di Massimo PULINI
Nella chiesa di San Luigi de’ Francesi, Baglione accanto al Merisi
I fatti dei quali si fa cenno si svolsero tre decenni dopo il più clamoroso evento artistico che Roma produsse nel secolo decimosettimo, ma tutto accadde nel medesimo luogo.
La decorazione della cappella Contarelli in san Luigi de’ Francesi, con soli tre dipinti del Merisi, aveva scavalcato il cadavere delle buone Maniere, spazzato via ogni residuo di grazia ipocrita, per aprire un nuovo libro di racconti proprio all’esordio dell’anno giubilare MDC.
Era poi passata una generazione intera, ma concedere uno spazio attiguo, perenne, a colui che il Caravaggio considerava il più detestabile dei colleghi, a suo modo dovette far parlare, muovendo fazioni avverse e ulteriori polemiche tra le estreme fronde del caravaggismo. Tanto più che proprio nella parete accanto il Baglione vi allestì un nostalgico ritorno al secolo precedente.
Lì, precisamente dove trent’anni prima prese nitida forma quel che aveva auspicato il Cardinal Paleotti col suo Discorso intorno alle immagini sacre et profane [i]. Il vero e il sincero erano i due fari di concetto e di sostanza che la storica relazione, scritta dal prelato bolognese addirittura per il Concilio di Trento, indicava e auspicava per il corso riformato dell’arte. Si trattava comunque di teatro, la pittura lo è sempre, ma appunto un teatro del Vero e del Sincero, attraverso quei postulati radicali parlavano le tre grandi tele, le uniche che in quel supporto di stoffa e imprimitura campivano gli altari nella chiesa degli oltremontani.
Tutte le altre cappelle erano infatti affrescate direttamente sulle pareti ed avevano comportato cantieri aperti per lungo tempo. C’è da credere che anche a Caravaggio inizialmente avessero posto le medesime condizioni; lui si rifiutò non tanto di dipingere sul posto e alla vista di tutti, ma di usare la tecnica del fresco [ii],l’amalgama di intonaco e gesso che senza rimedio avrebbe stemperato ogni colore, un procedimento che inevitabilmente sbiadiva qualsiasi ombra per offrire in cambio una secolare durata dell’immagine. Ma quelle immagini, a detta dello stesso Merisi, rischiavano di essere già vecchie in culla e a lui invece importava che le figure e le scene fossero immerse nel liquido sognante della notte. Se gli fosse stata imposta davvero quella tecnica, se il Michelangelo lombardo avesse avuto l’obbligo di fare giorno attorno alla Vocazione (vedi foto 1) o al Martirio dell’Apostolo avrebbe di certo preferito passare la mano a qualche altro pulitore di pennelli. Con quelle tre tele Caravaggio si attestò quale campione della Controriforma [iii], chiamata così anche se comprende buona parte delle critiche che il mondo protestante aveva mosso alla deriva cortigiana dell’arte.
I popoli del nord, francesi inclusi, segnalarono per tempo quel distacco tra la sacralità dei testi e la vacua danza di certo manierismo, più interessato al decoro e alle torsioni del corpo che al significato spirituale delle icone.
E dire che Giovanni Baglione (Roma 1566 – 1643) era stato il primo a entusiasmarsi per quella visione che stagliava le figure facendole uscire dall’ombra, ma dovette anche per primo pentirsi di essere divenuto il più precoce e non gradito seguace del Merisi[iv].
Non serve ricordare nel dettaglio le offese ricevute in strada, il processo per ingiurie del 1603 e lo strascico di derisione che aleggiava nell’ambiente artistico romano. Resta in ogni caso spontaneo, da parte sua, l’aver intuito e compreso la portata di quella rivoluzione pittorica, anche se il cavalier Baglione non riuscì mai a tagliare il cordone con la propria formazione manierista. I suoi attori raggiunsero in quel periodo di inizio Seicento una eleganza elevatissima, anche se mai divennero persone vere e quei suoi algidi Amori che avanzavano dal buio già nel 1601 o nel 1602 (foto 2 e 3), avevano di fatto ancora un piede nei cantieri sistini, nel tardo Cinquecento.
Quelle allegorie alate erano state concepite da Giovanni con principi tutti mentali e a quegli assunti rimasero legate. Non si fecero mai carne viva come gli attori in posa del lombardo o come quelli dei suoi postumi seguaci.
