di Nica FIORI
Il culto di Cibele e Attis a Roma: una religione dagli strani riti primaverili
Nell’angolo sud-ovest del Palatino, in uno dei luoghi più importanti e centrali nella topografia di Roma antica, tra le più antiche vestigia dell’occupazione umana del sito urbano (capanne dell’età del Ferro) e i resti degli edifici sacri di epoca arcaica e alto-repubblicana, troviamo anche quelli del tempio di Cibele, la Madre degli dei di origine anatolica e identificata dai Greci con Rea, il cui nero simulacro era stato trasportato da Pessinunte a Roma nel 204 a.C., nel corso della II guerra punica.
Chiamata a Roma Magna Mater, era l’unica divinità straniera a essere accolta nel cuore della città, perché originaria della terra di Enea, il mitico eroe troiano che è all’origine della fondazione dell’Urbe. L’introduzione del suo culto è legata alla grande crisi religiosa determinata dai disastri militari subiti da Roma nel corso della guerra annibalica. Gli dei ufficiali non erano più sentiti all’epoca come protettori e i loro riti venivano aboliti e sostituiti da un’ondata di superstizioni.
Secondo quanto racconta Livio, nel 205 a.C., a seguito di frequenti piogge di pietre avvenute quell’anno, si diede credito a una profezia dei Libri Sibillini (i sacri testi oracolari custoditi nel tempio di Giove Capitolino e consultati in caso di avvenimenti eccezionali), che diceva che
“quando un nemico straniero avesse portato la guerra nella terra italica, sarebbe stato possibile respingerlo e batterlo se si fosse trasferita la Madre Idea da Pessinunte a Roma”.
Il re Attalo I di Pergamo, da poco alleato dei Romani contro Cartagine, accondiscese al trasferimento del simulacro della Grande Madre (un meteorite nero di forma conica) solo dopo un messaggio perentorio della dea, che gli avrebbe manifestato con un terremoto il suo desiderio di partire per Roma. Il suo arrivo nel porto fluviale di Ostia è pure avvolto da un’aura mitica, perché la nave che trasportava la dea si sarebbe arenata alla foce del Tevere, e soltanto l’intervento di Claudia Quinta, una matrona romana o secondo alcuni una vestale, l’avrebbe disincagliata trainandola con la sua cintura. Essendo stata accusata di cattivi costumi, la donna dimostrò con questa prova la sua verginità, dopo aver pregato la dea di intervenire in suo favore.
Episodio questo che troviamo raffigurato in un altare marmoreo di epoca claudia, rinvenuto nelle adiacenze di via Marmorata e attualmente nella Centrale Montemartini, come pure in un dipinto cinquecentesco di Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, esposto nella Galleria Nazionale d’Arte antica di Palazzo Barberini.
Al di là del meteorite nero, sacro in quanto caduto dal cielo, la dea veniva raffigurata su un trono, con accanto due leoni o anche su un carro aereo trainato da leoni e con il capo cinto di torri,
come scrive Lucrezio (De rerum natura, libro II, 600-07):
“Questa fecer seder gli antichi Greci, / che poetando scrissero di lei, / sopra un carro, al cui giogo vanno insieme / due feroci Leoni, che dimostra / che nell’aereo campo la gran terra / pendendo se ne sta per se medesima. / L’alta testa le cinsero, et ornaro / di corona murale, per mostrare, / ch’ella sostien Città, Ville e Castella”.
Un’ampia spiegazione della sua iconografia è data da Isidoro di Siviglia nel II libro delle Origines: il carro aereo simboleggia la terra sospesa nel cielo, le ruote indicano che il mondo gira, i leoni ammansiti che nessuno sulla terra è così feroce che non possa essere da lei soggiogato; la testa coronata, infine, indica che lei regna su tutti i popoli.
A Cibele era strettamente associato il dio Attis, i cui strani culti misterici avevano luogo nel periodo dell’equinozio di primavera e culminavano con la rievocazione della sua morte e della successiva resurrezione (il 25 marzo). Era costui un dio frigio della vegetazione, rappresentato sotto l’aspetto di un giovane e bellissimo pastore con in testa il cappello frigio. Ma i poeti e i mitologi variano moltissimo nel raccontare gli amori di Cibele e Attis. Secondo una versione del mito, Attis fanciullo era stato esposto sulle rive del fiume Sangario, dove fu scoperto da Cibele, che si innamorò perdutamente di lui. Quando in seguito egli, divenuto giovinetto, stava per sposarsi e abbandonare Cibele, lei, colta da terribile gelosia, lo fece impazzire spingendolo a evirarsi il giorno stesso delle nozze. Attis morì dissanguato, ma la dea pentita ottenne da Zeus la sua resurrezione.
