di Michele FRAZZI
Leggere Caravaggio XVII.
Il professor Alfred Moir affronta l’argomento delle sviste Caravaggesche in un saggio dal titolo: Le sviste di Caravaggio (in L’ultimo Caravaggio e la cultura artistica a Napoli in Sicilia e a Malta, 1987) elencando esempi di errori di rappresentazione all’interno dei dipinti del Maestro, come quello che riguarda il Bacco degli Uffizi che non proietta ombra sulla parete, inoltre le parti trasparenti del calice di vetro che la figura tiene in mano lasciano vedere le forme senza alcuna distorsione ottica; quindi si concentra sul problema prospettico esistente nella mano destra del Pellegrino nella Cena in Emmaus londinese che è fuori scala.
Questa serie di osservazioni del professore americano aprono uno spiraglio su un aspetto che a questo punto merita di essere bene approfondito, vale a dire il rapporto che esiste tra la pittura dal vero e la ricostruzione del verosimile nelle tele del genio lombardo. Alle osservazioni di Moir pare opportuno aggiungere che anche la catena d’oro dipinta nella Maddalena Doria non proietta ombra sul pavimento (Fig.1) e pur considerando che possa essere solo un piccolo dettaglio, a questo occorre aggiungere che le proiezioni delle ombre del piolo sulla seggiola e della caraffa hanno direzioni incongruenti tra di loro ( Fig.2),
e soprattutto che la manica destra della Santa pur essendo avanzata rispetto al corpetto non proietta alcuna ombra sullo stesso (Fig.3 ), mentre nella equivalente immagine della Fuga in Egitto questo succede ( Fig.4).
Di fatto in questo caso il pittore contraddice sé stesso; tutto lascia pensare non solo che la Fuga sia stata realizzata precedentemente, ma che solo in questo caso, almeno parzialmente, la scena sia stata osservata dal vivo, mentre probabilmente la Maddalena sia un esperimento di ricostruzione del reale.
A dire il vero alcune perplessità riguardano poi anche l’ambientazione della Fuga in Egitto, dove il primo piano con i sassi è dotato di un’eccessiva verticalità prospettica ( Fig.5), mentre l’ angelo in primo piano non proietta l’ombra sul rigoglioso fogliame verde che sta sulla estrema destra (Fig.5);
del resto non possiamo pensare che il Caravaggio per riprendere la scena dal vivo con un modello abbia portato la tela (1,35x 1,67 mt.) all’aperto per dipingere il paesaggio en plein air come facevano gli impressionisti, è più probabile invece che egli lo abbia ricostruito sulla tela dotandolo di verosimiglianza. Ricostruire la frammentazione dell’ombra dell’Angelo sulle diverse foglie costituiva evidentemente un esercizio piuttosto complesso e dunque deve averlo tout court evitato: questo è probabilmente anche uno dei motivi per cui il Caravaggio nei suoi dipinti evita gli spazi aperti ma usa il chiuso come sfondo, perché è un ambiente più facile da simulare.
Si può infine osservare che all’ambientazione della Fuga in Egitto può aver contribuito la conoscenza della Leda e il cigno (Fig.6) realizzata da Leonardo a Milano, ora dispersa ma la cui iconografia è conosciuta attraverso le copie dei leonardeschi di cui ci sono giunte fino a noi 9 esemplari. Qui vediamo quella conservata agli Uffizi proveniente dalla raccolta romana Spiridion. Possiamo notare che la posizione centrale e la postura della Leda è simile a quella dell’angelo anche se posto di spalle, la messa in evidenza dei dettagli vegetali nel bel primo piano floreale, e l’ambientazione fluviale o lacustre con il canneto, sono poi altri particolari che ritornano puntualmente anche nella Fuga in Egitto.
A queste prime interessanti indicazioni si deve anche aggiungere che dipingere dal vero non è sempre conveniente, o ragionevolmente possibile, come nel caso di forme in movimento, come si può vedere ad esempio nel gruppo di faville che risalgono verso l’alto, presenti sullo sfondo della Negazione di San Pietro, che di sicuro non possono essere state riprese una ad una dal vero, ma che il Merisi ha saputo raffigurare con perfetta verosimiglianza del vero. Inoltre i test sperimentali di ricostruzione delle scene condotti sulla base delle indicazioni del Moir, hanno confermato le sue ipotesi, egli dunque aveva correttamente compreso l’utilizzo della luce in funzione manipolativa operata dal Caravaggio.
