di Giulia GHILARDI
Giulia Ghilardi, nata a Bergamo, è una giovane storica dell’arte laureata prima in legislazione dei beni culturali e poi in arte medievale magistrale presso la Universita Statale di Milano, con una tesi su I mosaici della basilica di Santa Prassede in Roma, indagandone gli aspetti iconografici e iconologici. Attualmente sta proseguendo gli studi con la Scuola di Specializzazione in beni storico-artistici presso la stessa Università, approfondendo le ceramiche mediobizantine. Con questo articolo inizia la sua collaborazione con About Art.”
Ricordato come il Vasari napoletano, l’artista e letterato Bernardo De Dominici colmò di indefesse osservazioni l’abisso critico-letterario che pendeva sulla pittura napoletana tra il Medioevo e l’età moderna, con le celebri Vite.
Date alle stampe in un lasso di tempo compreso tra il 1742 e il 1745, queste biografie – nome completo Vite De’ Pittori, Scultori, Architetti Napoletani Non mai date alla luce da Autore alcuno Dedicate Agli Eccellentiss. Signori, Eletti Della Fedelissima Città Di Napoli – consegnarono all’erudito la palma di commentatore indispensabile e inestinguibile, al pari di quanto era accaduto con il conte Malvasia a Bologna, con il geniale Bellori e infine con Baldinucci accademico della Crusca. Pur altalenante tra cieca fiducia, stroncature e successive riconferme, l’opera del De Dominici ribadisce, nelle sue pagine dense di rimandi e dettagliate perle di curiosità, il ruolo di prim’ordine rivestito da molteplici artisti moderni, come De Matteis, Solimena, Giordano e Vaccaro, senza dimenticare la scottante attrazione emanata da Onofrio Loth, Gaetano Cusati, Giovan Battista Ruoppolo, Giacinto e Domenico Brandi, Nicola Maria Rossi e Michele Pagano (A. Zezza, Bernardo De Dominici e le vite degli artisti napoletani, Milano 2017, pp. 7-21).
Eppure fu all’ambizioso Luca Giordano (Napoli 1634-1705), padre putativo di buona parte della generazione pittorica successiva, che il De Dominici consacrò con insistito spazio entro i tomi della sua bibliografia. Protagonista acclamato della seconda parte del secolo d’oro secentesco, Giordano seminò, tra Venezia, la Spagna e la città dei de’ Medici, una qualità pittorica così smisurata da attirare pittori del calibro di Giovan Lionardo Pinto, Tommaso Fasano, Giovan Tommaso Giaquinto, Pietro di Martino, Filippo Ceppaluni, Onofrio Avellino, Alberto Arnone, Giovan Battista Lama e Nunzio Ferrajuoli. Il De Dominici aveva già immortalato, tra il 1725 e l’anno immediatamente successivo, le principali linee di sviluppo per una biografia del Giordano, spedendo a Firenze una coppia di piccoli manoscritti contenenti il frutto delle sue ricerche (B. De Dominici, Vite, ed. commentata a cura di F. Sricchia Santoro e A. Zezza, Napoli 2017, pp. 746-753).
Fermamente convinto della genialità di Luca Giordano, Roberto Longhi riconobbe per primo che per intenderne i virtuosismi barocchi non occorresse vagliare quel mezzo secolo di arte meridionale a lui precedente, anzi: l’irripetibilità delle soluzioni giordanesche, sfuggenti e sdoganate da qualsiasi debito formale preesistente, collocavano l’artista su un piano di perfetta originalità accademica.
Quasi che fosse una perfetta ombra, Nicola Rossi suo allievo ne riprese l’estro accattivante e acceso, confermando nei propri dipinti a soggetti pastorale quella linea interpretativa napoletana in aperta opposizione all’ancora scoppiettante vena veneziana (Roberto Longhi, Recensione a E. Petraccone, Luca Giordano ecc., “L’Arte”, XXIII, 1920, pp. 92-95). Che il giordanismo, anche nei soggetti prediletti delle commoventi scene bucoliche, fosse un’eredità tanto spirituale che figurativa, era evidente anche agli acerbi praticanti del contesto napoletano: il fatto stesso che Giordano incoraggiasse la sperimentazione degli allievi dal verso della sicura ala riparatrice dei propri disegni ne confessa l’intelligenza e la massima apertura verso ogni esperienza stilistica. La bottega del maestro insomma
“più che un cenacolo dovette essere fin dall’inizio un cantiere di tipo medievale nel quale l’invenzione del maestro trapassava spesso nelle mani degli aiutanti” (Oreste Ferrari, Giuseppe Scavizzi, Luca Giordano, vol. I, Testo, Napoli 1966, p. 207).
