di Vitaliano TIBERIA
Stampato dalle Edizioni Oratoriane in un’elegante veste editoriale e con accorgimenti tipografici che ne agevolano la lettura, è uscito ai primi di dicembre 2020 l’ultimo libro di Antonella Pampalone, ulteriore, limpida testimonianza di un metodo storiografico fondato sulla filologia.
Il volume, di 571 pagine e con numerosissime riproduzioni di personaggi illustri del tempo, è dedicato al cardinale Niccolò Perrelli (1696-1772) (fig. 1), rampollo di una antica famiglia ducale napoletana, che risiedeva in un prestigioso palazzo in via Toledo ed esercitava il giuspatronato sulla perduta chiesa di Santa Maria a Cappella a Napoli (fig. 2).
In questo libro si pubblicano, fra l’altro, numerose piante inedite, che restituiscono squarci della vita quotidiana a Roma, ma anche le progettazioni di edifici civili o pubblici, come, per esempio, la pianta inedita, del 1759, di Alessandro Dori, delle carceri di Civita Castellana (fig.3),
o di strutture portuali, come le piante del porto di Ancona e di Anzio (figg. 4-6,)
o di altri insediamenti (figg. 7-10),
e ancora Vedute, con architetture laiche e religiose, luoghi urbanistici romani modificati o andati perduti in varie epoche (figg. 11-14, 16).
Franumerosi altri oggetti pubblicati, la Pampalone presenta due monete del pontificato di Benedetto XIV, di cui riparleremo più avanti, che testimoniano l’attenzione del Lambertini ad un tema sociopolitico-economico e morale ancora oggi vivo nel dibattito sul rapporto fra finanza ed economia, che fu molto sentito nell’Europa del Settecento compreso lo Stato Pontificio, al punto che papa Lambertini promulgò un’enciclica, la Vix pervenit, contro l’usura, in cui riconosceva, tuttavia, con realistico possibilismo, la liceità di interessi contenuti nei prestiti di denaro in determinate circostanze (figg. 17-19).
Questo libro è un’opera originalissima, che ricostruisce non un profilo ma la vita, nei minimi particolari, di un personaggio importante nel suo tempo ma in pratica pressoché sconosciuto agli studi storici, delineato lungo un arco temporale di quasi mezzo secolo al servizio di sei papi, con incarichi della massima importanza, dei quali ricordiamo preliminarmente i più significativi. Innocenzo XIII (1721-1724) lo nomina nel 1722, appena ventiseienne, Referendario del Tribunale dell’Apostolica Segnatura di Giustizia e Grazia e Governatore della provincia di Rieti. Da Benedetto XIII (1724-1730) riceve l’incarico di Ponente (era unfunzionario giuridico-amministrativo) della Sacra Consulta e di Presidente della Camera Apostolica, e quindi, lasciato questo incarico, di Prefetto del Chiericato di Camera. Clemente XII (1730-1740) lo fa Presidente delle carceri (una sorta di moderno magistrato di sorveglianza). Benedetto XIV (1740-1758), suo profondo estimatore, gli affida la presidenza della Dogana e della Grascia, una specie di moderno assessorato regionale all’economia e al commercio; lo fa quindi Commissario della Congregazione dei Conti, un Istituto pari ad un moderno organo di revisione dei conti pubblici; incarico questo che attesta la grande fiducia di papa Lambertini in Perrelli, che riceve ancora tre incarichi di vertice economico-finanziario: la Prefettura dell’Annona, la Tesoreria Generale e la Soprintendenza del porto d’Ancona, il suo incarico più prestigioso, che egli detenne per diciotto anni fino alla morte (1772).
In ragione dei suoi meriti, Clemente XIII (1758-1769) lo crea cardinale (1759), mentre da Clemente XIV (1769-1774), di austeri costumi benché poco energico di carattere e privo di esperienza di governo, ma preoccupato per il dissesto delle finanze pontificie, Perrelli, nonostante fosse ormai stanco e ammalato, riceve, per la sua fama di corretto amministratore pubblico, l’incarico di Revisore dei conti, che ricopre dal 1769 fino alla morte sopravvenuta nel 1772.