Marcin Fabiansky in un suo articolo ha infatti dimostrato che l’effetto di rifrazione nella caraffa del ragazzo morso dal ramarro non è corretto e dunque è una finzione, la scena non è stata raffigurata dal vivo.
Giacomo Berra poi ha ripreso il filo di questo discorso in un altra ricerca, approfondendo ulteriormente la questione ( https://www.aboutartonline.com/le-sviste-caravaggio-luci-ombre-rifrazioni-nella-caraffa-fiori-del-ragazzo-morso-un-ramarro-2/), lo studioso ha messo bene in luce come il riflesso della finestra nel ragazzo morso dal ramarro in questo caso si trova sul lato sbagliato della caraffa, dato che deve stare sul lato da cui proviene la luce, mentre nel Suonatore di liuto dell’Hemitage, nel Ragazzo con la caraffa di rose ed anche nella Cena della National Gallery si trova sul lato giusto (anche qui Caravaggio contraddice sé stesso).
Infine si è arrivati a condurre veri e propri esperimenti di illuminazione su ulteriori tre dipinti più complessi: l’ Incoronazione di spine di Vienna, la Flagellazione di Napoli e la Deposizione dei Musei Vaticani (27) , in tutti i casi si è arrivati al medesimo identico risultato e cioè che un illuminazione attuata con un solo punto di di luce non conduce agli stessi risultati che si vedono nei suoi tre dipinti, l’illuminazione che noi vediamo in questi casi dunque è artificiale e non ripresa dal vivo. Alla fine gli autori dello studio arrivano a questa conclusione:
”Per mezzo della luce egli guida il nostro occhio proponendoci tutt’altro che una ripresa fotografica del reale, bensì una nuova realtà attentamente calibrata e composta” (28).
A questo risultato sulla sua maniera di organizzare la luce si deve aggiungere, come abbiamo appena visto, anche l’evidenza che il Caravaggio sicuramente manipolava il contrasto tra luce ed ombra che è evidentemente innaturale, come avevano compreso anche i suoi contemporanei. A questo punto i fatti acclarati ci inducono a pensare che l’orchestrazione della luce e del buio viene appositamente composta dal Caravaggio a seconda delle zone che il pittore voleva rendere visibili, questo con lo scopo di mostrare solo ciò che a lui interessava, per illustrare il racconto secondo un copione che aveva programmato di illustrare.
Per averne un’altra riprova conduciamo un ulteriore esperimento sovrailluminando i suoi dipinti. Prendiamo ad esempio la Caduta di San Paolo che nella prima foto (Fig.7) è illuminata nelle condizioni della luce naturale nel luogo in cui è posta, il risultato è una scena del tutto congruente e perfettamente realistica, se però sovrailluminiamo l’immagine (Fig.8) allora vengono alla luce alcuni ulteriori dettagli, ad esempio che il braccio che tiene il morso del cavallo dovrebbe coprire la fascia che ha sui fianchi che invece è visibile, che la mano e la gamba arretrata del palafreniere hanno posizioni incongruenti col resto del corpo, così come accade per le innaturali gambe sinistre del cavallo, nascoste dal buio e dalla coda.
Passiamo ora al bellissimo Martirio di san Matteo (Fig.9), ed osserviamo a forte illuminazione questo personaggio in primo piano, avvolto nel suo mantello giallo ( Fig.10), la gamba avanzata è incongruente col resto del corpo, si può inoltre ulteriormente notare che anche la sua spalla superiore ha una prospettiva incerta o sghemba rispetto a alla spalla più bassa, la figura appare così costituita a pezzi, come avviene per il palafreniere e il suo cavallo della Cerasi. Anche il volto del personaggio che sta sotto di lui ha dei problemi, come quelli che esistono del resto nei volti di diversi altri suoi personaggi dipinti, come ad esempio possiamo osservare nella parte in ombra del San Pietro nella sua Crocefissione ( fig.11).
In definitiva Caravaggio dipinge solo ciò che serve, non si preoccupa della correttezza teorica o meno del disegno, anzi per ottenere l’effetto voluto è disposto anche a dipingere figure intrinsecamente scorrette, il suo unico interesse è che ciò che è visibile appaia come corretto ed assolutamente realistico, l’oscurità dunque è ancora una volta lo strumento attraverso il quale riesce a raggiungere il risultato voluto, solo l’effetto finale è quello che conta. E’ la mente umana che assolve poi il compito di ricostruire una forma coerente dai frammenti, dalle parti che sono illuminate, si tratta dello stesso principio enunciato nel Trattato di Guidobaldo e che abbiamo visto nell’esempio del De Vries, solamente applicato in forma diversa.