Ertosi quindi ad allievo di Luca Giordano, sappiamo che il Rossi (alternativamente pronunciato anche come Rosso o Russo) morì, come immancabilmente testimonia il De Domici, “dimorando… nelle Spagne il maestro” (Bernardo de Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, IV, Napoli 1846, pp. 198-200). Considerando che il Giordano aveva trascorso in Spagna una decina di anni, dal 1692 al 1702, impegnato nelle vesti di amatissimo pittore di corte presso il Monastero dell’Escorial, Palazzo Reale, Palazzo di Aranjuez a Toledo ed entro la Chiesa di San Antonio de los Alemanes a Madrid, è possibile ipotizzare come data papabile per la scomparsa del Rossi l’anno 1700. A conti fatti, a catalogo per così dire concluso, divenne lampante che il Rossi avesse quasi battuto il Giordano nella resa dei pacifici animali, tanto che molti dipinti dell’alunno avrebbero continuato, in tempi successivi, ad essere attribuiti al maestro.
Più che lo scultoreo bagliore, Nicola Rossi raccolse del maestro l’impaginazione su più livelli narrativi, condotta con una pennellata molto pacata, in linea con i disciolti dettami napoletani secenteschi che ricorrono anche nel Miracolo di Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia del collega Scipione Compagno (Museo Camòn Aznar). Similmente enucleò poi lo stesso Giordano nella Santa Maria Egiziaca nel deserto della Chiesa di Santa Maria Egiziaca a Forcella (1702) e nelle Nozze di Cana della Chiesa di Santa Maria Donnaregina Nuova (1705).
Un inedito dipinto di Nicola Rossi, esposto presso la galleria milanese di Ars Antiqua (via Pisacane, n. 55-57) organizza una piccola carovana in cullante avanzare, mentre alcune donne sono intente a bivaccare nella radura e, poco sopra, alcuni pastori si affrettano a trovare lo sperato riposo sul podio di un’antica statua classica.
Una commovente cornice di giovenche e pecore, appena scottate dal sole del tardo pomeriggio, tampona di una dolce quietezza la scena, rinfrescata dalla frusciante vegetazione.
A rimarcare la paternità, le auliche dimensioni della tela (205 x 295 cm) accompagnano la firma in basso a sinistra accademica dell’artista, NRosso F.
Nella scelta figurativa dei personaggi rappresentati, il dipinto si accosta ancora una volta al lessico giordanesco, denunciandone la comunanza ideativa in bottega e la straordinaria capacità espressiva dei soggetti scelti. Donne, pastorelli e viandanti rossiani si accostano insomma al frusciare di vesti e al moltiplicarsi di relazioni della Rappresentazione mitologica dell’agricoltura del Giordano (Londra, National Gallery).
Caso volle che questo sincero interesse, tramutatosi in gradito incoraggiamento da parte del Giordano, avvenisse allora per il soffitto della cappella di Palazzo Reale e per la decorazione di ben due chiese, quella di Santo Spirito di Palazzo e di San Domenico Soriano. L’alba artistica del Rossi rosseggiò poi, maturando, nell’esecuzione di due pale e un affresco per la volta della chiesa della Maddalena, nel 1685. L’artista si concentrò quindi all’indaffarata commessa presso la cappella del Crocifisso in San Giacomo degli Spagnoli e, infine, al soddisfacimento della richiesta per la volta della cappella Rosario entro la chiesa della Pietà dei Turchini. Quando fu il turno del cantiere afferente la volta sopra il coro e la tribuna della graziosa San Diego di Alcalà, detta Ospedaletto dei Frati Minori dell’Osservanza, il Rossi inaugurò un impegno di famiglia: dopo di lui, fu attivo alla tribuna il di lui cognato Gaetano Brandi, padre di Domenico nato nel 1633, come ben sottolineato dal De Dominici (“nella quale Gaetano Brandi suo cognato vi fece l’architettura”, p. 199) persino nella sezione “Notizie di Gennaro Greco, Gaetano Martoriello…”, p. 361 ss, in cui si dice che Gaetano dipinse l’architettura nel coro, mentre Rossi “suo cognato discepolo del Giordano vi fece su piedistallo il Santo quasi in trionfo, con altre belle figure e vari angeli” (p. 373).
Felicemente dedito anche ai soggetti religiosi, Nicola Rossi si distinse in una tela con una trionfante Madonna del Rosario, fervidamente richiesta della Confraternita del Santissimo Rosario di Terlizzi (chiesa di Santa Maria la Nova).
