di Marcello AITIANI
Musica e arte, oscurità e bellezza nel mondo contemporaneo
Fra gli scritti della recente pubblicazione di Giancarlo Lucariello, Una melodia infinita, edita da Baldini+Castoldi, sono inseriti i saggi di Marco Betta (compositore e sovrintendente del Teatro Massimo di Palermo) e di Marcello Aitiani (pittore, musicista e saggista).
La struttura tripartita della pubblicazione rivela l’amore di Lucariello per il teatro e la musica: nell’ Overture e nell’ Atto primo, racconta in prima persona la storia di un suo progetto controcorrente perseguito con un grande lavoro, che ha portato alla nascita dei primi cinque album del complesso dei Pooh. Opere-canzoni che «hanno fatto cantare e innamorare intere generazioni», come è scritto nel risvolto di copertina. Segue un Intermezzo di Andrea Pedrinelli (critico musico-teatrale e storico della canzone). L’ Atto secondo, con i due saggi, chiude infine la scena.
Dialogando con Marcello Aitiani, osserviamo che l’immagine di copertina, sipario d’apertura del libro, è tratta da una sua pittura
R: Sì, una pittura che include il ritratto a grafite di Lucariello. E da un suo particolare, con il grafico Stefano Puddu Crespellani, abbiamo elaborato anche l’immagine del cofanetto della Warner che contiene la riedizione in vinile dei primi 5 LP del gruppo italiano negli anni ’70.
-Una superficie lacerata, sofferta, ma con pigmenti in “gradazioni del blu che salgono nell’alba crescente di luce”, come si legge a fianco del frontespizio del libro.
R: Il contrasto che rilevi corrisponde a quello che percepisco nell’animo di Lucariello, riflette inquietudini che avverto al fondo del suo immaginario. Penso che proprio un simile immaginario (e non la ricerca di una banale celebrità) lo ha abbia “costretto” a operare; tanto che l’industria discografica, le classifiche, il successo, il business, i contratti, etc., come lui stesso scrive gli sono sempre stati difficili da sopportare. Da questo, l’antitesi di una superficie della pittura lacerata, ma dipinta con i colori dell’alba, che sempre m’incantano al sorgere della luce.
Tuttavia faccio osservare che queste gradazioni di colore sono ribaltate: nel trapasso fra la notte e il giorno, sull’orizzonte oscuro della terra si distende una fascia di luminosa chiarezza e di gialli rosati, che salendo si trasformano in azzurri sempre più cupi.
Qui invece il climax è rovesciato: dai blu quasi neri si sale ai gialli chiari in alto. Come se guardassimo l’alba non dal nostro mondo ma dal profondo del cielo. Il rovesciamento è voluto e ha il suo significato; ma preferisco che ognuno, se vuole, sia libero di cercarne uno proprio.
-Da questa immagine il libro si apre e col tuo saggio si chiude.
R: È così. Ma il termine “saggio” è da intendersi in questo caso come un insieme di assaggi, non come un testo sistematico; un saggio posto alla conclusione, ma che certo non conclude ed esaurisce i vari aspetti che mi hanno attirato suggerendomi qualche riflessione. È piuttosto una voce autonoma, come sono anche gli altri scritti contenuti nel libro, ognuno dei quali individua motivi, differenti fra loro o sviluppati diversamente.
-Ma comunque tutto verte su quei primi cinque LP del complesso dei Pooh, su quelle realizzazioni.
R: No, non tutto. E comunque non è questo l’argomento delle mie riflessioni. Lo stesso Lucariello non scrive un saggio su quelle produzioni, piuttosto ripercorre vicende del suo operare con il gruppo e delle relazioni col mondo dell’industria discografica; ripensa insomma a momenti della propria vita in quegli anni turbolenti. Mi ha espresso il desiderio che dal quel vissuto il libro si aprisse, grazie ai saggi, a più ampie dimensioni del nostro tempo e al di là del mondo della canzone.
-Come si rapporta il tuo scritto con quel mondo artistico, diverso dal tuo?
