di Giorgia TERRINONI
C’è una formidabile foto scattata da Robert Mapplethorpe a Louise Bourgeois nel 1982 – stampata solo nel 1991 – che ritrae l’artista più vecchia di quello che è, un sorriso leggermente enigmatico e la pelle del viso già molto segnata. Bourgeois però indossa una vistosa pelliccia nera piuttosto glamour e sotto il braccio destro regge, come se fosse una borsetta, un grosso pene. Così, mentre lo sguardo scende dal viso sobrio e incartapecorito dell’artista alla realistica ma sovradimensionata scultura del pene per poi risalire, quel sorriso enigmatico sembra sciogliersi in quel che potrebbe apparire come un misto di derisione e soddisfazione!
La ricerca di Louise Bourgeois mi piace e mi piace anche la donna Bourgeois che Mapplethorpe cattura perfettamente nella sua natura ambivalente, ma sono piuttosto allergica allo spirito celebrativo, per cui trovo un po’ stucchevole il trionfo che accompagna l’artista da una decina d’anni a questa parte. Un trionfo che, a mio avviso, finisce anche per appiattire e banalizzare il suo lavoro. Bourgeois è stata un’artista per circa 70 anni e va da sé che la sua ricerca non è tutta interessante, innovativa o riuscita. Per cui sarebbe auspicabile liberarla da questa dimensione di perenne retrospettiva!
In ogni caso, non potendo qui esaurire 70 anni di lavoro, provo a trarre qualche spunto per poi arrivare a parlare di una delle tre mostre che in questi mesi vedono il lavoro dell’artista approdare in Italia. Le mostre si dipanano – mi pare senza alcun tipo di collegamento e/o dialogo – tra Firenze, Roma e Napoli. Mi occuperò di quella romana, L’Inconscio della Memoria, da poco inaugurata alla Galleria Borghese e che ha una coda nel Salone di Lettura di Villa Medici.
Louise Bourgeois (1911-2010) è stata un’artista francese che ha vissuto però la maggior parte della sua vita a New York. Le vicende biografiche legate alla sua famiglia di origine e alla sua infanzia sono piuttosto rilevanti, non tanto perché particolarmente inedite ma in quanto alla base della maggior parte della sua ricerca. Louise è cresciuta a Parigi e dintorni, è figlia di due restauratori di arazzi e, fin da bambina, è stata coinvolta nell’attività di famiglia. Ha avuto un padre amatissimo il cui tratto distintivo è stato però l’infedeltà nei confronti della moglie – e di conseguenza dei figli – e una madre malata cronica, pure però nerbo della vita familiare, che ha preferito non guardare alle continue relazioni del marito portando avanti un doloroso ménage.
Louise ha particolarmente accusato la situazione familiare e in lei si sono presto fatti strada sentimenti pervasivi di abbandono, rabbia, gelosia e colpa che finiranno per diventare centrali nel suo lavoro. Il suo carattere, orientato al rigore e all’ordine, l’ha spinta verso la facoltà di matematica, che però abbandona sembrandole troppo teorica e finisce per iscriversi all’Acadèmie des Beaux-Arts. Una volta intrapresi gli studi artistici inizia a frequentare l’atelier di Léger, avvicinandosi così alla poetica surrealista e alla psicoanalisi. Nel 1938, insieme allo storico dell’arte Robert Goldwater che è suo marito, si trasferisce a New York e familiarizza subito con l’ambiente artistico internazionale che ha eletto la città americana a suo quartier generale.
Come ho scritto sopra, mi risulta piuttosto difficile approfondire qui un percorso tanto corposo qual è quello di Louise Bourgeois. Per questo mi limiterò a dire che dai tardi anni ’30 e almeno fino alla foto di Mapplethorpe è stata immersa nel milieu artistico più stimolante del mondo. Pure alcune delle sue opere più interessanti datano agli anni ‘90.
Si può forse riflettere a partire dal documentario sull’artista realizzato nel 2013 da Tracey Emin, Women Without Secrets. L’incontro tra le due donne è esplosivo: entrambe molto arrabbiate, spregiudicate e arroganti hanno usato l’arte per sbarazzarsi del passato. L’approccio all’arte per tutte e due è una sorta di confessione: basti pensare al letto disfatto di Emin (My bed, 1998) che, gonfio della disperazione dovuta alla fine di una relazione sentimentale, materializza lo spazio interiore in cui muore la logica e sopravvive solo la sofferenza. Sebbene nella pratica cristiana siano sempre gli uomini i depositari della confessione, nella pratica artistica e letteraria sono quasi solo le donne a caricare oggetti e parole di una dimensione confessionale.
Mi viene in tal senso di pensare a un bel libro di Patricia Esteban Erlés, Le Madri Nere, una sorta di oscuro racconto infantile riscritto per adulti in cui il dolore per la perdita dà forma a complesse e labirintiche architetture. Attraverso queste pratiche, oggetti e parole sembrano funzionare come un espediente per tenere intatte le maglie della sanità mentale. Ed è questo che ha fatto anche Bourgeois cercando di trasferire i propri stati emotivi nei materiali, quali che fossero. In questo modo è riuscita, allo stesso tempo, a nutrire e ad esorcizzare il trauma: ha materializzato ricordi ed emozioni al fine di liberarsi dalla loro presa psichica.