Ancora nel Martirio osserviamo bene illuminata la sua parte centrale ( Fig.12), in questa zona non si capisce bene a quale figura appartenga la gamba che fugge, né la mano che si protende verso lo spettatore, inoltre il personaggio che fugge appare fuori scala rispetto a quelli vicini ( la sua gamba è troppo lunga), infatti proprio come osserva Gaspare Celio qui le figure non ”se mostravano le sue distanze secondo il luogo”. E’ un particolare tra l’altro quello della mano appesa nel vuoto che si rivedrà anche nella Sant’Orsola, e dunque perfettamente voluto, non si tratta affatto di un refuso pittorico.
Cosa si deve dire poi riguardo alla correttezza del corpo della figura della Crocefissione di San Pietro (Fig.13), la cui spalla bassa e il braccio avvolti nel manto rosso appaiono prospetticamente scomposti rispetto al resto del corpo.
Tutto questo non mette in alcun dubbio la capacità del pittore, anzi la pone in risalto dato che normalmente non ci si accorge dell’inganno nascosto nelle sue scene fino a quando non le si osserva con una attenzione scientifica, solo allora ci si accorge che i suoi dipinti sono rappresentazioni illusive della realtà, perfettamente verosimili ma non vere, il pittore in conclusione aveva capito che per mezzo di uno studiato utilizzo dell’oscurità riusciva a ricreare sulla tela una rappresentazione perfettamente credibile della realtà, con un risultato talmente verosimile e straordinario da influenzare tutta la pittura venuta dopo di lui. L’ abilità tecnica e l’intelligenza pittorica del Caravaggio lo ha condotto al risultato che nelle sue tele egli illuminava con dei flash di luce ( sbattimenti di luce) solo ciò che voleva fosse visto.
A questo riguardo occorre dunque osservare che è indispensabile che i suoi dipinti vengano illuminati con la corretta gradazione di intensità luminosa, quella per cui erano stati pensati e realizzati, altrimenti si rischia di mettere in luce particolari che non devono essere percepibili.
Questa sua maniera di agire pittoricamante non deve affatto stupire ma al contrario si inserisce a pieno diritto nel solco del pensiero lomazziano, che nel suo testo appunto prescrive al pittore di essere il più possibile fedele al dato reale, ma l’artista è pur sempre un creatore perciò gli è permesso di fare delle variazioni seguendo il suo genio.
Così scrive il Lomazzo a questo proposito:
”La buona composizione, parte tanto principale nella pittura, che tanto ha del grave, e del buono, quanto è più simile al vero in tutte le parti. Et se pure in alcuna parte si vuol variare, si ha da avvertire alla convenevolezza, e anco all’accrescimento dell’effetto.”
Questo paradigma espresso dal teorico milanese è un concetto davvero fondamentale per comprendere bene non solo la sua idea dell’arte ma anche quella del Caravaggio. Infatti per comprendere la prassi pittorica del Merisi occorre tenere a mente le parole del Lomazzo: la pittura deve essere certamente realistica, cioè essere dotata di verosimiglianza, ma l’artista se è tale, deve essere anche in grado di mutarne le fattezze ad arte.
A quale scopo il pittore mette in atto alcune modifiche? Lomazzo lo spiega chiaramente: in funzione dell’effetto che vuole ottenere sull’osservatore, cioè gli artifici e le manipolazioni della realtà operate dall’artista servono a conseguire un ben determinato risultato sullo spettatore, l’arte dunque ha una valenza teleologica, cioè si modella in funzione dello scopo che si vuole ottenere, un concetto questo che alla luce di quanto appena chiarito certamente fu condiviso anche dal Caravaggio.
Il Lomazzo precisa ulteriormente le sue idee sulla pittura tramite un esempio pratico descrivendo l’arte di Gaudenzio Ferrari:
”Eccellentissimamente fece Gaudentio che tenne una certa via nelle pieghe dei panni, che altro che lui non poteva tenere, cioè una maniera conforme alla natura, e all’arte congiunta con lei “ ( pagg. 252-53).
