di Claudia RENZI
Come, dove e quando, esattamente, è morto Caravaggio?
La fine del più grande pittore del Seicento (Fig. 1) è, nonostante le ricerche, ancora avvolta nel mistero. Unica cosa certa è che Caravaggio scomparve il 18 luglio 1610 e non tornò più né a dipingere né a reclamare i suoi beni rimasti sulla feluca con la quale doveva fare ritorno a Roma e che invece rientrò a Napoli senza di lui.
Va ipotizzato che in quell’estate, da qualche parte tra alto Lazio e Toscana, il trentottenne Michelangelo Merisi andò incontro ad una morte prematura e per certi versi ancora nebulosa: non è infatti nemmeno certo che il luogo della morte sia stata la spiaggia della Feniglia, all’Argentario, o Porto Ercole o altrove tanto che negli anni sono state avanzate le ipotesi alternative di Palo e Civitavecchia[1].
Com’è noto, l’evento scatenante della fuga da Roma di Caravaggio e, forse, anche della sua morte, fu l’uccisione non premeditata di Ranuccio Tomassoni, rissoso giovane con il quale il pittore aveva sempre avuto un rapporto conflittuale e con cui aveva in comune la frequentazione con Fillide Melandroni, cortigiana modella di Caravaggio della quale Tomassoni era amante e lenone[2], se non anche quella con Lavinia Iugoli, moglie dello stesso Ranuccio[3].
L’uccisione di Ranuccio ebbe luogo domenica 28 maggio 1606 in Campo Marzio, nelle immediate vicinanze di via della Scrofa, a Roma: quel giorno particolare era la vigilia del primo anniversario dell’incoronazione di Paolo V Borghese (eletto il 17 maggio 1605, era stato incoronato in San Pietro il giorno 29 maggio, solennità di Pentecoste); i preparativi per la festa e la conseguente distrazione dell’attenzione generale sembrano essere stati il pretesto perfetto per un duello[4], se non per un vero e proprio regolamento di conti.
Non è chiaro né chi abbia cominciato, né la natura esatta della disputa[5]: quel che è certo è che le bande erano composte da quattro membri ciascuna (da un lato Caravaggio, Onorio Longhi, Petronio Troppa capitano bolognese e un mai identificato “N. N.”[6]; dall’altro Ranuccio, suo fratello Giovanni Francesco, Ignazio e Federico Iugoli, cognati di Ranuccio) e che Ranuccio e Michelangelo rimasero feriti.
Caravaggio, con una stoccata, causò un’emorragia femorale al rivale mentre era a terra[7] e Ranuccio morì di lì a poco scatenando la reazione incontrollata del fratello Giovanni Francesco che oltre a colpire Michelangelo alla testa[8], ferì gravemente Petronio Troppa, il solo che, per le sue condizioni, non poté darsi alla macchia e fu tradotto quindi nelle carceri di Tor di Nona.
Se si escludono un presunto debito non saldato che Ranuccio aveva nei confronti di Caravaggio[9] e Fillide o Lavinia, causa dello scontro può davvero essere stata soltanto una diatriba su un fallo di gioco come annota Baglione ? [10]
Dopo il tragico evento il pittore, colpito da bando capitale – che non sempre significava condanna a morte, poteva anche consistere nella sola espulsione da Roma per un periodo di circa cinque anni o, in casi molto gravi, nell’esilio (Caravaggio rientrava, probabilmente, nel primo caso)[11] – fu trasportato, ferito, a Palazzo Colonna[12] per poi riparare nei possedimenti laziali della famiglia Colonna tra Zagarolo[13], Palestrina[14] e Paliano[15], aiutato dalla sua patrona Costanza Sforza Colonna. Poco dopo Caravaggio sostò a Napoli per quello che è definito il suo “primo periodo napoletano”, per poi approdare a Malta dove riuscì a farsi investire Cavaliere (Fig. 2).
Dopo quasi un anno sull’isola Caravaggio fu tuttavia espulso dall’Ordine dei Cavalieri di Malta e rinchiuso nella prigione di massima sicurezza dell’isola, dalla quale riuscì a fuggire il 6 ottobre 1608 riparando in Sicilia, dove rimase quasi un anno; nel frattempo, nel dicembre 1608, era stato spogliato in abstentia dell’abito, mentre a Roma il cardinale Scipione Borghese si adoperava per ottenere da suo zio Paolo V la grazia che gli avrebbe consentito di tornare nell’Urbe: dato che il procedimento per l’uccisione di Ranuccio era giurisdizione del Tribunale del Governatore di Roma, le cui decisioni erano inoppugnabili, soltanto il Papa avrebbe potuto, intervenendo direttamente, revocarne le sentenze[16].