Arrivo all’esposizione romana che mi consente di dire altre due o tre cose sulla ricerca dell’artista francese. In mostra ci sono poche opere – tutte sculture e installazioni – ma perfettamente in grado di esaurire la ricerca di Bourgeois. L’Inconscio della Memoria è una bella mostra e le opere si calano all’interno dello spazio della Galleria Borghese finendo per appartenervi. L’allestimento arriva dritto al punto e questo, a mio avviso, vale per tutte le sculture esposte. Ci sono ben tre Cell che sarebbero una serie di architetture delle dimensioni di una o più stanze contenenti oggetti trovati e forme scolpite attraverso cui si dipanano alcune delle tematiche più care all’artista, quali quelle della memoria e del desiderio.
The Last Climb (2008) – collocata al centro del Salone d’Ingresso – apre il percorso espositivo: qui una scala a chiocciola è circondata da una gabbia di rete metallica che crea uno spazio-filtro, una cella appunto.
La scala proviene dallo studio newyorkese dove Bourgeois ha lavorato per oltre 25 anni e che ha dovuto lasciare nel 2005 perché l’edificio era soggetto a demolizione. Nella cella l’artista ha collocato anche altri oggetti carichi di rimandi: sul pavimento stanno due grandi sfere di legno a simboleggiare i suoi genitori; intorno alla scala sfere di vetro blu fluttuano innalzandosi. Più alta è la loro posizione, più grandi sono le sfere, quasi fossero bolle che si espandono durante la salita. Sospesa al centro c’è una lacrima allungata, anch’essa blu, che rappresenta l’artista. La lacrima è perforata da aghi filettati collegati a bobine posizionate intorno alla gabbia: l’immagine rimanda al laboratorio di famiglia che Bourgeois frequentava da bambina.
Meno rassicurante è l’immaginario che emerge da Passage Dangereux (1997), la cella più grande realizzata dall’artista e installata nel Salone di Lanfranco.
Al suo interno, articolato in più camere, prende forma una narrazione che ha per protagonista una ragazza immaginaria alle prese con vari riti di passaggio che, tutti, sembrano alludere alla rottura dell’incanto infantile. Diversi scenari sono saldati insieme: le sedie per bambini, un banco di scuola e un’altalena rinviano all’infanzia; le ossa di animali conservate in sfere di plastica si riferiscono all’impermanenza; una sedia elettrica allude a colpa e punizione…Nell’ultima camera una coppia è rappresentata nel momento dell’atto sessuale e qui riecheggia la paura nei confronti del sesso che l’artista bambina equipara alla morte.
All’esterno, nei Giardini Segreti si trova uno dei celebri ragni bronzei di Bourgeois (Spider, 1996). In questo periodo dell’anno all’imponente quanto esile scultura si arriva passando attraverso un trionfo di fioritura, un volteggiante tappeto di hibiscus e bella di notte.
Lo scenario è a dir poco incantevole e, anche in questo caso, l’opera sembra appartenere al luogo e riesce ad emanare quella natura tutt’altro che minacciosa che l’artista attribuisce al ragno. La serie dei ragni segna l’identificazione con la madre. Il ragno – animale creatore per eccellenza, che tesse e protegge – è spesso portatore di ambivalenze: buono/cattivo, forte/debole, sicuro/pericoloso…In Bourgeois, tuttavia, l’animale non è segnato da ambivalenza e, anzi, sembra portatore di un’idea di connessione, alla stregua della madre dell’artista, seminatrice, arazziera e nerbo della vita familiare.
Tutte le altre opere esposte – le sculture biomorfe e falliche, i calchi delle mani dell’artista intrecciate con quelle di Jerry Gorovoy, suo caro amico e assistente (The Welcoming Hands) e le teste di stoffa rispecchiano quanto si è già detto in termini di coerenza e adesione della mostra. Insomma, la Galleria Borghese resta un luogo magnifico nonostante le frotte di turisti in ciabatte che la invadono, i lavori di Bourgeois sono potenti, l’allestimento è giusto sia dal punto di vista dello spazio che dei rimandi. L’horror vacui concepito dal cardinale Borghese ingloba e valorizza anche l’arte di Louise Bourgeois.
Però l’insistenza da parte dei curatori a voler vedere a tutti i costi una stringente connessione con il tema della metamorfosi e con l’arte italiana mi sembra un po’ pretestuosa. È vero che le mostre di arte contemporanea allestite alla Galleria Borghese cadono spesso sotto il segno della metamorfosi, è pur sempre il museo di Apollo e Dafne. Tale connessione era perfetta nel caso di Archaeology Now, la mostra del 2021 dedicata alla serie Treasures from the Wreck of the Unbelievable ideata da Damien Hirst. Qui la collezione immaginata dall’artista britannico costituiva un pendant perfetto e il liberto rozzo ma ricco Cif Amotan II era un po’ l’altra faccia della medaglia del collezionista visionario e raffinato che è stato Scipione Borghese. D’altro canto, giocando a rifare il mito dell’arte, Damien Hirst aveva proprio in mente il grande collezionismo del passato.
Ma nella mostra di Bourgeois tutto questo non c’è e lo si evince già dal titolo, L’Inconscio della Memoria: il suo lavoro ha più a che fare con la trasformazione, che è altra cosa dalla metamorfosi.
Giorgia TERRINONI Roma 30 GIUGNO 2024