In questo passo il teorico ulteriormente declina la maniera in cui il pittore deve osservare la realtà e poi raffigurarla sulla tela, cioè l’artista deve studiare il vero ma poi non deve rappresentarlo pedissequamente ed in maniera acritica, la rappresentazione del vero deve essere fusa con la sua sensibilità artistica e quindi in ultima analisi la pittura è una costruzione, realizzata in funzione di precise finalità rappresentative, il che libera il campo dalla possibilità di un’arte fatta attraverso una osservazione fotografica della realtà.
Questa significativa e fondamentale idea è ribadita in un altra parte del Trattato (pagg.483-84) che tratta della tecnica pittorica:
“… esser la pratica serva della scienza. E chi ciò non osserva, ma solamente segue la pratica, che non però può esser buona senza la scienza, non fa ne cosa ragionevole, indegna d’ esser lodata“;
a cui si deve aggiungere per completare il discorso quest’altra sua osservazione:
”E finalmente concludo: seguendo il giudicio naturale che niun per gran coloritor che sia, e diligente, ma senza invenzione, che levi di peso le figure dalle carte e opre altrui non si deve chiamar pittor ma imitator anci distruttor dell’arte”.
Il concetto che il naturalismo deve essere temperato dal genio del pittore è un principio che deve essere inteso come fondamentale non solo per il Lomazzo, ma anche per il Caravaggio: l’ opera d’arte non può essere solamente una pura registrazione della realtà, ma deve invece essere guidata dalla volontà rappresentativa del pittore, dalla sua volontà estetica, senza ovviamente però cadere nel versante appena criticato della troppa fantasia; il realismo quindi serve a dare l’apparenza della verosimiglianza ma non deve assolutamente essere considerato un fine assoluto ma piuttosto uno strumento. Per il trattatista dunque, ed anche per il Caravaggio, né chi dipinge seguendo la maniera di altri né chi segue pedissequamente la natura può essere un bravo pittore.
Da questo punto di vista l’arte allora è il risultato di una ricostruzione assolutamente verosimile della realtà, che deve essere creata seguendo la volontà artistica nonchè, soprattutto, gli scopi rappresentativi del pittore. La forte apparenza del realismo serve a convincere l’osservatore che la scena che sta vedendo è vera, con lo scopo di impressionarlo, mentre in realtà sotto questa apparenza estetica si nasconde l’artificio di una abile costruzione: questa è la prerogativa e il vero talento di un genuino artista secondo il Lomazzo. La forza del realismo è un elemento necessario a catturare i pensieri e soprattutto le emozioni dell’osservatore che immediatamente colpito dall’impatto emozionale dalla forte verosimiglianza non andrà a verificare l’ illusività della rappresentazione.
Riflettendo su questo paradigma emerge con evidenza che un altro dei pregi della pittura di Caravaggio è costituito proprio dalla forte emozione che essa è in grado di suscitare sullo spettatore, proprio in virtù del cogente realismo della rappresentazione che, come abbiamo visto, nasconde una struttura pensata per ottenere un ben preciso effetto sullo spettatore. Riguardo ai dipinti del Caravaggio non facciamoci dunque illusioni, una semplice fotografia della realtà non otterrebbe mai lo stesso risultato di impressione emozionale, che invece riescono invece a dare i suoi quadri. Come dice Lomazzo l’arte non può essere una semplice registrazione dell’apparenza naturale, ma consiste in una studiata rappresentazione di un fatto, che proprio perché guidata dalla volontà artistica del pittore, dal suo genio, è in grado di generare una determinata emozione e una tensione ben precisa sull’osservatore, questo in definitiva è lo scopo ultimo della pittura e l’essenza dell’arte.
L’utilizzo degli esempi degli artisti
Riguardo all’utilizzo degli esempi pittorici, argomento cui abbiamo appena accennato, il Lomazzo nel suo Trattato fa una ulteriore importante osservazione che riguarda anche l’arte del Caravaggio: l’artista può servirsi non solo della realtà come modello, ma può anche utilizzare le invenzioni degli altri artefici, a patto di modificarle in modo da dar loro la propria impronta personale e soprattutto trasformarle in modo da far assumere una apparenza realistica:
“Si ch’ad ogni modo ha da seguir ognuno il grillo delle sue invenzioni e disporle seguendo gli ordini proporzionati e naturali, e lasciando indietro le invenzioni o le bizarie de gli altri, o imitandole in modo che le alteri e faciale parer come sue particolari ad honore e riputazione de la pittura, la quale il tutto vede e contempla come si prudente imitatrice de la natura” ( pagg.483-84).