Questo libro sarebbe stato sicuramente apprezzato da un grande storico del Settecento come Franco Venturi, il quale, analizzando le luci e le poche ombre del pontificato di Benedetto XIV, il grande papa innovatore (forse il più grande pontefice cattolico di ogni epoca), che ricevette da Voltaire la dedica del suo Maometto, lamentava, trattando dei «problemi teorici e pratici dell’economia» con riferimento particolare alla giurisprudenza e all’erudizione, di non saperne di più per mancanza di dati[1].
Ebbene, in questo volume di Antonella Pampalone di notizie ce ne sono a iosa, a documentare i vari aspetti dei nuovi progetti e delle riforme dell’economia, della finanza, del diritto civile e penale nello Stato Pontificio e, anche se in misura minore, dei gusti estetici di Perrelli in rapporto con le mode e le predilezioni artistiche della società del Settecento, un’epoca di grandi incomprensioni e tribolate innovazioni soprattutto per lo Stato della Chiesa. E’ dunque grazie a questo volume, diviso in quattro capitoli e dotato di un amplissimo regesto, di un’appendice documentaria e di apparati riferiti alle fonti archivistiche, a manoscritti ed esemplari a stampa, nonché di una corposa bibliografia, che il pressoché sconosciuto cardinale Perrelli entra con la massima definizione nella storia della Chiesa del XVIII secolo[2].
A questo punto una domanda sorge spontanea: perché un uomo del genere non ha goduto della fama e della considerazione attribuita ad altri cardinali alla moda nel Settecento, così che il suo nome non ricorre costantemente nelle cronache e tanto meno nella storiografia posteriore? Credo che la risposta venga dal suo carattere riservato che si dedicava a servire lo Stato, ma anche a comprendere le esigenze reali della vita quotidiana dei vari strati sociali delle popolazione, soprattutto quelli delle classi più umili, piuttosto che coltivare le occasioni di rappresentanza collegate alla frequentazione narcisistica e utilitaristica dei palazzi dell’aristocrazia e delle sedi diplomatiche; in altre parole Perrelli non fu un abbé de chambre, dedito a costruire una rete di rapporti con vari esponenti del potere laico ed ecclesiastico per ricavarne benefici mondani.
Gli stessi suoi colleghi non dovettero averlo in simpatia, tanto è vero che, sottolinea la Pampalone, nel conclave del 1769, da cui uscì papa Clemente XIV, Perrelli ottenne un solo voto al 152° scrutinio, mentre, in quell’occasione, venne designato, per la sua correttezza nota a tutti, scrutatore, riconoscitore, infermiere e capo d’ordine! Insomma, Perrelli fu soprattutto un vero prete di Cristo, attento alle necessità degli umili, mentre come uomo di governo si distinse per specchiate qualità morali e professionali, che esercitò nei diversi munera pontifici ricoperti durante la sua lunga carriera curiale; un cursus documentato sostanzialmente dal corposo Regesto di questo libro, costituito di schede, ciascuna commentata e dotata di riferimenti alla bibliografia precedente e alle fonti archivistiche, che raccolgono notizie utili per la storia dell’arte ma anche per gli studi sull’economia e la finanza.
Esemplari, in tal senso, sono le schede che illustrano la sua presenza negli organismi amministrativi deputati al controllo delle attività economiche e finanziarie. Sappiamo così che, nel 1739, Perrelli, a quarantatre anni, fu nominato da Clemente XII componente della Congregazione dei Baroni; un’Istituzione voluta da Clemente VIII il 22 giugno 1596, con la bolla Iustitiae, per reprimere le sopraffazioni dei baroni dello Stato Pontificio nei confronti dei loro vassalli e proteggere gli interessi dei creditori dei Luoghi di Monte, che erano i titoli del debito pubblico paragonabili ai moderni BOT e CCT. L’anno successivo, Benedetto XIV, suo estimatore ed amico, gli affidò la presidenza della Dogana e della Grascia, organo di controllo del commercio e di numerose vettovaglie, e, nel 1747, la Prefettura dell’Annona.
Ma per meglio svolgere il suo ufficio di Tesoriere generale, Perrelli dovette seguire attentamente, come, del resto, faceva in tutte le sue attività, anche le dinamiche monetarie nello Stato Pontificio; attestano la sua conoscenza di questo delicato dibattito due pagamenti, da lui emessi, del 14 aprile e del 30 giugno 1756 a Nicola Giansimoni e ad Ottone Hamerani, per il disegno e l’incisione di due monete sul tema della circolazione monetaria che produce abbondanza e agevola il commercio (figg. 17-19).