Cionondimeno il carattere di Baglione superò le offese riuscendo a trasformarle in mestiere, ma quando si è costretti a potare una passione, se la controparte non corrisponde, è sempre l’anima a sopportare più difficilmente il taglio, sicché quell’amputazione rimase visibile nel suo spirito per tutti gli anni a venire.
Fu dunque breve l’entusiasmo per il nuovo, eppure gli aveva riservato i fiori più belli e l’aver dovuto repentinamente recedere dal sentiero del naturalismo temperato, gli dovette produrre una frustrazione creativa dalla quale non si riprese facilmente. Facile invece gli fu il lavoro e pure le committenze non difettarono mai alla sua bottega, fornendogli costanti impegni fino alla fine di una lunga vita.
Prima di riprendere quel nero che stagliava le carni, dovette passare del tempo, ma Giovanni vi tornò più di una volta in piena maturità, quando incontrò scene propizie alla notte. Un caso emblematico lo ritroviamo nella chiesa romana dei Santi Cosma e Damiano, nella quale era collocata la sua personale cappella gentilizia, che decorò con una Adorazione dei Magi (foto 4) e una Presentazione al Tempio (foto 5), caratterizzate da forti contrasti tra luce e ombra.
Gli ampi movimenti di folla e gli articolati scenari architettonici, che permettevano scorci di prospettiva e fughe scalene, offrirono il fianco al suo naturale virtuosismo compositivo, ma fu proprio l’ambientazione notturna a stupire, dopo tanti anni da quel processo intentato per querela a Caravaggio.
Chissà cosa dovette pensare Giovanni Baglione quando, per l’appunto negli anni Trenta del Seicento, gli eredi di Edmond Dagny [v] lo chiamarono a decorare la cappella accanto a quella del Merisi? Anche a lui venne da subito proposta la regola dell’affresco o si trattò di una scelta del Cavalier pittore?
Ogni volta che in un saggio di storia dell’arte si pongono simili domande, si avverte una ragione retorica, dato che nella quasi totalità dei casi non appare possibile rispondere. Si dà invece che in questa occasione si possa almeno congetturare uno scenario plausibile, attraverso il riemergere di un documento fondamentale e dirimente. Il documento è di natura progettuale, si tratta infatti di un abbozzo compiuto dall’artista quale modello per quella destinazione pittorica.
Proprio a Roma e presso le aste Babuino qualche mese fa, il 24 febbraio del 2024, è transitato un monocromo dalla grande suggestione espressiva che con pochi colpi di pennello, sopra ad una preparazione color cuoio, immagina la scena di una Adorazione dei Magi (foto 6 e 10).
Il piccolo dipinto, che misura 31 x 46 centimetri, veniva riferito al veronese Marcantonio Bassetti per via di una produzione grafica di questi che talvolta sfrutta contrasti chiaroscurali per restituire, sulla carta, quel che poi il pennello incontrerà sulla pietra nera. Porto, a titolo di esempio, una Presentazione al Tempio del Bassetti (foto 7) che permette un confronto su base compatibile.
Risulta tuttavia evidente che, pur nella similitudine tecnica, si tratti di due stesure e di due stili molto diversi tra loro. Basterebbe guardare le lame taglienti nei tessuti dell’Adorazione dei Magi per comprendere quanto distino dai bozzoli di seta grezza del pittore veneto.
Mentre i caratteri formali dell’Adorazione dei Magi coincidono con quelli di un altro bozzetto conservato all’Harvard Art Museum che, per felice coincidenza, immagina sempre una Presentazione al Tempio (foto 8). Quest’ultima carta porta iscritto sull’angolo superiore sinistro proprio il nome di “Giovanni Baglioni”.
Le pieghe cartacee e tubolari sono le stesse, analoghi gli allungamenti dei corpi e il rapporto, eccedente di proporzione, tra l’ingombro gonfio delle vesti e il volume contenuto delle teste. Ugualmente potente la sintesi chiaroscurale che riduce a un sistema binario le luci e le ombre, scarnificando ogni ruolo intermedio.
