiamata la tribù cui fu assegnato il territorio tolto dal primo re ai Veienti. Secondo alcuni è Romolo che deriva da Roma nel significato di “romano”.

Il nome potrebbe avere forse un’origine pelasgica. Quando i Pelasgi si stanziarono nel Lazio, potrebbero averle dato il nome Rome che nella loro lingua voleva dire forza, valore, e infatti i Latini l’avrebbero chiamata Valentia (forza) ai tempi di Evandro, il mitico re che aveva accolto Enea. Potrebbe anche derivare da Rome, una nipote di Enea, o da altri personaggi legati all’eroe troiano.

Un’altra possibile etimologia è quella che collega il nome a ruma, cioè mammella, che sembra alludere al singolare allattamento da parte di una lupa di Romolo e Remo. Lo stesso Palatino del resto ha la forma di due mammelle. Rumon o Rumen è l’antico nome del Tevere, connesso con il verbo greco reo (scorrere), quindi Roma potrebbe significare “città del fiume”. Scrive Servio nel suo commento all’Eneide (VIII, 90):

“Il fiume fu detto Rumen e da questo il fico Ruminale, presso il quale furono gettati Romolo e Remo, che fu dove ora è il Lupercale nella rocca del Palatino”.
11 A. Carracci, Romolo e Remo allattati dalla lupa, part., Palazzo Magnani, Bologna

Il termine “Ruminale”, però, potrebbe anche collegarsi alla secrezione lattiginosa del fico e quindi al significato di mammella (foto 11).

La credenza che la città avesse un nome segreto si basa su quanto è stato tramandato da diversi storici. Giulio Solino, erudito e geografo del III secolo d.C., nella Polistoria afferma che il vero nome di Roma non è stato mai divulgato, perché i soli ad averne conoscenza erano i capi dello stato, che se lo tramandavano trasmettendosi il potere. Solo il pontefice massimo pronunciava il suo nome durante il sacrificio rituale. Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia (III, 65) scrive:

Pronunciare il secondo nome di Roma al di fuori delle celebrazioni dei misteri è ritenuto empio. Questo nome, tenuto segreto con una lealtà perfetta e salutare, lo pronunciò Valerio Sorano, e subito ne scontò la pena”.
12 Statua di Angerona, Parco di Schoenbrunn, Vienna

Accenna quindi a un’antica divinità festeggiata al solstizio d’inverno, Angerona, il cui simulacro ha la bocca sigillata da una benda (oppure ha il dito accostato alla bocca), cosa che sembra alludere alla prescrizione di non rivelare il segreto (foto 12). Ma il tribuno Valerio Sorano aveva scritto un libro, Epoptides, ossia “Misteri svelati”, in cui rivelava il nome segreto della città, che era insieme quello del nume tutelare. Per questo motivo fu imprigionato per ordine del Senato e condannato a morte. Il suo tentativo di fuga in Sicilia non ebbe buon esito, perché fu raggiunto e ucciso (82 a.C.).

Macrobio, che era un alto funzionario imperiale vissuto tra il IV e il V secolo, ricorda nei Saturnalia che questo nome era scritto in antichissimi libri, ma questi erano discordi tra loro. Alcuni gli attribuivano il nome di Giove, altri quello della Luna, di Angerona e di Ope Consivia. Pertanto, come afferma in un passo: “Il nome di Roma è ignorato anche dai più dotti”.

Grazie a questo mitico segreto, la città assumeva per Macrobio un valore insostituibile e permanente di eternità, proprio mentre infuriavano invasioni e distruzioni e, pur essendo ormai prossimo il crollo del suo mondo, vedeva ancora nell’Urbe l’unica forma possibile di vita civile e nel suo passato l’impronta della volontà divina.

La prescrizione di mantenere segreto il nome occulto di Roma era dovuta alla paura che un nemico, conoscendolo, avrebbe potuto gettare una maledizione su di essa, dopo aver evocato il suo nume tutelare per mezzo di una formula (evocatio). Gli stessi Romani, secondo quanto narra Plinio (XXVIII, 18), quando erano in procinto di assalire una città, invocavano la sua divinità protettrice, promettendole che in Roma avrebbe goduto di un culto uguale o maggiore, se avesse assistito i Romani nell’impresa. Un esempio di questa usanza è riferito da Tito Livio (V libro delle Storie) quando parla di M. Furio Camillo che, venuto a conoscenza della divinità di Veio, così la invocò:

Ti scongiuro, o Giunone Regina, che ora hai un culto in Veio, di volerci seguire vincitori a Roma ove la tua grandezza avrà un tempio degno di te”.

La stessa cosa fece Scipione per Cartagine scongiurando gli dei locali a disertare quei luoghi e ad accettare l’ospitalità di Roma (foto 13).

13 F. Salviati, Trionfo di Furio Camillo, Firenze, Palazzo Vecchio

Mantenere il nome di una città avvolto nel mistero era un’antichissima usanza dei popoli italici, collegabile ad analoghe credenze del mondo orientale, che attribuivano al nome la funzione di chiave della potenza magica. Pronunciare il vero nome vuol dire, infatti, conoscere, dare una forma all’immagine spirituale, rivelare l’essenza di un essere, e quindi dominarlo.

