di Giorgia TERRINONI
“Io detesto i messaggi, quello che mi eccita come artista sono le provocazioni e quello che m’interessa sono i miti, le fedi, le credenze. Tutto ciò che è vago e non perfettamente logico. Ovvero: tutto ciò che non è messaggio” (Damien Hirst).
Pharmacy ingloba altri lavori precedentemente avviati da Hirst. Questi sono fisicamente assenti nell’opera, eppure presenti. Le finestre della stanza hanno dei fori rotondi realizzati per consentire agli insetti – in primis, alle mosche (A Thousand Years, 1990) e alle farfalle (In and Out of Love, 1991) – di entrare agevolmente all’interno. L’espediente è teso a favorire uno scambio osmotico, in positivo e in negativo, tra interno ed esterno. È la ricerca di una qualche forma di equilibrio tra la vita e la morte. Dal 1986 e fino al 2011, l’artista ha avviato la produzione in serie degli spot paintings, accattivanti dipinti puntinati di svariate dimensioni. Ogni spot painting ha per titolo il nome di sostanze chimiche usate a scopo farmacologico (ad esempio, 6 – Bromo – 4 – Cyclohexene – 1,2,3 – Triol del 1996).
Pharmacy ingloba anche opere di altri artisti. Hirst avrà pure avuto la tipica fama britannica del bad boy, nato a Bristol, cresciuto a Leeds da madre sola, tutto droghe, alcool e violenza. Ma è pur vero che ha studiato in un’università che eccelle in fatto di arte e che l’arte la conosce davvero bene. E non solo la sua. Ecco allora che tra gli armadietti installati alla Cohen Gallery compaiono niente meno che i sofisticati fantasmi di Marcel Duchamp e Joseph Cornell. Uno dei primi ready-made di Duchamp s’intitola appunto Pharmacy (1914). Si tratta di una riproduzione mediocre e anonima di un paesaggio invernale, sulla quale Duchamp ha dipinto due piccoli tocchi, uno rosso e l’altro giallo, all’orizzonte. I due tocchi di colore sono due personaggi inanimati, l’evocazione fantasmatica delle ampolle da farmacia esposte nelle vetrine francesi in quegli anni.
Anche una decina di boxes di Joseph Cornell, realizzate tutte tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta, rinviano al mondo della farmacia. Nelle scatole invecchiate ad arte con metodi da falsario, l’artista americano allinea identiche bottigliette di vetro contenenti misteriosi cimeli, quei feticci personali che faranno girare la testa anche a Robert Rauschenberg. Ora, io non ho dubbi sul fatto che Hirst conoscesse bene questi lavori e che li abbia suggeriti con un certo autocompiacimento!
Egli ha osservato che le farmacie sono luoghi che ispirano fiducia. Contrariamente all’ospedale che evoca troppo direttamente la malattia e, quindi, la possibilità della morte, la farmacia, nel suo immaginario, flirta con le pratiche magiche. Da qui l’idea di Pharmacy. Non è un caso che, quando nel 1998, Hirst inaugura il ristorante Pharmacy nel quartiere di Notthing Hill a Londra, le persone fanno carte false per entrare. Chiuso nel 2004, questo locale molto cool ha recentemente riaperto i battenti in un’altra sede londinese, sotto la guida dello chef Mark Hix.
Potete anche chiamarlo business, ma bisogna che riconosciate al lavoro di Hirst lo statuto di arte. Che vi piaccia o meno non fa differenza. L’arte non è questione di buono o cattivo gusto. Francis Bacon, artista – feticcio di Hirst, ha riconosciuto nel giovane britannico del talento vero. Hirst è un artista autentico. E dai tempi ormai remoti di Freeze – la mostra che organizzò quando era ancora uno studente del Goldsmiths College di Londra – alla chiacchieratissima Treasures from the Wreck of the Unbelievable – la mostra – evento inaugurata lo scorso 9 aprile che si dipana tra Palazzo Grassi e Punta della Dogana a Venezia – il suo lavoro è caratterizzato da una coerenza e una continuità sorprendenti.