Perrelli sicuramente aveva letto il Dell’impiego del denaro, del veronese Scipione Maffei (1675-1755), dedicato a Benedetto XIV, a sostegno di un moderato interesse del denaro e in pratica contro l’usura. Un tema questo che Benedetto XIV aveva affrontato, come abbiamo ricordato in precedenza, con l’enciclica Vix pervenit, in cui, condannado l’usura, si ammetteva un moderato interesse nei prestiti in determinate situazioni. Dal canto suo, Perrelli doveva conoscere sullo spinoso argomento pure il Trattato del modo di regolare la moneta, dell’esperto di questioni monetarie Gian Rinaldo Carli (1720-1795), che sosteneva, come risorsa degli Stati, la stabilità delle monete.
L’argomento era molto sentito a Roma, sconvolta da periodiche svalutazioni monetarie e dalla scarsità di denaro in circolazione, circostanze che impoverivano gravemente le classi più deboli. Ed è proprio a Roma che esce, nel 1750, a cura di Giovannantonio Fabrini, un testo sulle monete, di cui era dichiarata la funzione civilizzatrice della società, mentre, l’anno dopo, il marchese banchiere Gerolamo Belloni, stimato da Clemente XII e da Benedetto XIV, pubblicava, ancora a Roma, centro dei suoi interessi finanziari, Sul commercio, uno scritto sugli effetti negativi della svalutazione monetaria.
Perrelli è dunque l’ecclesiastico esemplare e l’onesto amministratore della cosa pubblica, che dimostra quanto socialmente utile possa essere, nei procedimenti penali, civili e amministrativi, il rispetto delle leggi e delle regole se coniugato anticonformisticamente con un’intelligente valutazione delle diverse circostanze da cui scaturiscono i fatti presi in considerazione. Insomma, Perrelli, oltre che praticare doverosamente la virtù cristiana della carità, si disponeva lungo l’indirizzo riformatore moralistico-umanitario del religioso Ludovico Antonio Muratori, il quale, nel 1749, una anno prima di morire, ricapitolava il suo pensiero nel trattato Della pubblica felicità oggetto de’ buoni principi, per cui la virtù del principe si sarebbe dovuta misurare dalla felicità che i sudditi potevano raggiungere[3].
Proprio perché esperto di diritto canonico e civile e quindi della varietà e dei motivi delle infrazioni, Perrelli era anche consapevole delle difficoltà di vita delle classi popolari meno abbienti e di alcune fasce del clero più deboli, essendo stato Presidente della Grascia e della Dogana (1740-1747), Prefetto dell’Annona (1747-1753) ed anche Tesoriere Generale, per cui esaminava un po’ tutti gli atti amministrativi, civili e penali. Ebbene, nel 1759, in forza di queste prerogative, Perrelli, per un verso è inflessibile nei confronti dei ladri del pesce nelle valli di Comacchio, che procuravano gravi danni agli imprenditori locali, con ricadute negative sui pagamenti dei canoni per le concessioni pontificie, mentre assolve religiosi che avevano usato, per soccorrere bisognosi, denaro destinato ad altri scopi, ed anche, «a riflesso di quegli atti caritativi, che debbono usarsi verso i miserabili» (p.21), condona la sanzione comminata per frode sul macinato a quattro persone di Patrica (Frosinone) ridotte in miseria, ma annulla anche, facendo ancora prevalere la carità della vocazione sul rigore della professione, una sanzione amministrativa ad una donna di Poggio Mirteto, la quale, costretta dal bisogno, aveva venduto il sale in un giorno festivo.
Con quest’ultimo provvedimento, Perrelli manifestava, nell’acceso dibattito sull’eccessiva presenza di feste nello Stato Pontificio, la sua posizione progressista dalla parte dei lavoratori, che era poi quella di Benedetto XIV, favorevole alla riduzione del gran numero di giorni festivi (circa tre mesi all’anno!), che, di fatto, rallentavano le dinamiche dell’economia, facendo registrare perdite consistenti soprattutto in danno dei piccoli operatori del mercato. E fu proprio Benedetto XIV, probabilmente consigliato da Perrelli, che sull’argomento si poneva ancora in linea con Ludovico Antonio Muratori, che aveva dedicato al papa il suo trattato Dei difetti della giurisprudenza,[4] e del vivace Scipione Maffei, autore di una Lettera sopra le feste dei gentili, a ridurre negli anni Quaranta, nonostante la contestazione vibrata di parte delle gerarchie ecclesiastiche conservatrici, il numero delle feste religiose.