Secondo un’altra mitica versione, Attis era in realtà figlio della stessa Cibele, nato da un frutto di melograno che aveva fecondato la figlia del dio fluviale Sangario, e il melograno, a sua volta, era nato dal sangue magicamente fertile di Cibele che aveva inondato la terra dopo che lei, originariamente androgina e chiamata Agdistis, era stata evirata per volere degli dei.
Strano destino quello di Attis, di ripercorrere in un certo senso le orme materne e di ricongiungersi così a colei che era stata insieme madre e amante. Attis, secondo una leggenda, si era trasformato in un pino sempreverde, l’albero sotto il quale era morto. Ecco perché i dendrophori (portatori dell’albero), associati in un collegio, trasportavano in processione solenne sul Palatino, nel tempio di Cibele, un pino avvolto in bende come un cadavere. Dopo due giorni di digiuno e lamenti funebri, i sacerdoti di Attis, detti Galli dal nome di un fiume frigio, si flagellavano e quelli che aspiravano a diventare sacerdoti si eviravano con una pietra tagliente, per garantire così la loro perpetua castità. Le celebrazioni si concludevano con banchetti e mascherate a carattere orgiastico, celebranti il dio risorto, ovvero il suo ritorno alla Grande Madre subito dopo l’equinozio, e quindi, in termini solari, il passaggio del sole dallo zodiaco meridionale a quello settentrionale.
La statua di Cibele veniva poi portata sulle rive del fiume Almone e immersa nelle sue acque, dove si celebrava il 27 marzo la Lavatio Matris Deum. Ovidio, quando parla del culto della dea nei Fasti, ci fa sapere che “Vi è un luogo dove il veloce Almone sfocia nel Tevere / e perde il nome, esso minore, fluendo in un fiume maggiore. / Là un flamine canuto in vesti purpuree / lava la Signora e le sacre cose con acqua dell’Almone. / I ministri del culto urlano, il flauto suona all’impazzata, / e mani effeminate percuotono la pelle taurina dei tamburi” (IV, 337-342).
Dopo i riti di marzo, ad aprile era prevista la festa dei Megalesia, della durata di sei giorni, che iniziava il 4 aprile, in ricordo del giorno in cui Cibele arrivò a Roma. Durante questo periodo si svolgevano dei ludi scaenici, sotto la sovrintendenza degli edili curuli, e si sa che quattro delle opere di Terenzio a noi note furono rappresentate in occasione di queste festività.
Quando il culto di Cibele fu solennemente introdotto nell’Urbe, era già passato attraverso una lunga evoluzione, che aveva visto combinarsi credenze di origine diversa.
Vi si trovavano usi primitivi della regione anatolica, come quello di adorare gli alberi e insieme le montagne, le rocce e le pietre cadute dal cielo. I Frigi accordavano anche i loro omaggi a certi animali, in particolare al leone, il più potente di tutti, che era sempre raffigurato come l’animale simbolico della dea. Quando la tempesta soffiava nelle foreste del monte Ida era Cibele (detta anche Idea) che, trainata da leoni ruggenti, percorreva il paese lamentando la morte del suo amato Attis.
Nella rievocazione del mito il corteggio dei suoi fedeli si precipitava dietro il suo carro emettendo dei lunghi gridi accompagnati dal suono di flauti, nacchere, cembali e tamburelli. Inebriati dal frastuono degli strumenti, esaltati dai loro slanci impetuosi, essi si abbandonavano ai trasporti dell’entusiasmo sacro. Catullo ci ha lasciato una descrizione drammatica di questa ossessione divina nel carme LXIII, terminante con queste parole:
“O grande dea, o dea Cibele, signora del Dindimo, la tua tremenda furia stia lontana dalla mia casa, altri siano vittime dei tuoi deliri, altri morda la tua rabbia”.
Tutte le dimostrazioni di questo culto, per quanto esagerate o degradanti, erano ispirate da un potente sentimento religioso. Scrive a questo proposito Franz Cumont nel suo fondamentale saggio “Le religioni orientali nel paganesimo romano”:
“In questa ossessione sacra, in queste mutilazioni volontarie, in queste sofferenze ricercate con trasporto, si manifesta un’aspirazione ardente a liberarsi dalla soggezione degli istinti carnali, a sciogliere l’anima dai legami della materia”.
Ma quando il Senato romano si rese conto della violenza e dell’eccitazione contagiosa di questi riti orientali, che tanto contrastavano con la gravità e la riservatezza della religione ufficiale, cercò di isolare il nuovo culto in modo da impedirne la diffusione. Fu proibito a tutti i cittadini romani di divenirne sacerdoti e di prendere parte alle orge sacre. I riti pertanto venivano compiuti da sacerdoti frigi, fino a che, con l’imperatore Claudio, il divieto cessò.