In anni relativamente recenti, una coppia di ricevute di pagamento intestate all’artista ha consentito di documentare sia questo dipinto, realizzato tra il 1717 e il 1718, che un’opera più contenuta nelle dimensioni ma affatto da meno nella resa stilistica, il Padre Eterno (F. De Nicolo, La Madonna del Rosario di Nicola Maria Rossi a Terlizzi, “L’Officina di Efeso”, 2018 (2019), pp. 77-85). Seguitante nello Stendardo per la parrocchiale di San Giuseppe Maggiore, in tempi successivi parzialmente ritoccato da mano ignota, Nicola Rossi eseguì altri tre dipinti per la cappelletta della Madonna del Tirone, dove si venerava la miracolosa immagine della Vergine. L’artista narrò in pittura episodi di vita mariana e, non contento, ne ritoccò anche la sacra immagine, che “ora vedesi così bella e divota, che accende chiunque la mira di santo amore verso la gran Madre di Dio” (De Dominici, cit. p.199). Al 1690 risalgono invece la Madonna del Rosario in San Domenico Soria e ben quattro tele eseguite per l’abside di San Michele a Procida; seguono quindi l’alternativa occupazione presso le macchine delle Quarant’Ore e sepolcri vari, ai quali il pittore venne indirizzato, assieme al Maltese, dallo stesso Giordano.
Il maestro Giordano orchestrò con assoluta lungimiranza anche un’esposizione in occasione dell’ottava del Corpus. Prevedibilmente il Rossi vi spiccò per la sua collaudata rappresentazione animalistica, mentre altri colleghi ottennero il plauso per differenti soggetti: limitatamente alle fantasie ittiche brillò il naturamorfista Giuseppe Recco; gli stupendi brani fioriti e fruttati furono invece a doppia firma del fiammingo Abraham Brueghel e del partenopeo Giovanni Battista Ruoppolo, mentre Francesco della Questa isolò la vegetazione pullulante nella tela. La particolare devozione alla restituzione di placidi quadrupedi quasi che fossero dei Rosa da Tivoli miniaturizzati, sempre indagati lenticolarmente nel manto e nella suggestiva presenza scenica, fecero in quell’occasione scrivere del Rossi che
“..molto ancora prevalse nel dipingere gli animali, ai quali rivolse tutta la sua applicazione, dopo ch’ebbe veduto quelli dipinti da Luca Giordano, ed esposti nell’ottava del Corpus Domini tra il numero di quattordici pezzi di gran quadri, dipinti in vari generi da valentuomini, per ordine del vicerè marchese del Carpio, e tutti accordati da Luca…Onde fu allora più bella la mostra che fecero questi quadri, che i medesimi quattro altari, che sogliono esser famosi in quella giornata per la magnificenza, e per la copia meravigliosa di argenti” (p. 199).
Campione di scene pastorali gremite, cui si addiziona il descialbo della volta dell’alcova di Maria Amalia di Sassonia in Palazzo Reale di Napoli (A. Porzio, S. Colalucci, Gli affreschi ritrovati di Nicola Maria Rossi nell’alcova di Maria Amalia di Sassonia in Palazzo Reale di Napoli, in Carlo. L’utopia di un regno. Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Napoli – Databenc, 2016, pp. 153-158), Rossi è risultato autore anche di una Fiera Contadina un tempo appartenente alle raccolte del principe Ferdinando de’ Medici.
Collocata presso il municipio di Livorno, la tela è stata sottratta da Elena Fumagalli, com’era prevedibile, al catalogo di Giordano, in seguito alla scoperta della firma originale dell’artista sullo stendardo di sinistra (Elena Fumagalli, Una scena di genere di Nicola Russo, “Dialoghi di Storia dell’Arte”, 1999, 8-9, pp. 146-147).
La nostra conoscenza delle quadrerie napoletane secentesche, avvicinate per una certa misura dal copioso collezionismo di disegni a esse contemporaneo (V. Farina, Collezionismo di disegni a Napoli nel Seicento. Le raccolte di grafica del vicerè VII marchese del Carpio, il ruolo di padre Sebastiano Resta e un inventario inedito di disegni e stampe, in España y Nápoles. Coleccionismo y Mecenazgo virreinales en el Siglo XVIII, Madrid [2006] 2009, pp. 339-362), si fonda sulla fondamentale testimonianza del De Dominici, del Celano e del Capaccio, ma ancor più sugli immancabili fascicoli inventariali, redatti e composti in occasione del trasferimento ereditario.