R: Sempre più mi sono convinto che anche e soprattutto in arte non è bene ignorare la realtà con le sue contraddizioni e chiudersi in specialismi isolati e in circoli elitari. Fin dai tempi del liceo, alla fine anni Sessanta, alcune tendenze musicali mi apparivano fuori dagli schemi, diverse sia dalla musica “colta” che “leggera”. Così, per conoscerle dal di dentro, ho operato anche in settori dell’industria musicale.
Nel 1978 ho chiuso questa fase. La ricerca di linguaggi che fossero aperti al più ampio pubblico di una società ormai di massa, senza che tuttavia cadessero in forme standardizzate sulla base di eccessive pressioni commerciali, mi appariva non più praticabile.
Ho “scoperto” successivamente che anche i vari universi delle arti e della cultura “alta” sono implicati in logiche e interessi extra-estetici. E ho compreso che soprattutto nella frastagliata fenomenologia artistica del nostro periodo storico non è saggio dividere tutto in chiaro o in scuro: il meglio di qua e tutto il peggio di là. È invece opportuno uno sguardo complesso. Occorre certo un acuto discernimento delle differenze, lo sottolineo, ma sapendo anche cogliere la fecondità di alcune ibridazioni.
-La richiesta di Giancarlo Lucariello è stata insomma uno stimolo per ripensare anche ai tuoi percorsi artistici a partire dagli stati d’animo degli inizi giovanili.
R: Sì, quelli di un adolescente che si veniva formando in una scuola ancora indirizzata alla cultura della nostra tradizione, che viveva in una delle nostre magnifiche città storiche, ma era immerso nello tsunami del boom economico.
Amavo studiare anche “musica classica”, mentre nei concerti rock organizzati per i balli del liceo il suono del basso elettrico, che mai prima avevo sentito dal vero, mi colpiva nelle ossa, sparato da enormi amplificatori Marshall da 120 Watt; esperienza di un tribalismo tattile della musica. Ed ero acceso dalle sonorità dell’organo Hammond dei Procol Harum, del rock progressivo dei King Crimson, degli oscillatori VCO e dei primi sintetizzatori commercializzati per una musica di massa.
Vivevo la città di Duccio di Boninsegna e dei grandi affreschi di Ambrogio Lorenzetti mentre la Pop Art impazzava dopo la Biennale di Venezia del ’64.
Sotto la spinta del mercato e della critica, era ormai in fase avanzata il passaggio della supremazia artistica dall’Europa agli Stati Uniti, e l’abbandono del grande modello culturale ereditato dal passato, a favore della globalizzazione della cultura commerciale, oggi imperante. Gli artisti pop, soprattutto americani, eleggevano a protagonisti dei propri lavori oggetti banali della quotidianità senza, a mio parere, una sufficiente riflessione sui caratteri della “società dei consumi” che li favoriva.
Un’attenzione problematica che invece non era del tutto assente in pittori italiani, pur sensibili a quella corrente, e ancor più marcata negli ambiti della “Poesia visiva”, o comunque delle “Nuove scritture”, con autori come Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti o Luciano Caruso, quest’ultimo proteso anche in altre direzioni e dimensioni espressive, di matrici perfino arcaiche nell’ansia continua di non adeguamento alle omologazioni del pensiero.
Di tali contrasti e cambiamenti in quella fase degli anni Sessanta non avevo un chiaro discernimento. Ero anch’io investito dalla rivoluzione in atto e non potevo tirarmi fuori. Sentivo che era importate vivere le realtà esistenziali e semplici del quotidiano, però interrogandole, cogliendone oscurità e luci, senza abbandonarmi dogmaticamente alle tendenze dominanti, come anche larga parte del mondo artistico stava invece facendo e ancora fa.
-Il contrasto fra oscurità e luce, tra oscurità e bellezza torna infatti anche nel titolo del tuo saggio.
R: Dopo lo sfacelo e le distruzioni della guerra, lo sviluppo economico italiano e la scelta di perseguirlo in contesti di libertà fu effettivamente miracoloso e importante, ma dalla metà degli anni ’60 i primi segnali di squilibri ecologici, sociali, estetici e morali cominciavano ad emergere. Ero un adolescente, ma ricordo con particolare emozione l’alluvione di Firenze del 1966: uno tra i vari segnali, che la società non ha colto per tempo, dei probabili disastri favoriti dalla rapida perdita del senso della misura e dei limiti sia delle risorse umane che naturali.