Il provvedimento di papa Lambertini rientrava nella sua politica di riordino dell’economia e delle finanze pontificie, gravemente dissestate dalle precedenti sconsiderate amministrazioni, soprattutto quella di Benedetto XIII, che tenne al suo servizio un autentico delinquente come il cardinale Niccolò Coscia, di cui riparleremo tra poco, con il risultato che, negli anni Quaranta, Benedetto XIV dovette fare i conti con un debito pubblico di cinquantasei milioni di scudi e un disavanzo annuale di bilancio di centottantamila scudi.[5]
Lambertini, nella sua opera riformatrice, dovette anche misurarsi con le opposizioni alla sua politica da parte di famiglie aristocratiche, di ricchi operatori del commercio e della finanza e perfino di Ordini religiosi; tutte istituzioni che, trascurando l’economia reale, fondata soprattutto sull’agricoltura e sul commercio, investivano nelle rendite dei titoli di Stato, i Luoghi di Monte[6]. Papa Lambertini, potendo contare sui consigli di Perrelli, emise una bolla, Gravissimarum sollicitudinem, che agevolò lo sviluppo di agricoltura, artigianato e commercio, mentre, a seguito di Motu proprio pontificio, il 27 dicembre 1757, aboliva il regime monopolistico del tabacco.
La volontà di Benedetto XIV, degna di un moderno uomo di Stato, mantenuta per tutto il suo pontificato, di liberalizzare la circolazione delle merci (Motu proprio del 29 giugno 1748), in realtà fu fondata solo su ragioni di principio, perché non riuscì, per le opposizioni dianzi descritte, ad abolire i dazi e i pedaggi che ostacolavano soprattutto la libera circolazione delle derrate agricole[7]. Un tema, questo, che godeva del favore degli intellettuali illuminati dello Stato Pontificio. Non casualmente, sull’argomento della facilitazione delle vie del commercio dal nord, in particolare da Orte, nel 1740 uscì a Roma, presso la stamperia di Antonio De Rossi al Pantheon, dedicato a Benedetto XIV, un libbricino a firma del perugino Lione Pascoli, noto storiografo di artisti ma anche studioso di economia e di diritto, intitolato emblematicamente Il Tevere navigato e navigabile. Lambertini non riuscì ad attuare il progetto del Pascoli, che però fu ripreso da Pio VI (1775-1799). Nello stesso tempo, il papa promuoveva la cultura e, da vero mecenate, l’arte nelle sue varie manifestazioni, restaurando e completando edifici e fondando musei e biblioteche[8].
Il ruolo di primo piano di Perrelli nella pubblica amministazione e di saggio consigliere pontificio, si mantenne durante il pontificato di Clemente XIII, che era sostenuto, per altro, da un Segretario di Stato integerrimo come il cardinale Luigi Torrigiani; in quel periodo fu fondato il Monte dell’Abbondanza, per alleviare i danni della carestia, e si progettò la bonifica delle paludi pontine.
In tale situazione di una pressoché permanente grave crisi sociale, Perrelli, per la sua esperienza in tema di economia, fra il 1763 e il 1766 fu chiamato da papa Rezzonico a far parte di una commissione pontificia per fronteggiare le difficoltà annonarie e la conseguente carestia divenuta endemica nel XVIII secolo in Europa. La cura assidua di Perrelli fu rivolta ai bisogni reali della popolazione: si adoperava così per il corretto mantenimento dei forni e per l’approvvigionamento dell’olio e del grano; nello stesso tempo, cercava di garantire l’onesta gestione dei dazi doganali e degli affidamenti degli appalti pubblici, reprimendo i frequenti abusi speculativi per far lievitare i prezzi dei generi alimentari, a seguito di impedimenti al loro arrivo a Roma. Ma la sua presenza di uomo di governo fu inesauribile e variegata.