Questa è una ulteriore operazione che si può vedere messa in atto nei dipinti del Merisi, infatti durante l’ analisi abbiamo già visto quante volte egli abbia utilizzato modelli di altri pittori o statue antiche, modificandoli però in chiave realistica, rendendoli così contemporanei; questo aspetto è dunque una sua ulteriore abilità pittorica. Ritorniamo a questo punto su alcuni di questi esempi già trattati. Prendiamo la Madonna dei Pellegrini (Fig.14), qui il Caravaggio non solo ha ripreso la posa di una statua: la Thusnelda (Fig.15), ma anche le fattezze dichiaratamente classiche del suo volto, trasformandole però in maniera realistica.
Oppure andiamo alla Presa di Cristo (Fig.16), dove non solo ha ripreso l’organizzazione della scena ideata dal Nogari (Fig.17) ma anche le fattezze del viso del Cristo con gli occhi abbassati e soprattutto del Giuda, sempre trasformandole in chiave realistica.
Oppure il palafreniere della Caduta Odescalchi (Fig.18) che è raffigurato non solo in una posa identica a quella del soldato di Vincenzo Campi (Fig.19) ma ripropone anche anche le fattezze del suo volto, (qui il confronto è più semplice perché anche il Campi pratica una pittura realistica).
O pensiamo all’Ecce Homo di Genova (Fig.20) che non solo riprende la struttura compositiva complessiva dell’Ecce Homo di Aurelio Luini (Fig.21) ma anche i tratti dell’ aguzzino.
O alla scena della partita a carte dei Bari ( Fig.22) che è ripresa da una iconografia del Romanino (Fig.23), così come lo sono le fattezze del baro con barba e baffi, cappello piumato, corpetto, e mantello sulla spalla.
Alla luce di tutti questi esempi possiamo ancora onestamente pensare che Caravaggio ha ritratto queste scene dal vivo o che avesse bisogno di un modello reale per dipingere? E dato che questi volti sono stati ripresi da quadri cui l’artista si è ispirato per realizzare i suoi, ammettere che non solo abbia copiato l’organizzazione dei dipinti presi ad esempio, ma che in più si sia anche messo alla ricerca di persone reali così strettamente somiglianti a quelle delle scene originali, le abbia messe in posa e poi le abbia ritratte dal vero ?
L’ipotesi che gli fosse necessario riprendere le scene dal vivo non appare affatto una soluzione logica. Da questi esempi risulta invece evidente che il Caravaggio era in grado di mutare qualsiasi idea di partenza in una immagine realistica. Infatti le fattezze di questi personaggi dei suoi dipinti sono state tutte riprese da immagini dipinte, od addirittura nel caso della Thusnelda da una statua, ma Caravaggio riesce a restituirle sulla tela esattamente come fossero riprese dalla realtà, è capace di donargli una apparenza formalmente e perfettamente reale. Possiamo ora cercare di capire di quali strumenti possa essersi servito.
Quante volte si ripetono gli stessi visi in diversi suoi quadri, e se a Roma rimane il dubbio che possa aver avuto il modello davanti, come è il caso della modella utilizzata nella Santa Caterina (Fig.24) il cui volto appare anche nella Marta e Maddalena (Fig.25), non può aver ritratto persone incontrate a Roma quando rappresenta gli stessi volti anche a Napoli od in Sicilia, e nemmeno quando a Roma utilizza esempi presi da dipinti lombardi.
Può aver utilizzato strumenti grafici per realizzare i suoi dipinti ?
In alcuni di questi casi e cioè quando le figure sono riprese da altri suoi dipinti in maniera esatta, può anche essersi servito di una qualche tecnica di riporto come si è osservato nel Suonatore di liuto o come è forse possibile per quanto riguarda il Cristo della Incoronazione di spine di Vienna e quello rappresentato nella Flagellazione di Napoli. Ma se prendiamo in considerazione altri casi come ad esempio quello di questi due aguzzini che ora affronteremo, questa possibilità diviene improbabile. Vediamo infatti qui sotto raffigurato il volto del torturatore della Incoronazione di spine di Vienna (Fig.26) che è stata realizzata a Roma, il suo volto si ripete nello spalatore di sinistra nel Seppellimento di Santa Lucia a Siracusa (Fig.27),
ma anche nella Adorazione dei pastori di Messina (due volte) (Fig. 28), nel personaggio in basso la testa è innestata sul corpo con una torsione che la fa apparire innaturale, quasi staccata.