Eppure già dai primi del Novecento (se non vogliamo tornare a opere ancora più precoci, come L’urlo di Munch del 1893, che infatti cito nel mio scritto) la narrativa, la poesia, la drammaturgia, la musica, il cinema, i tanti movimenti artistici espressionisti e d’avanguardia avevano avvertito la presenza di simili pericoli, manifestato il loro disagio e la presenza di un crescente vuoto esistenziale.
-Come si riflette il quadro che hai tracciato nel tuo scritto?
R: Non ho dipinto un quadro, se mai ho fatto uno schizzo. Né sono un sociologo o uno storico. Ho guardato ai miei ricordi, ho ripensato ai miei lavori, ai miei percorsi e ai fenomeni del mondo esterno. Naturalmente ho prestato attenzione anche alle esperienze raccontate da Lucariello. Ma il mio scritto non ha un taglio biografico e non attiene ai contenuti musicali di quelle produzioni. Ho guardato a quei vissuti e a quei brani soprattutto in quanto artefatti.
-Cosa intendi quando dici di aver guardato «a quei vissuti e a quei brani in quanto artefatti»?
R: Tutte le cose che gli uomini creano sono artefatti, enti fatti-ad-arte. Arte, in questo caso, nel significato del termine greco τέχνη (tèchne). Dunque cose, creazioni non solo artistiche, materiali o immateriali, fatte secondo una regola, una progettualità, un’idea.
Queste realtà create dall’uomo sono in un certo senso “esseri intermedi” tra il mondo vivente e quello non vivente. Studi come quelli di Paolo Inghilleri[1] mostrano che, al di là della loro utilizzabilità, gli artefatti da un lato contengono sempre informazioni, significati, valori o dis-valori che essi “assorbono” da noi che li realizziamo, anche se spesso di questo non siamo consapevoli. Chi ad esempio ha cementificato male tanta parte del nostro territorio, vi ha lasciato impresso il marchio del proprio disvalore. E ha creato anche effetti di amplificazione; perché gli artefatti non solo assorbono, ma anche rilanciano nella società questi contenuti (positivi o negativi) favorendo modalità di comportamento. Gli artefatti incidono pertanto sui processi tanto psicologici che pratici.Non è dunque un caso che lo psicologo James Hillman abbia scritto che «siamo malati nel cuore perché siamo malati nelle cose».
Si dovrebbe prestare molta attenzione non solo a come si progetta e si agisce, ma anche alle ricchezze o alle bruttezze che gli artefatti testimoniano. Farlo con grande studio, responsabilità e cura per averne coscienza il più possibile.
-Questo vale anche per gli oggetti di design, per opere d’architettura, di musica, di cinematografia, per la pittura, per i beni culturali in genere…
R: Di certo. Anche un’opera d’arte o d’artigianato vive solo se rimane accesa la nostra capacità di “leggerla”, di amarla, di comprenderla. Bisogna saper interrogare l’antichità, non mummificarla, e da un simile dialogo possono sgorgare opere inedite e sensate. Penso che sia disastroso ignorare tutto questo e strumentalizzare l’arte (di oggi e del passato) per fini prevalentemente commerciali. Ecco, io ho cecato di cogliere negli artefatti – pensati e realizzati da Lucariello, Facchinetti, D’Orazio, Fogli, Battaglia, Canzian, Negrini e gli altri collaboratori – qualcosa della loro umanità e del più ampio contesto in cui erano inseriti, negli aspetti belli e in quelli negativi. Tutto questo non in modo esauriente e con analisi storiche o di scienze sociali o altro, come ho detto, ma scorgendo in essi riverberazioni, segnalando analogie con momenti e motivi offerti da altri contesti, di pensiero e vita, dalla pittura, da vari tipi di musica, dalla poesia… quali si sono presentati alla mia coscienza, dal passato soprattutto novecentesco, all’oggi. Un modo non nostalgico per riflettere su alcuni aspetti della realtà che ognuno di noi, dal proprio singolare punto di vista, ha vissuto e che oggi vive. Penso sia un aiuto per immaginare altri scenari possibili.
-Il tuo saggio come si rapporta agli altri scritti della pubblicazione?