Si direbbero davvero gli studi di un caravaggesco di lungo corso, simili a quelli ascrivibili a Tanzio da Varallo o a Orazio Borgianni, e invece testimoniano la più contraddittoria natura del Baglione. Innegabile l’ambientazione notturna che evoca lampi al magnesio e rende quasi drammatico quel che dovrebbe essere un evento festivo.
Presentarsi con siffatto progetto per vincere l’incarico Dagny era come dichiararsi nuovamente naturalista, equivaleva a tracciare la predilezione del supporto in tela e la tecnica dell’olio, le uniche condizioni che avrebbero permesso di ottenere quei risultati ombrosi, ma le cose non andarono in questo modo. Quella invenzione compositiva risultò buona per i committenti, ma ne pretesero la realizzazione diretta sulla parete, chiesero dunque al pittore di non fare nulla che potesse assomigliare alla cappella limitrofa. La famiglia francese che aveva il giuspatronato dell’altare preferiva non venir sospettata di intenti imitativi. Di Caravaggio ce n’era uno solo e per qualcuno poteva bastare e perfino avanzare.
I fatti ci dicono che Giovanni Baglione accettò comunque di portare a termine la commessa, anche se questo comportava uno stravolgimento nella resa finale (foto 9 e 11).
Rispetto alla suggestione drammatica del bozzetto l’affresco derivatone sembra declinare la scena in una intonazione che può dirsi acida. Non solo per le tinte sgargianti delle vesti, per il loro indugio decorativo, ma per le espressioni scanzonate di molti volti presenti nella scena.
L’eterogenesi dei fini è talmente palese che viene da giustificarla con una richiesta esplicita dei committenti[i]. Difficile in ogni caso comprendere le ragioni che spinsero Baglione verso una così scarsa considerazione del confronto che si sarebbe generato, da quel momento in poi, tra il suo feriale affresco e le tre possenti tele che già gli stavano accanto.
Possiamo inoltre immaginare cosa significasse per lui lavorare, durante tutto il periodo di cantiere, gomito a gomito con le opere del Merisi, dovendo sopportare pure l’ascolto dei commenti espressi dai fedeli e dagli intendenti d’arte che in quel lasso di tempo le saranno andate a visitare.
È come se quell’Adorazione dei Magi dipinta sul muro fosse simile a una risata nervosa che svela a noi tutto l’imbarazzo del pittore letterato, mentre l’abbozzo avrebbe potuto benissimo dialogare con il mancato maestro, come un omaggio senza rancori fatto a trent’anni di distanza dal litigio.
In appendice segnalo un altro recente ritrovamento baglionesco che potrebbe aprire un nuovo fronte di ricerca intorno ad un’abside della quale al momento non si aveva memoria.
Presso la galleria di Matteo Giusti a Formigine è conservato un altro abbozzo, di più grandi dimensioni e di più compiuta fattura, che dispiega il vasto progetto di un catino d’altare. Non sappiamo se sia mai stata tradotta in affresco questa Incoronazione della Vergine (foto 13) alla presenza dei giusti del Limbo e di vari angioletti[vii], ma è innegabile che l’autore avesse predisposto ogni cosa, immaginando i più piccoli dettagli, fino alle espressioni di ogni singolo cherubino, agli svolazzi dei cartigli e a un’articolata prospettiva dell’empireo.
Presso il British Museum di Londra ho potuto rintracciare anche un disegno (foto 14) che studia uno dei due gruppi di angioletti posto ai piedi della Immacolata[viii] (foto 15). Non si tratta in effetti di una semplice Incoronazione della Vergine, la composizione prevedeva un labirintico sistema teologico che poneva al centro il dogma dell’Immacolata Concezione e il quesito dei giusti del Limbo.
Nella sua lunga fortuna professionale Giovanni Baglione affrontò diverse volte il tema dell’Immacolata Concezione e proprio al fulcro della volta (foto 16), nella sua già citata cappella gentilizia ai Santi Cosma e Damiano, vi appare proprio una Madonna nella medesima posa a braccia aperte e posta in piedi su di una luna eccezionalmente illuminata.
Massimo PULINI Montiano 30 Giugno 2024
Sono grato all’aperta e spontanea collaborazione di Michele Nicolaci, che in forma indipendente aveva riconosciuto al Baglione il bozzetto dell’Adorazione dei Magi al suo passaggio in asta.
Massimo PULINI Montiano 30 Giugno 2024
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