Occorre osservare che nei casi appena citati lo stesso volto è stato ripreso ogni volta da un punto di vista diverso e con prospettive diverse.
Oppure concentramoci sul suo compagno affossatore sempre della Santa Lucia (Fig.29) il cui volto compare sempre con lo stesso ruolo di aguzzino, per la prima volta nella Incoronazione di Prato ( Fig.30), poi nella Flagellazione di Napoli (Fig. 31) quindi nel Cristo alla colonna conservato a Rouen (Fig.32) anch’esso realizzato a Napoli, e nella Salomè della National Gallery (Fig.33), ed infine un’ ultima volta nella Santa Lucia siciliana (Fig. 29).
Fig.29 Particolare del Seppellimento di Santa Lucia ; Fig. 30 Particolare dell’ Incoronazione di spine di Prato, Palazo degli Alberti
Fig. 31 Particolare della Flagellazione, Napoli, Capoodimonte; Fig. 32 particolare del Cristo alla colonna, Rouen, Musée des Beaux – Arts; Fig. 33 Particolare della Salomè, Londra, National Gallery
Lo stesso volto è qui raffigurato con non solo con prospettive diverse ma anche con atteggiamenti espressivi diversi, in questi frangenti risulta difficile pensare ad uno strumento per il riporto su tela, sarebbe più logico pensare allora all’utilizzo di un foglio di studi realizzati su un modello dal vivo, ma in primo luogo come abbiamo visto non ne esiste nemmeno uno, e se poi seguendo questa ipotesi il Caravaggio avesse realizzato delle memorie grafiche per tutti gli esempi che ha rappresentato nei suoi dipinti il suo corpus disegnativo dovrebbe essere enorme, il che non è.
In quale modo dunque poteva conservare la memoria delle immagini per poi poterle utilizzare in luoghi diversi da quello in cui erano conservate le opere d’arte servite da spunto? aveva forse disegnato tutti questi quadri per poi utilizzarli al momento opportuno? Su questa ipotesi pesa un macigno oggettivo: non sono mai stati trovati suoi disegni, dunque come faceva?
Due soluzioni a questo punto appaiono ora possibili: la prima, che abbia distrutto tutti i modelli e le memorie disegnative che utilizzava per fare le sue opere allo scopo di nascondere la sua tecnica, questa impresa però risulta non facile se contiamo anche gli anni passati a Roma al servizio del Cardinal del Monte, che di conseguenza era il proprietario del frutto del suo lavoro; inoltre che sia riuscito a distruggerli tutti e non ne sia rimasto neppure uno considerando quanto fossero ricercati e aprezzati i suoi lavori appare una evenienza piuttosto improbabile.
L’altra ipotesi è che a forza di ritrarre i personaggi dal vivo, una evidenza che qui non si vuole assolutamente negare ma al contrario riaffermare come un presupposto indispensabile per i suoi ulteriori raggiungimenti, egli sia arrivato a sviluppare una tale memoria visiva che non aveva bisogno di tracce di qualsiasi tipo per riportare alla mente un viso e tradurlo in pittura.
A questo punto da tutte queste evidenze emerge che la soluzione più logica pare proprio essere quella suggerita dal Lomazzo, e cioè che il Caravaggio abbia affinato una tecnica straordinaria nel saper trasformare le immagini di partenza in forme perfettamente realistiche senza avere davanti modelli reali, od avere la necessità di tracce grafiche. Questa è dunque da considerarsi una delle sue doti pittoriche fondamentali, quella della simulazione del realismo e della dissimulazione del modello di partenza.
Si tratta della stessa identica operazione che veniva messa in pratica e descritta in questo brano da un suo grande amico: Giovan Battista Marino, che parla esplicitamente di questo tipo di attività artistica in una lettera:
”Le statue antiche et le reliquie de’ marmi distrutti, poste in buon sito et collocate con bell’artificio, accrescono ornamento et maestà alle fabriche nuove. Perciò se secondo i precetti et le circostanze nel sopracitato discorso contenute, razzolando col detto ronciglio, ho pur commesso qualche povero furtarello, me ne accuso et me ne scuso insieme, poiché la mia povertà è tanta che mi bisogna accattar delle ricchezze da chi n’è più di me dovizioso. Assicurinsi nondimeno cotesti ladroncelli che nel mare dove io pesco et dove io trafico essi non vengono a navigare, né mi sapranno ritrovar addosso la preda s’io stesso non la rivelo”.