Così, sempre alle dipendenze di Clemente XIII, il papa che, dopo trent’anni di lavori, fece portare a termine la fontana di Trevi, Perrelli ordina, il 17 marzo 1759, nella sua qualità di Tesoriere Generale, di rendere disponibili per il camerlengo Girolamo Colonna tremila scudi
«per doverli erogare nelle spese necessarie della costruzione delle Statue, Bassirilievi ed ornamenti della Fontana dell’Acqua Vergine detta di Trevi, in luogo di quelle composte di stucco che al presente v’esistono in tutto e per tutto a tenore del Chirografo segnato da Nostro Signore felicemente regnante».
E ancora in quel 1759, il 14 aprile, Perrelli approvava un’altra grandiosa opera pubblica, il prosciugamento delle paludi pontine inviatogli dal monsignore Emerico Bolognini, governatore della provincia di Marittima e di Campagna. Instancabile, due settimane dopo, il 27 aprile, a Roma, per dare sollievo all’ospedale del SS. Salvatore di San Giovanni in Laterano eroga 1.719:21 ½. Ma Perrelli è sempre pronto a soccorrere anche le necessità delle comunità liturgiche in difficoltà economiche. E’ il caso della chiesa camerale di Capodimonte, nel viterbese, per la quale ordina il restauro dell’aspersorio d’argento e la fornitura di paramenti liturgici, ispirando sempre il suo agire, come sottolinea la Pampalone, al risparmio e alla «funzionalità senza sprechi» (p. 35). Finanzia così i restauri di molte suppellettili ecclesiastiche, ma è anche dinamico imprenditore in progetti di ampio respiro, come in occasione del ricordato risanamento delle paludi pontine, della cura delle saline di Cervia, e delle Chiane, come pure per lo sviluppo delle fabbriche delle vele a Civitavecchia, di cui la Pampalone pubblica un disegno inedito di Gian Domenico Navone (fig. 6), mentre, nella sua qualità di Presidente delle acque del Tevere, si adopera per agevolare il commercio fluviale.
Per non parlare, della cura del settore dell’edilizia a Roma e sul territorio pontificio: l’edificazione della parrocchiale di Montemarciano, la conclusione del Sant’Andrea in Vallerano, il restauro dell’attico del Pantheon, il completamento della fontana di Trevi; tutti interventi, come abbiamo visto, documentati da una serie di disegni inediti, di piante e “vedute”, che descrivono nei particolari l’attività di Perrelli soprattutto come Soprintendente del porto d’Ancona (vedi figg. 4-5) ed anche dei porti di Corneto, Civitavecchia e Anzio (vedi fig. 6).
Ad ulteriore prova della varietà e del gran numero delle incombenze di governo del Perrelli, che qui non è possibile descrivere in ogni parte, ricordo il suo impegno nella tutela del patrimonio archeologico pontificio, così che, il 17 febbraio 1759, disponeva l’accertamento, ad Albano, di un licenza di scavo di «Statue e altre preziose antichità», e, il 5 maggio, sempre di quell’anno, ordinava di perseguire scavatori clandestini di monete antiche a Nepi.
Ma l’impresa che connota dettagliatamente l’attività pubblica del Perrelli, ricostruita con acribia da Antonella Pampalone, è la soprintendenza sulla costruzione del braccio nuovo del porto di Ancona (vedi figg. 4-5), affidatagli da Benedetto XIV e mantenuta fino al 1772, anno della sua morte.
Nonostante questo straordinario impegno, che potrebbe definirsi imprenditoriale, le finanze pontificie si mantennero costantemente sofferenti. Perrelli infatti non poté nulla contro le ruberie del ricordato cardinale Coscia né contro le malversazioni degli uomini di fiducia di Clemente XIV, il padre francescano Buontempi, inetto e corrotto, responsabile del disavanzo di bilancio di ben cinquecentomila scudi, e il funzionario Niccolò Bischi, il quale arrivò al punto di non rendicontare un milione di scudi destinati a reintegrare il tesoro di Sisto V, cui si era precedentemente attinto per esigenze di bilancio[9].
In realtà, la radice dei mali dello Stato Pontificio nel XVIII secolo, oltre che nell’inadeguatezza morale e materiale dell’apparato amministrativo, si annidava nel disfacimento spirituale delle classi dirigenti ecclesiastiche, avvezze a privilegi e ad abusi consolidati nel tempo e del tutto incapaci, nonostante l’impegno personale dei papi, di interpretare le nuove istanze europee di rinnovamento espresse dai fernenti intellettuali dell’ “età dei lumi”.[10] In altre parole, la presenza al vertice della Segreteria di Stato di un cardinale più che corrotto come il Coscia, rappresentava la punta di un iceberg.