L’alternanza dei Vicerè, obbligati al cambio ogni tre anni, comportò la mancanza di una corte stabile e con essa l’assenza di qualsiasi influenza collezionistica in campo artistico. Furono personaggi socialmente rilevanti, quali notabili ed esponenti delle alte cariche ecclesiastiche, a dirottare il gusto dei collezionisti più attivi ed avveduti del territorio verso scelti artisti. Il fatto che il nome di Rossi compaia ripetutamente negli inventari napoletani di esponenti di spicco di XVIII secolo consentirebbe pertanto di ipotizzare una sua ben più capillare diffusione nella ragnatela del mercato (Renato Ruotolo, Aspetti del collezionismo napoletano del Seicento, in Civiltà del Seicento a Napoli, Napoli 1984, pp. 41-48). A tal proposito le notizie abbondano:
“(…) due altri quadri di animali e figurine di palmi 3 e 4 di mano di Nicolò Russo colle cornici negre con due stragalli intagliati ed indorati”
nella collezione di Filippo Pisacane marchese di San Leuci (1702);
“tre altri di pecore di un palmo con cornice nera di Nicola Rosso” e “due di Pecore di palmi quattro, e mezzo con cornice nera, ed oro di Nicola Rosso”
del nobile Domenico di Capua (1718), senza considerare le sostituzioni di altri specialisti in natura morta o paesaggio allo stesso Rossi, ingiustamente declassato dai compilatori, come accadde per l’allora raccolta di Guglielmo Ruffi principe di Scilla (1748).
Rossi fu capace di modulare la propria sinfonia pittorica non soltanto sull’esempio di Giordano, ma anche del Solimena: sotto il suo praticantato l’artista maturò il favoritismo del nobile Aloys Thomas Raimund von Harrach, vicerè di Napoli attivo a Vienna su richiesta del marchese di Rofrano Pietro Capace (C. Siracusano, Nicola Maria Rossi e la cultura artistica napoletana del primo Settecento, «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Messina», IV, 1980, pp. 49-50). Solimena non seppe però reggere il confronto con Giordano, stringendosi a posteriori in un racconto più accademizzante; Rossi seppe cavare il meglio dall’uno e dall’altro, raccogliendo il classicismo arcadico del Solimena affine a Maratta e all’Arcadia con le effusioni luministiche giordanesche (Ferrari, Scavizzi, cit., pp. 175-186).
Insomma, come ricordato
“la bottega di Luca più che un cenacolo dovette essere fin dall’inizio un cantiere di tipo medievale nel quale l’invenzione del maestro trapassava spesso nelle mani degli aiutanti” (Ivi, p. 207).
Lo stesso Solimena non mancò di aggiornarsi sul maestro, seguito a ruota da De Matteis, Simonelli, Malinconico, Giaquinto, Bardellino e Del Po così da innescare, allo scavalco del secolo, persino un’influenza in territorio veneziano (Ivi, pp. 201-230).
Un’altra tela inedita, stavolta appartenente a Giuseppe Tassone (Roma, 1653 – Napoli, 1737), conferma questa regola. Osservabile ancora una volta presso la galleria milanese di Ars Antiqua, questa Carovana di pastori (cm 130 x 155) affianca la precedente rossiana per composizione e narrazione, strizzando l’occhio a modelli desumibili anche da Salvator Rosa e Philipp Peter Roos.
“Giuseppe Tassone, fu romano, ma per la dimora fatta in Napoli di cinquantaquattro anni, ove alla perfine morì, merita che si faccia menzione di sua virtù, e delle sue belle opere” (De Dominici, cit., 1846, IV, pp. 371-372).
Raggiunto il capoluogo partenopeo attorno ai trent’anni, l’artista raccolse il plauso della critica a lui contemporanea con dipinti eseguiti per celebrazioni religiose, quale la Festa dei Quattro Altari. Ammirato persino dal collega De Matteis, per il quale dipinse diverse tele, Tassone divenne preda assai apprezzata dall’esclusiva nobiltà napoletana. Le due scene di Paesaggio con armenti custodite presso la Pinacoteca del Castello Sforzesco di Milano, si accostano al precedente custodito oggi presso la galleria milanese.
A chiudere il raffronto tra la luminosa pittura di Nicola Rossi e quella pacifica di Giuseppe Tassone, si rammentino le lungimiranti parole del De Dominici:
“Ebbe per concorrente Nicola Rossi discepolo di Luca Giordano, il quale con l’esempio de’ quadri di animali dipinti dal suo eccellente maestro, li colorì ancor egli assai bene, le fisionomie delle vacche, e de’ bovi furon naturalissime, e forse più di quelle dipinte dal Tassone, da cui però fu superato nella morbidezza della lana delle sue pecore, e nella somma naturalezza di esse” (Ibidem).
Giulia GHILARDI, Milano 17 settembre 2023