Questo passo conferma esplicitamente quanto si vede messo in pratica nei dipinti del Merisi.
La sua abilità nel campo della tecnica pittorica e dell’illusività naturalistica, di cui abbiamo appena dato prove concrete, gli permetteva di trasformare qualsiasi idea od anche un minimo spunto in una forma realistica senza alcun modello davanti, ipotesi questa, che allo stato delle nostre attuali conoscenze appare come la più plausibile.
Si deve giungere quindi alla conclusione che la sua abilità consiste proprio nel dipingere figure che siano in grado di dare l’impressione della verità, questo mostra con ulteriore chiarezza la sua capacità di manipolare la realtà, come è stato dimostrato per ciò che riguarda la sua maniera di utilizzare la luce, la manipolazione però non è facilmente percepibile, perché veniamo tratti in inganno dalla apparente naturalezza della composizione, che egli riesce con arte a ricreare.
Il Merisi dunque ha sicuramente dipinto dal vivo utilizzando modelli presi dal mondo reale, su questo non c è alcun dubbio, però a questo punto mi pare non ci siano pure dubbi sul fatto che con l’andare del tempo e l’accumularsi dell’esperienza pittorica esercitata in questa direzione l’ abilità acquisita gli abbia via via permesso di creare rappresentazioni del tutto verosimili senza avere alcun esempio reale o grafico di fronte a lui.
Il carattere si rispecchia nei volti
Abbiamo appena visto nel caso dei volti degli aguzzini che il Caravaggio utilizza le loro fattezze in quel particolare ruolo in virtù della loro forza espressiva, e probabilmente anche nel caso dei visi ripresi da esempi pittorici di altri artisti questo è stato il loro criterio di selezione, e cioè la forza icastica che quel volto sapeva esprimere. La scelta delle peculiarità somatiche e fisiche dei suoi protagonisti deve essere dunque considerata un altro elemento fondamentale della sua prassi artistica; si tratta anzi di uno degli strumenti cardine di cui si serve per raggiungere il suo scopo, e cioè coinvolgere le emozioni dello spettatore. I suoi volti si distinguono per la intensità delle loro caratteristiche somatiche, come se le rughe fossero le concrezioni depositate di un intenso vissuto, solchi che mettono in evidenza le espressioni più usate fino a diventare vere e proprie caratteristiche estetiche delle persone, le grinze sono il segno più tangibile e perfettamente percepibile delle emozioni provate, e agli occhi dello spettatore diventano manifestazioni concrete delle passioni che catturano l’animo di quel particoalre personaggio.
In quest’ottica la morfologia dei visi e il loro atteggiamento diviene uno strumento formidabile per mettere in grado l’osservatore di individuare le inclinazioni, le attitudini e alla fine la personalità delle figure che i vedono sulla tela. Questa impostazione risente in qualche modo delle idee contenute nella Poetica di Aristotele, dove la rappresentazione del Carattere aveva un ruolo molto chiaro e ben definito. Ricordiamo inoltre che nel teatro greco gli attori utilizzavano delle maschere che servivano a rendere immediatamente evidente uno specifico carattere: il giovane, il vecchio, il personaggio della commedia, o della tragedia, e proprio attraverso queste maschere lo spettatore aveva la possibilità di individuare facilmente il carattere del personaggio messo in scena (Cfr., Luigi Bernabè Brea, Le maschere nella tragedia greca, Napoli 1998).Ricordiamo infine che in latino la parola persona significa appunto maschera.