Nel viaggio di ritorno verso Roma, mentre sostava di nuovo a Napoli, nell’ottobre 1609, il pittore fu assalito da alcuni sconosciuti che miravano forse alla sua vita, riuscendo a salvarsi soltanto grazie alla sua notevole abilità con la spada.
Chi aggredì Caravaggio e per quale motivo? Ma, soprattutto, chi aveva mandato quegli uomini? Su questo punto nessuna fonte è chiara, anzi la confusione è tale da avere, più o meno volontariamente, contribuito a generare la leggenda del pittore maledetto.
È necessario fare un passo indietro: perché Caravaggio fu espulso dall’Ordine dei Cavaleri di Malta? Se ciò non fosse mai avvenuto, egli avrebbe potuto attendere sull’isola la grazia dal Papa e tornarsene poi direttamente a Roma. Paolo V era infatti perfettamente al corrente su dove si trovasse il “ricercato” poiché, per investirlo Cavaliere, il Gran Maestro dell’Ordine Alof de Wignacourt dovette scrivergli per informarlo e per farsi accordare il consenso: la lettera del dicembre 1607[17] tratta infatti dell’ammissione all’Ordine di un innominato personaggio definito tuttavia “virtuosissimo” che, per via del riferimento a un delitto – Wignacourt domanda che al candidato “non li hobsti l’aver in rissa commesso un homicidio” – è stato identificato con Caravaggio[18].
Il pittore sembra essere stato bene accolto e benvoluto a Malta, ed era stato reputato idoneo al Cavalierato di Obbedienza Magistrale, riservato a valenti personalità che tuttavia non avevano nessuna ascendenza nobiliare, in pratica una carica onorifica senza grande peso politico (i Cavalieri di Obbedienza Magistrale potevano indossare l’abito nero con la croce bianca, godevano di una piccola pensione e di vitto e alloggio quando risiedevano in “convento”, cioè sull’isola), ma d’un tratto accadde qualcosa che ruppe l’idillio.
Per lungo tempo si è favoleggiato sulla possibile causa dell’espulsione dall’Ordine di Caravaggio definito “membro fetido e putrido”[19], ma va precisato che tale formula era standard e che l’espulsione era reversibile. Non potendo sapere con esattezza cos’era successo – il pittore morì prima di poter tornare a Roma e raccontarlo – il gossip si era però nel frattempo scatenato, tanto che l’aggressione subita al Cerriglio a Napoli nel 1609 parve a molti biografi l’ideale prosecuzione dell’affaire maltese e già all’indomani le notizie avevano preso a galoppare a briglia sciolta: alcuni Avvisi lo volevano pesantemente sfregiato ma vivo[20], altri morto sotto la lama dei sicari[21].
A questo punto, analizzando in dettaglio le “biografie” scritte sul pittore, le incongruenze risultano essere davvero molte.
A scrivere una “Vita” di Caravaggio sono una manciata di autori, appena sette per quanto attualmente noto.
Karel Van Mander, pittore, nel 1604 pubblicò il suo Libro sulla pittura, dedicando alcune pagine a Caravaggio[22]. Si tratta dell’unica, seppure sommaria, biografia su Michelangelo Merisi pubblicata stante il pittore in vita, sebbene Van Mander non fosse a Roma e si basasse su informazioni che gli inviavano alcuni corrispondenti. Con simili presupposti, le prime notizie fuorvianti erano servite: Caravaggio non disegnava, era “molto incline a zuffe e litigi”, ecc. Per ovvi motivi Van Mander non tratta della morte del pittore, ma aveva già in qualche modo contributo al suo ritratto a tinte fosche.
Il manoscritto di Gaspare Celio, recentemente rinvenuto, risale al 1614[23] e contiene un’affermazione che, se confermata da riscontri con altre future scoperte, sarebbe eclatante, ovvero che
“Michelangelo da Caravaggio cominciò in Milano ad attendere alla pittura ma havendo ucciso un suo amico, se ne andò a Roma”.