Mi sono dilungata su Pharmacy perché è un’opera – progetto che ha molto a che fare con tutto il lavoro di Hirst. Con quello che la precede e con quello che è venuto dopo. Treasures from the Wreck of the Unbelievable non fa eccezione. Hirst non è mai stato parco di parole, una forte dimensione narrativa attraversa tutto il suo percorso. Il racconto e l’aneddoto, se da un lato contribuiscono alla creazione di una mitologia personale, dall’altro rimpolpano l’opera e le forniscono un’apparente chiave di lettura. Basta guardare ai titoli. Egli ha in odio la tendenza astratto – minimale d’indicare ogni opera con la dicitura Senza titolo, eventualmente seguita da numeri sequenziali. I suoi titoli sono ridondanti, iniziano a una comprensione immediata e, allo stesso tempo, lasciano perplessi.
Si prenda The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living (1991). Si tratta del celebre squalo in formaldeide. Lo squalo si è fatto e disfatto negli anni – la tecnica di conservazione ideata dall’artista non ha retto nel tempo – ma il titolo è rimasto. E con esso l’idea. Lo squalo rende evidente che questo genere di opere non si limita a incarnare una macabra provocazione, ma batte il chiodo sull’irrappresentabile. Sulla morte, ossessione per eccellenza della cultura occidentale. Siamo ossessionati dalla morte anche perché, nel corso del tempo, complici i due conflitti mondiali, abbiamo perso il contatto fisico e visivo con essa.
La morte non è più percepita come un evento naturale, benché traumatico. È una tragedia. E, perdendo il contatto con essa, abbiamo perso anche la capacità di figurarcela, di rappresentarcela. In epoca rinascimentale, gli artisti guardavano ai cadaveri come a una risorsa preziosa, perché consentiva loro di studiare da vicino l’anatomia umana. La conoscenza diretta del corpo ha reso potenti tante opere che ancora oggi guardiamo con ammirazione. Ma, già Caravaggio fu punito per aver rappresentato nella Vergine i tratti fisici della morte. Molti secoli dopo, Damien Hirst e Maurizio Cattelan – entrambi hanno lavorato in un obitorio – restituiranno dignità alla rappresentazione della morte (si pensi ai bambini impiccati installati da Cattelan in Piazza XXIV Maggio a Milano nel 2004).
Tutta la serie di aneddoti raccontati a corredo dello squalo – dalla sua cattura all’imprevista putrefazione – non costituiscono solo una trovata pubblicitaria o l’atteggiarsi a megalomane di un milionario annoiato. Sono anche un di più, una rappresentazione ulteriore, un’incarnazione della morte.
Anche per Treasures from the Wreck of the Unbelievable Hirst ha edificato una solida impalcatura narrativa. L’incipit dell’opera coincide con il fiabesco C’era una volta…
Pare che 2008, al largo della costa orientale dell’Africa, sia stato rinvenuto un vasto sito con il relitto di una nave naufragata. Il ritrovamento ha avallato la leggenda di Cif Amotan II, un liberto di Antiochia, vissuto tra la metà del I e l’inizio del II secolo dopo Cristo. Dopo essersi affrancato, Amotan accumulò un’immensa fortuna e diede vita a una sontuosa collezione di oggetti provenienti da tutto il mondo. I suoi leggendari cento tesori furono caricati sulla gigantesca nave Apistos (l’Incredibile) per essere trasportati in un tempio. Ma l’imbarcazione affondò, consegnando il tesoro alla sfera del mito e generando così infinite varianti di questa storia d’ambizione, avarizia, splendore e ybris. Questo, più o meno, l’antefatto.
Quasi duemila anni dopo, l’ossessivo Damien Hirst riporta alla luce i tesori dell’Incredibile e organizza una mostra, intitolata Treasures from the Wreck of the Unbelievable, che è quasi un museo dell’archeologia fantastica, una libera riscrittura del mito di Atlantide.