Nella stessa direzione e con argomentazioni dettagliate ed a loro modo para-scientifiche va anche la dottrina dei temperamenti e delle complessioni, che dalla morfologia del viso si proponeva di ricavare la disposizione dell’animo, una disciplina che verrà conosciuta più tardi con il nome di Fisiognomica. Questa disciplina ha una importanza particolare per il Lomazzo che la descrive nel Libro II del suo Trattato al Cap. V che ha per titolo appunto: In quali corpi habbino più forza le passioni dell’animo. Egli parte dal presupposto dei quattro umori caratteristici dell’uomo e delle loro complessioni, e cioè spiega come i quattro umori influenzino l’aspetto somatico:
”Et per farlo veder più chiaro noi sappiamo ciascheduno corpo essere composto di quattro humori, che rappresentano i quattro elementi di flegma che rappresenta l’acqua, di melancolia, che rappresenta la terra, di cholera, & di sangue, de quali l’uno rappresenta il fuoco, e l’altro l’aria. Ora secondo che ciaschedun corpo sarà temperato, & constituito d’uno di questi quattro humori principalmente sì vedrà sempre; che tali in lui saranno gl’atti, e gesti, quali appunto sono gl’atti, o per più proprio dire, le qualità de l’elemento, à cui corrisponde l’humore di ch’egli è composto; & che in lui più de gl’altri prevale. Si che se sarà melancolico, e però d’elemento terreo, si vederanno in lui gl’atti pendenti, gravi, ristretti, sì come vedesi anco la terra pendente, grave,e ristretta; e conseguentemente i moti ansìj, noiosi, tristi, rigidi, pertinaci, e simili i quali tutti tendono al basso, e però muovono le membra , facendole pendere, e inchinarsi giù; e anco ristringere isieme come suol fare il freddo verno…Onde non si trouerà mai che un Corpo Marziale formato magro, Se grande, di membra rilevate, & dure, di gionture forte, & grosso d’ossa, non habbi il colore alquanto bruno, ma tinto di rossore adusto, bassa la fronte, larghi gli occhi, & di colore fiammeggiate e giallo ciglia grosse,le narici larghe,& aperte che gettano fumo in abondanza, la bocca grande, le labbra grosse, & rosse, la dentatura bella, l’orecchie picciole, il mento rilevato, i meloni,& le mascelle, il pelo oscuro, ma tendente al rosso infiammato, i capelli ricci asperi ,& inanellati…”.
Pensiamo ora ai visi ricorrenti nei dipinti del Merisi, alle vecchie servitrici, ai carnefici, agli apostoli; ad una specifica funzione all’interno del racconto corrisponde molto spesso lo stesso tipo di volto, questa attenzione alla fisiognomica andrà intensificandosi via via con il passare del tempo e nei quadri post-romani i volti diverranno sempre più sofferti, irrequieti, duri, quasi ridotti solo alle loro rughe, solo queste emergono dall’ombra. I suoi visi possono essere sgraziati ma sono indubbiamente caratteristici, tanto da imprimersi nella memoria, le pose dei suoi personaggi, come abbiamo visto, talvolta appaiono anatomicamente scorrette ma tuttavia esse riescono probabilmente anche per questo, come nel caso dei volti,irregolari, esasperati, a catturare la nostra attenzione. Caravaggio si comporta a questo riguardo esattamente come un regista che sceglie gli attori e li propone in determinati ruoli sulla base della forza icastica del loro viso, per l ‘ efficacia dell’ impressione che i loro tratti salienti possono suscitare nel pubblico.
Il Lomazzo arriva addirittura a suggerire al pittore l’artificio di deformare anatomicamente le figure che egli dipinge per ottenere l’effetto voluto sul pubblico :
”Per regola generale, dirò che fare gli errori nella proportione siano sopportabili, farà bene le mani, le dita più presto longhe che corte. La testa più presto piccola che grossa, che fu avvertenza di Lisippo, (ancora che Zeusi faceva sempre le teste grosse, onde anco ne fu tacciato) il petto più largo che stretto, i piedi più piccoli che grandi, le gambe più presto lunghe di stinchi che corte. Che perciò sono tolerate di cotal proportione in molti valenti huomini perchè accrescono bellezza alla beltà.”.
Anche l’altro grande pittore naturalista del periodo, Annibale Carracci, mostra lo stesso tipo di sensibilità quando esegue le sue famose caricature; anche lui infatti era fortemente attratto dalla capacità che hanno le deformazioni, vere od immaginarie, di delineare sinteticamente una persona. Il destino è nel carattere, diceva Eraclito, ed il carattere appunto si legge nei segni del volto, per questo motivo a determinati volti si accompagna sempre lo stesso tipo di destino.
Quando i lineamenti si estremizzano la loro capacità di rimanere nella nostra memoria si rafforza molto, e i volti diventano allora l’oggettivazione ideale e perfetta di una specifica personalità e da persona si fanno personaggio, cioè estrinsecazioni concrete ed esteticamente visibili di un carattere.
Michele FRAZZI Parma 10 Novembre 2024