R: Con una metafora musicale, potrei dire che questo libro si avvicina nella sua struttura a una forma-sonata: all’esposizione dei temi di Lucariello segue uno sviluppo con variazioni, modificazioni, interferenze, cambi di tonalità apportati dagli autori degli altri scritti. Manca tuttavia la ripresa finale come conclusione circolare e ri-equilibrante delle varie linee tematiche; anche perché come ho detto il mio as/saggio non intende chiudere ed esaurire la storia, se mai aprirla.
Una simile configurazione può risultare non gradita, incoerente, o poco… circo/scritta. Eppure è proprio tale diversità di registri, una simile varietà di livelli e di prospettive differenti; è proprio questo prismatico intreccio complesso e non lineare che costituisce a mio parere uno dei suoi aspetti più originali e apprezzabili.
-A questo punto qualche… assaggio da Musica e arte, oscurità e bellezza nel mondo contemporaneo di Marcello Aitiani. Solo pochi frammenti, quasi epigrafi tratte dai cinque paragrafi che lo compongono: Visioni, L’incanto della bellezza, Il tempo migliore, Musica da vedere, Immaginando altre musiche.
Brani arricchiti, solo per la nostra rivista, da riproduzioni di opere di Aitiani di vari anni, nelle fotografie di Bruno Bruchi.
Queste immagini non sono illustrazioni del testo, piuttosto un suo ampliamento visivo, risonanze meta-testuali in linea con la poetica che lo contraddistingue.
Visioni
Nell’incubo di un dormiveglia opprimente, ho incontrato negli anni Venti del secolo scorso il poeta Thomas Stearns Eliot, che scriveva incurvato su fogli sparsi.
Da sopra ho sbirciato
Siamo gli uomini vuoti / Siamo gli uomini impagliati
Che appoggiano l’un l’altro / La testa piena di paglia. Ahimè! / Le nostre voci secche, quando noi / Insieme mormoriamo / Sono quiete e senza senso / Come vento nell’erba rinsecchita
[…]
È questo il modo in cui finisce il mondo / È questo il modo in cui finisce il mondo / È questo il modo in cui finisce il mondo / Non con uno schianto ma con un piagnucolio[2]
E intanto lontano ruotavano nell’aria una voce e suoni ipnotici dei Doors, vuoti, neri, con improvvisi bagliori di fiamma:
Questa è la fine / Amica bella / Questa è la fine / Mia unica amica, la fine…[3]
[…]
L’incanto della bellezza
… quest’armonia è stata in parte dimenticata in questa società, spesso in-sensibile «come un paziente eterizzato disteso su una tavola»[4]; è sconosciuta a quanti vivono prigionieri della quantità e non si curano della qualità; è invisibile a un’economia e a una tecnologia al servizio di se stesse e non degli uomini, a una scienza riduzionista che ignora le interconnessioni complesse tra i saperi che sono alla base anche di un’autentica ecologia integrale; incomprensibile a quegli operatori scientifici e a quei tecnologi che, come scriveva Leonardo nel suo Trattato della pittura, si occupano solo «della quantità continua e discontinua, ma della qualità non si travagliano, la quale è bellezza delle opere della natura ed ornamento del mondo»[5].
[…]
Il tempo migliore
Esistiamo nell’incessante alternarsi di opposti e le varie arti – la musica, la pittura, la poesia… – ne riflettono il ritmo. Viviamo nel flusso di chrònos, del tempo che inesorabile scorre divorando istanti e giorni, come il dio Krònos i suoi figli, secondo il racconto del mito greco.
Accade allora, talvolta, che si accenda in noi il desiderio di sentire, nel pulsante svolgimento inarrestabile del tempo, una sorta di musica infinita; in lei polarità e dinamismo ritmico si trascendono, senza annullarsi, in qualcosa di permanente. Siamo rapiti in una immota-mobilità. Una totalità che è propria del tempo aionico, secondo i termini del Timeo platonico:
Leggo ne La danza di Henri Matisse, il rito d’omaggio a quest’intima unità nella diversità, al divenire del tempo e, insieme, all’eterno. Nella pittura le linee che definiscono le cinque figure che danzano con le mani intrecciate sono curvilinee e dinamiche. Esprimono gioia di movimento e ritmo. Ma sono incastonate, fissate nella superficie dell’opera come in una tarsia. Figure e sfondo appaiono sullo stesso piano, nell’equilibrio di vuoti e pieni. I cinque personaggi sono di un rosso-arancio bilanciato perfettamente col verde (la terra) e l’azzurro cupo (il cielo). Secondo le armonie del colore, è un accordo stabile e forte, come quello di un Do Maggiore. Il blu cosmico, che occupa pressappoco i tre quarti del dipinto, aggiunge un senso di assoluto, non astratto e inerte, però, ma vivo e palpitante nelle sue variazioni tonali.