Centinaia le opere in mostra, molte delle quali ancora ricoperte di coralli e altre concrezioni marine. Ci sono opere minute ed estremamente preziose – per lo più monete e monili – come gli scorpioni in oro tempestati di zaffiri e rubini; altre opere, come i complessi scultorei che immortalano leggende ed eroi, sono imponenti e invadono pesantemente gli spazi di Palazzo Grassi. È il caso del colosso acefalo alto 18 metri che accoglie lo spettatore nell’atrio. La sua testa, che ricorda un orco della saga Il Signore degli Anelli, è rotolata nella stanza accanto. Divinità arcaiche e teste di Medusa condividono lo spazio con mostri che sembrano usciti da un fumetto o con un bronzo di Mickey Mouse.
A partire da queste incongruenze temporali, Treasures from the Wreck of the Unbelievable mette in scena una serie numerosa di dicotomie e le costringe a coesistere: realtà e illusione, verità e bugia, scienza e magia, ragione e fede, storia e fantasia, genio e follia, collezionismo e mania…
L’avventuriero/marinaio/archeologo/sommozzatore/collezionista folle Damien Hirst sembra chiedere allo spettatore di sentirsi libero di praticare un rimescolamento all’interno di queste dicotomie – che poi sono alcune tra le categorie che fondano l’umanesimo occidentale. Sembra chiedergli di sospendere il giudizio, di giocare e di CREDERE! Dove credere non significa abdicare alla ragione, significa invece farla convivere con l’immaginazione. Hirst mette lo spettatore a proprio agio, lo cala nel mare, perché “il mare è un mondo a parte. È il liquido amniotico del pianeta. Un mondo dove non esiste denaro, né moneta, né scambio di merci, ma dove ancora possiamo trovare tesori. Paura, speranza, sogni, miti, leggende, eroi…è tutto in fondo al mare insieme a Ulisse, alle sirene, al mostro Leviatano”.
È possibile che mi sbagli, ma a me pare che Treasures from the Wreck of the Unbelievable non sia una mera trovata commerciale volta a risollevare le sorti di un artista in caduta libera, di un Hirst ormai finito. I suoi detrattori lo considerano un artista finito ormai dal lontano 2007, anno in cui fece la sua apparizione il discusso For the Love of God, un teschio umano fuso in platino e ricoperto da 8.601 diamanti, il cui valore commerciale si aggirava sui cinquanta milioni di sterline. Inoltre l’anno seguente, esattamente lo stesso giorno del crack della Lehman Brothers, Sotheby’s mandò in asta un’intera mostra di Hirst, scavalcando il ruolo di gallerie e art dealers. Quest’operazione, pur avendo fruttato all’artista la somma record di 111 milioni di sterline e pur avendo rilanciato le quotazioni della casa d’aste, lo renderà particolarmente inviso a determinati settori del mercato dell’arte.
Certo, c’è da comprenderli questi settori!
Non è necessario arrivare a For the Love of God per capire che il lavoro di Hirst ha da sempre a che fare con il lusso e con una dimensione del collezionismo al limite della mania. Quanto denaro immaginate che possa essere girato intorno a The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living? In un interessante testo del 2008, intitolato Lo squalo da 12 milioni di dollari, l’economista inglese Donald Thompson usa lo squalo di Hirst proprio per spiegare la bizzarra economia dell’arte contemporanea. L’ascesa di Hirst, negli anni novanta, è saldamente legata alla figura di Charles Saatchi. Nel decennio successivo, il ruolo di Saatchi sarà assunto da Larry Gagosian. E quello di Gagosian, poi, François Pinault. Dallo squalo ai cento tesori di Amotan, passando per Pharmacy e il teschio di diamanti, il lavoro di Hirst mostra un’evidente continuità nei temi e nelle relazioni con il mercato e il collezionismo, quasi una circolarità. Bisogna essere piuttosto miopi per non accorgersene!
Mi pare che la demonizzazione del lavoro di Hirst abbia a che fare con una questione di gusto. Ma l’arte non è una questione di gusto. È indubbio che For the Love of God sia macabra, kitsch, di cattivo gusto. Il fatto che la maggior parte delle opere di Hirst siano macabre, kitsch e di cattivo gusto non nega comunque loro lo statuto di arte!