A Roma non solo non si doveva conoscere il nome della sua divinità tutelare, ma neppure il sesso. Ai piedi del Palatino, lungo il perimetro della Roma quadrata, era stata collocata un’ara di travertino, scoperta nel 1829 ancora nel sito originale e recante questa dedica: SEI DEO SEI DEIVAE (Sii tu un dio o una dea); e su uno scudo sacro al Genio di Roma sul Campidoglio era scritto: GENIO URBIS ROMAE SIVE MAS SIVE FOEMINA (Al Genio della città di Roma sia esso maschio o femmina). È da ricordare a questo proposito che sul Palatino era venerata la divinità Pales, evocata inizialmente come dio e come dea. Per uno strano caso del destino più tardi sullo stesso colle verrà eretto un tempio a Cibele, la Madre degli dei, che secondo un mito orientale era in origine un androgino.

Come abbiamo già accennato all’inizio, un’ipotesi vuole che oltre al nome celeste di una divinità, Roma avesse il nome arcano Amor, ovvero la parola Roma scritta da destra verso sinistra. A conferma di ciò vengono citate un’iscrizione incisa in forma di quadrato, ritrovata a Ostia Antica nella Caserma dei Vigili (età adrianea) e un’incisione graffita scoperta a Pompei in una parete di una casa nella via tra le insulae VI e X della Regione I.

Si tratta in entrambi i casi di un gioco di lettere (ROMA OLIM MILO AMOR) che sembra alludere alla Roma quadrata col suo nome volgare e quello segreto: un quadrato magico sul tipo di quello notissimo del SATOR, pure trovato a Pompei, sul quale sono stati versati fiumi d’inchiostro (foto 14).

14 Illustrazione con il quadrato magico Roma-Amor, accostato a quello del Sator

Amor è sicuramente un attributo di Venere, una dea che in origine era invocata come Volupia, Angerona, Ope e altre divinità, e mai sotto il suo vero nome. A favore della possibilità che lei fosse la divinità tutelare di Roma sembra pronunciarsi il poeta Prudenzio, quando afferma che i templi di Roma e di Venere sono della stessa grandezza e alle due divinità si offrivano incensi contemporaneamente. D’altra parte, Augusto per primo poté diventare imperatore, perché considerato discendente da Venere. A questa divinità può essere strettamente associata Flora, la dea della vegetazione, della primavera, dell’abbondanza, per il senso gioioso della vita, tanto che le sue feste, chiamate Floralia (dal 28 aprile al 3 maggio), avevano una connotazione decisamente gaudente e licenziosa. Flora era molto amata dai Romani, che le dedicarono ben due templi, uno sul Quirinale e l’altro nei pressi del Circo Massimo. Ma, come abbiamo già visto, pure Maia era legata alla primavera (foto 15 e 16).

Amor, il presunto nome occulto dell’Urbe (ma in realtà fin troppo evidente!), avrebbe dato luogo anche al palindromo ROMA SUMMUS AMOR, presente a Roma sul muro del Macellum Liviae (sull’Esquilino, presso la chiesa di San Vito) e a un distico enigmatico, i cui versi possono anch’essi essere letti indifferentemente da destra o da sinistra:

SIGNA TE, SIGNA; TEMERE ME TANGIS ET ANGIS/ ROMA, TIBI SUBITO MOTIBUS IBIT AMOR

(Segnati, segnati; invano tu mi tocchi e tormenti/ Roma, l’amor tuo, col movimento verrà a te subitamente).

Si dice che questi due versi palindromi fossero scritti su una delle porte di Roma. Secondo una leggenda sarebbero stati pronunciati dal demonio, quando San Martino lo mutò in mulo e, a forza di segni di croce, lo fece dirigere verso Roma. Un’altra versione parla invece di un Sant’Antidio, pure lui alle prese col diavolo. Stranamente questa frase incomprensibile la si ritrova a Praga, una delle città europee più ricche di elementi misteriosi. È leggibile sulle due torri edificate dall’imperatore Carlo IV (1316-1378), che forse aveva avuto modo di notarla a Roma quando vi era giunto nel 1355 per la cerimonia della sua incoronazione. Ricordiamo che fu proprio quest’imperatore, insieme a Santa Brigida di Svezia, a cercare di convincere papa Urbano V a riportare la sede papale da Avignone a Roma. In quest’episodio si potrebbe vedere, pertanto, una sorta di sconfitta del diavolo, in qualche modo responsabile di quella che la storia chiama la “cattività avignonese”.

Ma nelle parole, come sanno bene gli enigmisti, possono nascondersi anagrammi, numeri e significati che ognuno può interpretare a modo suo. Nel nome di Roma, a ben guardare, è contenuto pure il suono “om”, un’espressione sacra di ambito orientale, familiare a tutti quelli che si dedicano a pratiche spirituali e di concentrazione, che corrisponde a “respiro di Dio”: forse un segno della sua predestinazione a capitale religiosa del mondo. Non potrebbe anche questo essere uno dei misteri legati al nome dell’Urbe?

Nica FIORI  Roma  25 Aprile  2021