Questa pittura non esprime una violenza selvaggia, come a volte si dice, ma un gioioso e saldo equilibrio attivo […]; la danza a mani intrecciate di chrònos e aiòn, del tempo e, insieme, di una superiore unità permanente.
[…]
Musica da vedere
… ho trovato interessante e significativo quanto Giancarlo Lucariello racconta sulle sue “partiture visive”, preparate per il fonico Gualtiero Berlinghini. Memore dei suoi trascorsi di studente del liceo artistico, allievo di Afro Basaldella, notevole pittore dell’informale italiano, aveva intuito che per esprimere la sua idea musicale non poteva utilizzare i segni e le grafie delle tradizionali partiture; era necessario mostrargli con disegni e colori quali fossero le sue aspettative in relazione a parametri di profondità spaziale, di echi e riverberi. Elementi riguardanti il suono – al di là di altezze, ritmi, dinamiche, tonalità, etc.– da implementare con le possibilità uniche offerte dalle nuove tecnologie di registrazione.
Possono essere molti gli esempi di somiglianze, almeno “di superficie”, con partiture contemporanee […]; un tipo di corrispondenza visiva tra suono e segno studiata e praticata da molti musicisti e teorici tra i quali, ad esempio, Karlheinz Stockhausen o Domenico Guaccero. […] Si tratta di partiture realizzate con grafismi, ideogrammi, colori; segni vari, insomma, fatti per essere anche solo guardati, come un disegno o come un quadro»[6].
[…]
Immaginando altre musiche
… L’uomo è anche creatore di miti, visioni e sogni che, intrecciati alla realtà, in un certo senso la trasformano. Per la scienza stessa, osservano Silvano Tagliagambe e Angelo Malinconico da una prospettiva quantistica:
«siamo noi a organizzare e a strutturare l’ambiente in cui viviamo. […] Il che significa che più che porre domande direttamente alla natura, come riteneva la fisica classica, e prendere atto delle sue risposte, ci confrontiamo con l’interazione tra la mente e la natura. Questa interazione produce continuamente nuovi scenari, in tutte le direzioni e su tutte le scale»[7].
Per il filosofo e sociologo Edgar Morin l’industria culturale non può esser vista soltanto come una macchina per guadagni o condizionamenti ideologici. […] Per questo la stessa industria culturale non può fare a meno della cultura “classica”. Togliamola e crollerà anche l’altra e il contesto sociale tutto. […]
Scrive Mauro Ceruti :
«È in questo orizzonte che può delinearsi un nuovo umanesimo planetario prodotto dalla coscienza della comunità di destino che lega ormai tutti gli esseri umani e tutti i popoli del pianeta, e che lega l’umanità intera alla Terra»[8].
[…]
Ciò che ha fatto, e ciò che scrive Giancarlo Lucariello nella “confessione autobiografica” di questa pubblicazione, manifesta la forza dell’immagine, esprime l’incanto provocato in lui da alcune opere filmiche. E fa capire come un’arte possa produrre effetti sull’altra, e come sia importante «reintegrare l’immaginario nella realtà dell’uomo».
[…]
«… tre generazioni fotografate insieme con un occhio ai ritratti classici del passato che tanto amava Visconti e che Giancarlo Lucariello aveva immaginato in anticipo, proiettandole nella sua mente e descrivendole a tutti noi della troupe con grande cura ed attenzione…».
Mauro Balletti, autore delle fotografie dell’album Un po’ del nostro tempo migliore del 1975, in Giancarlo Lucariello, Baldini+Castoldi, Milano 2021, p. 79-80.
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