I papi del Settecento condussero per lo più una vita ispirata ai princìpi evangelici, ma talora la creazione di nuovi cardinali, determinata da esigenze temporali, spesso sostenute anche con protervia dai centri del potere del tempo, le corti europee, finì per vanificare molti buoni progetti. La testimonianza di questo stato delle cose ci è data dallo stesso Benedetto XIV, che, per altro, poté contare su un cardinale Segretario di Stato colto e intelligente come Silvio Valenti Gonzaga, oltre che sul Tesoriere generale, lo stimato Perrelli; Lambertini, amareggiato, in una lettera al cardinale De Tencin, si sfogava in questi termini:
«Sono ormai più di quattr’anni, che tocchiamo con mano non esserci male in Roma, non esserci pregiudizio della Santa Sede che non riconosca la sua origine da qualche cardinale».[11]
L’accusa del papa non era severa, dal momento che alcuni prìncipi della chiesa percepivano addirittura pensioni concesse dalle corti europee per i loro indebiti servigi. Così, il cardinale Alderano Cibo, Segretario di Stato di Innocenzo XI, all’insaputa del papa, notoriamente un sant’uomo, godeva di una pensione del re di Francia[12]. Ovviamente, i riscontri di “gratitudine” da parte cardinalizia non mancavano ed erano particolarmente significativi in occasione dei conclavi. Così, in quello del 1721, in cui fu eletto papa Innocenzo XIII, il re di Francia fece versare trentamila scudi al cardinale Rohan, che ne corrispose una parte al cardinale Camerlengo Annibale Albani, il quale, durante il conclave, arrivò al punto di diffondere pesanti calunnie sui papabili cardinali Aldrovandi e Porzia; quest’ultimo, provato dallo stress, morì di crepacuore[13]. Qualche decennio dopo, le cose non erano cambiate: nel conclave del 1758, da cui uscì papa Clemente XIII, il re di Francia pose il veto sulla nomina a papa del cardinale Carlo Alberto Cavalchini[14].
Queste situazioni di grave degrado morale e religioso non appartengono al passato, tanto è vero che l’attuale papa Bergoglio ha richiamato la Curia alla piena osservanza dei doveri evangelici, non coniugabili con i beni della mondanità, talora ostentata con atteggiamenti narcisistici, ed ha ricordato con immagine apocalittica che «il sudario non ha tasche !».
Ma la storia si ripete con sfumature diverse. Ha lasciato infatti sgomenti la recentissima dolorosa vicenda del cardinale australiano George Pell, voluto da Francesco come Prefetto dell’Economia vaticana, per riordinare le finanze della Santa Sede e per approntare un progetto di riforma della Curia; ebbene, sul cardinale Pell, alla vigilia dell’approvazione della riforma, che prevedeva,fra l’altro, la riconsiderazione di alcuni dicasteri, si è abbattuta un’accusa infamante soprattutto per un prete di Cristo, rivelatasi infondata dopo più di due anni di tormentate vicende giudiziarie, nei quali l’incolpevole cardinale, anche se ora riabilitato, ha dovuto conoscere, oltre alla gogna mediatica, anche l’onta del carcere e la fine del suo onorevole cursus.
Tornando al Settecento, cito, per un confronto alternativo e dimostrativo della dirittura morale e dell’ alto senso dello Stato di Perrelli, un episodio più che edificante, descritto dalla Pampalone (p. 38); un fatto avvenuto nel 1759 durante la soprintendenza del cardinale al porto di Ancona, che è emblematico di quanto, nell’amministrazione del potere, gli fossero estranei i privilegi: con garbo ma con fermezza rifiutò una ricca quanto non dovuta regalia di pelli pregiate. Così facendo, Perrelli si disponeva sul crinale etico del virtuoso e antinepotista Innocenzo XII e del saggio e coltissimo Benedetto XIV, corroborando, sul versante della potestà curiale e dell’amministrazione dello Stato, la testimonianza di fede cristiana di sant’uomini come Leonardo da Porto Maurizio e Paolo della Croce, i quali con le loro prediche infiammavano di spirito evangelico le piazze di Roma, mentre, contemporaneamente, Benedetto Giuseppe Labre condivideva, nelle opere e nei giorni, il destino dei poveri.
