di Claudio LISTANTI
Un Rigoletto nella Repubblica di Salò
La Stagione Lirica 2018-2019 del Teatro dell’Opera di Roma è stata inaugurata ad inizio dicembre da Rigoletto di Giuseppe Verdi, opera tra le più titolate e le più universalmente conosciute, non solo del grande musicista bussetano, ma del cospicuo repertorio del teatro per musica di tutti i tempi.
La scelta operata dal teatro lirico della capitale, guidato dalle esperte mani di Carlos Fuortes, che ha saputo dare alla storica istituzione musicale una spiccata, e felice, identità, basata proprio sulle proposte del grande repertorio operistico italiano ed internazionale, si è rivelata anche questa volta del tutto azzeccata soprattutto perché ha attirato presso il teatro un rilevante numero di spettatori, costituito sia dagli immancabili ‘melomani’ sia da molti giovani, tutti interessati alle straordinarie sensazioni ed all’emotività che una splendida partitura come questa riesce sempre a dare allo spettatore.
Al giorno d’oggi quando si parla di rappresentazioni di opere liriche il primo pensiero di chi ne entra in contatto va alla realizzazione scenica, elemento che ormai, su tutto il nostro pianeta, è divenuto strettamente sinonimo di ‘ricerca di novità’ lanciando così una sorta di ‘moda’ che vede protagonisti i realizzatori scenici, registi e scenografi, impegnati a trovare con evidente forzatura di intenti, una nuova lettura dell’azione contenuta nei libretti delle opere delle quali si prendono cura, dimenticando che, spesso, si trovano di fronte non solo a testi di evidente pregio drammaturgico ma anche a partiture di indiscutibile valore che ne esaltano i contenuti teatrali.
Anche questo Rigoletto che stiamo recensendo non è sfuggito a questa incredibile ‘regola’. Per l’occasione Daniele Abbado, artista responsabile di questo nuovo allestimento, ha spostato l’azione dal ‘500 dell’ipotetico Duca di Mantova del libretto di Francesco Maria Piave, all’Italia degli anni 40 dello scorso secolo, più precisamente alla travagliata epoca della cosiddetta Repubblica di Salò. Certamente l’ambientazione originale del libretto era in un certo senso ‘forzata’ in quanto motivi di censura fecero si che Verdi dovette rinunciare alla corte del Re di Francia, elemento già contestato a Victor Hugo autore di Le roi s’amuse, dramma al quale il musicista si ispirò, per ripiegare dal reale Francesco I verso un neutro ‘Duca di Mantova’ che comunque consentiva di non danneggiare il significato intrinseco della proposta verdiana rivolta a descrivere la dissolutezza della corte ed il ‘libertinaggio’ del principe. (Fig 1)
Gli autori di questa opera hanno quindi creato una rappresentazione che metteva ben in evidenza una corte dove esistevano certo depravazioni, immoralità, libertinaggio, ben circostanziati dalle azioni dei cortigiani e del Duca ma, comunque, una corte cinquecentesca, sfolgorante e grandiosa, tutte peculiarità focalizzate genialmente dalla musica di Verdi. Quella della Repubblica di Salò, non era una ‘corte’ di questo tipo, di splendore e luminosità non abbiamo testimonianze, soprattutto perché quello è stato uno dei periodi più bui e torbidi della nostra storia, generando così un attrito tra questi elementi molto ben evidente, inconveniente che purtroppo penalizzava un poco lo svolgimento dell’azione che, comunque, vista la sua universalità, è in qualche modo timidamente emersa. (Fig 2)
L’impianto scenico creato da Gianni Carluccio si giovava di alcuni elementi strutturali, posizionati a seconda delle necessità della rappresentazione e completato da appropriati costumi anni’40 di Francesca Livia Sartori ed Elisabetta Antico; assieme ai movimenti scenici approntati da Daniele Abbado non riuscivano ad essere incisivi come, per esempio, dare il senso di sfarzo che contiene la scena iniziale, nella quale i movimenti coreografici di Simona Bucci non hanno inciso più di tanto. Uno spettacolo, purtroppo, ‘anemico’ che non è riuscito ad essere in linea con la grande musica che Verdi creò e che fortunatamente riesce sempre a trionfare come, ma solo a titolo d’esempio, nello strepitoso III atto. (Fig 3)
Per quanto riguarda la parte musicale Daniele Gatti, da poco nominato direttore musicale del teatro romano, ma costretto da una improvvisa indisposizione a non salire sul podio per la recita del 6 dicembre della quale riferiamo, validamente sostituito da Stefano Ranzani, ha scelto di eseguire l’edizione ripulita da tutti quei fronzoli che oltre 150 anni di esecuzioni hanno assegnato a Rigoletto aprendo così anche i numerosi tagli nel tempo operati. Scelta opportuna vista con l’ottica del terzo millennio dove si pratica ovunque questa soluzione ma produttrice di esecuzioni asettiche se dimentichiamo che all’epoca del Rigoletto molto era affidato all’interpretazione dei cantanti e, forse, osare un po’ di più, vedi nelle ripetizioni delle cabalette o nei concitati finali, arricchirebbe il gusto ed il coinvolgimento scaturenti dall’ascolto della musica. Una freddezza che, purtroppo, è emersa anche in questa recita romana.
Il Teatro dell’Opera è riuscito a mettere in scena una compagnia di canto senza dubbio valida dove hanno ben figurato i tre personaggi principali come il Rigoletto dell’esperto Roberto Frontali, il Duca di Ismael Jordi dalla voce molto ben calibrata e duttile molto appropriata per la linea vocale assegnata al personaggio con Lisette Oropesa una Gilda di spessore dalla voce fresca e fiorita purtroppo penalizzata dalla discutibile scelta registica, in un momento topico come il ‘Caro nome’, che ha costretto la brava cantante ad esibirsi dal terzo piano della costruzione metallica che faceva da sfondo alla scena, con evidente disagio per gli spettatori e per la cantante stessa. (Fig 4 e Fig 5)
Buona la Maddalena di Alisa Kolosova mentre lo Sparafucile di Riccardo Zanellato ha dimostrato qualche difficoltà nelle note gravi. Tutte ben assortite le altre parti: Carlo Cigni (Monterone), Alessio Verna (Marullo), Saverio Fiore (Matteo Borsa), Daniele Massimi e Nicole Brandolino (Conte e Contessa di Ceprano), Leo Paul Chiarot (Usciere) e Michela Nardella (Paggio). Per quanto riguarda il pregevole progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma, era presente Irida Dragoti, brava Giovanna.
Bene l’Orchestra del Teatro dell’Opera assieme alla consueta, convincente prova del Coro diretto da Roberto Gabbiani, una esecuzione che Stefano Ranzani ha tenuto bene in pugno con tempi molto vivaci e coinvolgenti anche se dobbiamo confessare che non siamo in grado di dire quanto dell’impostazione di Gatti sia trasfusa nell’esecuzione da noi ascoltata.
Sostenuti applausi hanno salutato la fine della recita, prova della validità della scelta, applausi dedicati a tutti gli interpreti ma in particolare al coraggioso Stefano Ranzani per l’improvvisa sostituzione che ha permesso la regolare andata in scena dello spettacolo.
Claudio LISTANTI Roma dicembre 2018