In età imperiale si affermò, negli stessi anni in cui si andava diffondendo il mitraismo, il rito del taurobolium, ovvero una sorta di “battesimo” che prevedeva la rigenerazione degli iniziati con il sangue di un toro sacrificato (o anche di un ariete e in questo caso si chiamava criobolium). Rito attestato dalla presenza di numerose are tauroboliche nell’area del Vaticano, dove sorgeva il Phrygianum, un santuario di Cibele e Attis che doveva trovarsi in corrispondenza dell’attuale facciata della basilica di San Pietro.
L’interesse di Claudio verso questa religione può essere ricollegato al ricordo della sua antenata Claudia Quinta, che per prima aveva accolto la dea che doveva proteggere Roma. Anche altri imperatori furono devoti alla Magna Mater (soprattutto della dinastia giulio-claudia e dell’antonina), ma è a Giuliano detto l’Apostata, l’ultimo imperatore pagano in epoca cristiana (Giuliano era nipote di Costantino), che si deve l’Inno alla Madre degli dei, da lui definita
“la sorgente degli dei intelligenti e demiurghi che governano le cose visibili, la genitrice e allo stesso tempo la sposa del grande Zeus, grande dea venuta all’esistenza subito dopo e insieme al grande demiurgo”.
Anche nel porto romano di Ostia è attestato il culto di Cibele e Attis nel cosiddetto Campo della Magna Mater,
un’area di forma triangolare che ci ha restituito un sacello di Attis con due telamoni mostruosi all’ingresso e interessanti sculture, rilievi e iscrizioni. In particolare ricordiamo due rilievi con archigalli (i sacerdoti massimi) conservati nel locale museo, una statua in marmo di Cibele ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli e un cippo con dedica di un archigallo (ora ai Musei Vaticani), che ha al di sopra un gallo, evidentemente per richiamare lo stato sacerdotale del dedicante con un termine assonante.
I misteri di Attis con la drammatica rievocazione della sua morte hanno qualche somiglianza con alcuni riti del Venerdì Santo, che ancora si compiono nell’Italia meridionale (pensiamo soprattutto alle processioni di flagellanti). La festa della resurrezione di Attis cadeva il 25 marzo, giorno che nel calendario attuale corrisponde non a caso all’Annunciazione della nascita di Cristo, che prelude alla sua Passione, Morte e Resurrezione. Anzi, secondo San Cipriano e Sant’Agostino, in questa data si celebrava la prima Pasqua; solo in seguito, stabilito che il giorno natale di Cristo doveva essere il 25 dicembre, lo stesso del Sole Invitto (da identificare con il dio Mitra), dopo aver calcolato a ritroso i nove mesi della gestazione di Maria, si fissò al 25 marzo la festa dell’Annunciazione.
Le feste in onore di Attis si possono riallacciare ad altre analoghe: tutte sembrano preludere alla Pasqua cristiana. In Grecia e nell’Asia mediterranea si celebravano in aprile le Adonie, cioè le feste per la resurrezione di Adone, il bel giovane amato da Afrodite e ucciso da un cinghiale (o da un orso).
Secondo Ovidio dal sangue del giovinetto sbocciò un fiore vermiglio che dura pochissimo, l’anemone. Connessi con i suoi riti erano i cosiddetti “giardini di Adone”, cioè dei vasi o delle ceste in cui si seminavano grano e fiori. Il calore del sole faceva germinare rapidamente le piante che, però, non avendo radici, appassivano altrettanto rapidamente. Dopo otto giorni queste piante venivano gettate in mare o nelle sorgenti, insieme alla statua di Adone, per favorire il rinnovamento della natura. Questo rituale sembra ricordare un’usanza pasquale molto diffusa un tempo: quella di seminare nel periodo precedente la Pasqua grano o lenticchie in piatti che vengono tenuti in penombra e innaffiati ogni due giorni. Le piante così trattate crescono rapidamente e vengono collocate il venerdì santo sul sepolcro di Cristo, così come i giardini di Adone venivano posti sulla statua del dio morto.
Adone viene equiparato pure al dio babilonese Tammuz, che i fedeli chiamavano Adon, cioè Signore. Tammuz doveva vivere per sei mesi negli inferi. Ma a primavera si festeggiava la sua risalita alla luce, quando si ricongiungeva alla dea Ishtar, corrispondente all’Afrodite greca. In tutta l’area mediorientale era considerato il dio della morte e della resurrezione, tanto che viene pure ricordato nella Bibbia, quando il profeta Ezechiele si scandalizza perché le donne di Gerusalemme si lamentano per la sua morte all’ingresso del Tempio che guarda a settentrione.
Nica FIORI Roma 5 aprile 2020