Le capacità di amministratore pubblico di Perrelli, quasi custode antesignano dei princìpi fondanti delle moderne pubbliche amministrazioni, di efficienza, efficacia, economicità, risaltano ancor di più se si pensa che egli agì in tempi difficilissimi per lo Stato Pontificio, segnato profondamente nel prestigio e nell’economia, oltre che dalla decadenza dei costumi e della religiosità, da tre conflitti mondiali, le tre guerre di successione dinastica, spagnola (1709-1714), polacca (1733-1738), austriaca (1740-1748) e da un conflitto solo in apparenza circoscritto a Francia e Inghilterra, la guerra dei Sette anni (1746-1753). Conflitti, i primi tre, che determinarono a più riprese l’attraversamento delle terre dello Stato Pontificio, neutrale per motivi spirituali ma anche perché militarmente pressoché inesistente, con tutti gli effetti immaginabili sulla popolazione, sulle già gracili strutture abitative, sull’economia. Addirittura, nel 1743, durante la guerra di successione austriaca, le truppe spagnole svernarono presso Pesaro e Rimini e quelle austriache nella zona di Bologna, mentre il Lazio veniva saccheggiato e a Roma si affrontavano a cannonate austriaci e napoletani.
Ma i danni per il papa non finirono con le devastazioni del territorio: quella guerra, che si concluse cinque anni dopo con la pace di Aquisgrana (1748), fu sfavorevole allo Stato Pontificio anche sul piano politico ed economico, perché il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla fu concesso a Filippo di Borbone. Per non parlare dei danni subiti dalle finanze pontificie a causa dell’interruzione dei versamenti all’erario romano dei tributi provenienti dalle terre di Marche e Romagna, occupate dai belligeranti.
Fonte primaria, interamente pubblicata dalla Pampalone, che definisce la personalità del cardinale Perrelli è il ricco epistolario, che documenta, fra l’altro, la soprintendenza anconetana con i lavori per il Braccio nuovo del porto di Ancona (vedi figg. 4-5) e per altre fabbriche in quella città, il lazzaretto, le mura civiche, l’antica Zecca, oltre che il santuario di Loreto e la chiesa camerale di Montemarciano. L’architetto portuale scelto da Perrelli fu Carlo Marchionni, nonostante che il primo progetto anconetano fosse del più dotato Luigi Vanvitelli, che ne avrebbe voluto la prosecuzione affidata a Carlo Murena. Forse la scelta che il cardinale fece di Marchionni fu dettata, oltre che dalla stima professionale, dall’amicizia. In proposito, la Pampalone, ricostruendo la collezione d’arte del Perrelli, osserva che questa, annoverando varie pitture di paesaggio, riscontrava la passione per le vedute naturalistiche del Marchionni, sensibile alla bellezza di questo genere pittorico, proprietario egli stesso di una raccolta di pitture di paesaggio ed autore di una cospicua serie di disegni di Vedute; in altre parole, l’Autrice ritiene, con fondamento, che l’architetto sarebbe stato il consigliere del cardinale nel mercato delle “vedute”.
Il Marchionni fu uno degli epigoni del barocco e il suo capolavoro è la villa per il cardinale Albani, inaugurata nel 1763. Va rilevato che, nonostante la stima e, se si vuole, l’amicizia con l’architetto, il cardinale Perrelli, da parte sua, controllò sempre, come un moderno e coscienzioso “Responsabile unico del procedimento”, ogni fase dei lavori anconetani: l’idoneità delle maestranze, le quantità e la qualità dei materiali, in particolare delle forniture di pozzolana, i vari stati di avanzamento dei lavori, che approvò sempre a seguito di costante e costruttivo confronto dialettico con il Marchionni e, talora, con suo figlio Filippo, aggregato all’impresa del padre nel 1756, quasi subito dopo l’inizio dei lavori. A Filippo il cardinale ricordò, in un deciso contraddittorio, il 24 gennaio 1767, la necessità di fare spese in economia, richiamandolo formalmente, quasi un mese dopo, a rispettare i limiti di spesa programmati, con la sola eccezione degli interventi di urgenza.
Scorrendo questo fitto epistolario, seguiamo mese per mese, lo sviluppo dei lavori portuali anconetani e conosciamo le difficoltà del tempo nel trasporto dei materiali via mare dalla penisola balcanica e da Civitavecchia a causa delle frequenti avversità atmosferiche, come pure apprendiamo dei rapporti non sempre facili con le maestranze ma anche con le autorità locali, in particolare le incomprensioni per le pretese finanziarie della segreteria comunale di Ancona.
Nel bilancio finale dell’impresa anconetana, si può dire che il rigore di controllo esercitato da Perrelli come soprintendente ai lavori portuali finì per valorizzare anche l’operato di Carlo Marchionni, tanto è vero che Benedetto XIV, con Motu proprio del 24 settembre 1757, lo nominò Architetto Direttore e Primo Ingegnere di Roma e dello Stato Pontificio, con un vitalizio mensile di dieci scudi, in aggiunta ad altre spettanze pari a mille scudi annuali per i lavori al braccio nuovo del porto di Ancona.
Un capitolo di questo libro è dedicato alla raccolta di quadri e di altri oggetti d’arte di Perrelli, il quale, nonostante la ricca varietà delle espressioni artistiche a Roma nel XVIII secolo, non fu un brillante collezionista, come altri cardinali del suo tempo, per esempio Alessandro Albani, Pietro Ottoboni, di cui era amico, Cosimo Imperiali, Silvio Valenti Gonzaga, Flavio Chigi. A casa di Perrelli, che risiedeva nel palazzo Doria-Pamphilj, nell’ala sull’attuale via del Plebiscito (vedi fig. 14) davanti al palazzo di Venezia, oltre ai ricordati dipinti di Vedute, non era dato incontrare molti dipinti di soggetto sacro, così che la sua quadreria, di cui si sono perdute le tracce quasi subito dopo la sua morte, come è avvenuto in diversi altri casi, non dava l’idea di un mecenate appassionato della pittura, che faceva sfoggio della propria collezione in modo maniacale e anche per esaltare il proprio elevato ruolo sociale; dello stesso Perrelli in veste di cardinale restano pochi ritratti, dei quali il più bello è quello fatto dall’incisore fiorentino Pietro Antonio Pazzi (fig. 15). Riprova il suo carattere riservato il fatto che i dipinti più importanti nel suo appartamento non facevano bella mostra nella sala delle udienze, ma erano nella stanza del camino accanto alla camera da letto. Testimoniavano il suo amore per Napoli, sua città natale, un’immancabile testa di san Gennaro, del Lanfranco, e un ritratto di Ferdinando IV, re di Napoli e di Sicilia, succeduto al padre Carlo III nel 1759.
Documentavano il suo gusto per la pittura di contemplazione sette Vedute di paesi e tre paesaggi con Bambocciate boscherecce di Jan FransVan Bloemen, di Paolo Monaldi, di Andrea Locatelli, di Monsù Leandro, nonché due Capricci di rovine di un artista alla moda come Giovan Paolo Panini, che Perrelli aveva frequentato in varie occasioni: quando Panini aveva fatto l’inventario della collezione del cardinale Ottoboni, amico di Perrelli; in occasione dei lavori alla fontana di Trevi, per i quali il cardinale rese disponibili risorse finanziarie; quando Panini dipinse più volte la fontana di Trevi; infine, per l’episodio della patente camerale di architetto rilasciata nel 1750 al figlio di Panini, Giuseppe, in base ad una delibera della Congregazione dei conti, di cui Perrelli era Commissario.
Morto il 24 febbraio 1772 senza aver potuto vedere la fine dei lavori dell’impresa a lui più cara, il Braccio nuovo del porto clementino ad Ancona, il cardinale Niccolò Perrelli, dopo un sobrio funerale, celebratosi, come per una gioiosa astuzia della sorte, il 26 (era mercoledì grasso!) alla presenza del papa, del collegio cardinalizio, del duca di Gloucester, fratello minore di Giorgio III, nella basilica dei Santi Apostoli, vicina alla sua abitazione (vedi fig.14), ebbe umile sepoltura terragna nella navata sinistra della chiesa romana dei Santi Giovanni e Paolo (vedi fig. 16).
Vitaliano TIBERIA Roma 24 gennaio 2021
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