Sia Mancini che Bellori riprenderanno la notizia nei loro appunti, senza tuttavia attribuirle troppo peso: Mancini annoterà l’episodio in postille a margine del manoscritto marciano alla stregua di un pettegolezzo tutto da verificare, mentre Bellori, che non si può certo annoverare tra gli estimatori di Caravaggio e che in una postilla alle Vite di Baglione presso la Biblioteca Corsiniana aveva annotato
“Macinava colori in Milano et apprese a colorire et per haver ucciso un suo compagno fuggì dal paese”,
opterà nella sua pubblicazione definitiva per un ancor più cauto:
“Essendo egli d’ingegno torbido e contensioso, per alcune discordie fuggitosene da Milano, giunse a Venezia”.
Ovvero Celio sembra risultare poco attendibile, almeno su questo punto, persino per due suoi primi lettori e poi colleghi: per lui Caravaggio era un modello negativo da non emulare. È significativo, infine, che finanche Giovanni Baglione salti a pie’ pari il presunto episodio: possibile che Giovanni, tanto acerrimo verso Michelangelo, si sia lasciato sfuggire occasione di sbandierare la vicenda, proponendola anche soltanto come insinuazione? E Sua Eminenza Scipione Borghese, il grande patrono del pittore, davvero avrebbe potuto essere all’oscuro di un fatto tanto grave, qualora realmente accaduto, o non averne inteso mai nemmeno la minima chiacchiera? Ricerche negli archivi milanesi non hanno portato alla luce nulla che avvalori l’annotazione di Celio: dunque, allo stato attuale delle conoscenze la notizia va considerata infondata.
Sulla morte di Caravaggio Celio dice ancor meno, appena un laconico:
“Tornando a Roma, favorito dal Marchese Giustiniani, nelle spiagge di Terracina […] tutto collerico gli prese la febbre et sopra la rena del lito fenì di vivere”.
Oltre che per la località (Terracina), la biografia di Celio differisce rispetto alle successive anche per il riferimento al marchese Vincenzo Giustiniani, che sarebbe dunque da considerare, al posto di Scipione Borghese, il principale paladino di Caravaggio nelle trattative per il suo rientro a Roma, facente parte attiva insomma di quegli “aiuti gagliardi” di cui godeva il pittore riferiti da Mancini[24].
La terza biografia nota è quella del medico Giulio Mancini che, apparentemente, imputò la morte prematura del pittore a una “febbre maligna”[25] sebbene poche righe sopra avesse scritto “Per alcuni eventi – corse pericolo di vita che, per salvarsi, aiutato da Onorio Longo, ammazzò l’inimico – fu necessario fuggirsi di Roma” [grassetto mio], per poi concludere
“Non si può negare che fosse stravagantissimo, e con queste sue stravaganze non si sia tolto qualche dicina d’anni di vita.”.
La terza è la biografia di Giovanni Baglione, pittore e Cavaliere.
Baglione conosceva bene Caravaggio, ne fu com’è noto dapprima seguace e poi nemico e lo accuserà, assieme agli amici Onorio Longhi e Orazio Gentileschi, di averlo calunniato; gli imputati subiranno un processo di cui abbiamo tutti gli atti. Proprio per via di questa conoscenza degenerata, tuttavia, la biografia di Baglione non è del tutto oggettiva, anzi a tratti trasuda ancora, a distanza di anni, risentimento verso il vecchio, ideale maestro.
Dalle pagine di Baglione, nell’aggressione napoletana, spunta un misterioso Cavaliere:
“E quivi [a Malta] havendo un non so che disparere con un Cavaliere di Giustizia, Michelangelo gli fece non so che affronto e però ne fu posto prigione, ma di notte fuggì & arrivato all’isola di Sicilia operò alcune cose in Palermo; ma per esser perseguitato dal suo nemico convennegli tornare alla città di Napoli e quivi ultimamente [alla fine] essendovi da colui raggiunto fu nel viso così fattamente ferito che quasi più non si riconosceva”[26].
Baglione tira in ballo un oscuro Cavaliere di Giustizia – ovvero professo, che doveva attenersi ai voti di povertà, castità e obbedienza: sembra quasi che Baglione, con questa specifica, abbia voluto contrapporre a Caravaggio un Cavaliere di più alto rango per minimizzare il suo – che addirittura aveva abbandonato l’isola e la carriera per seguire Michelangelo in Sicilia per sfregiarlo infine a Napoli lasciandolo tuttavia in vita.
Com’è noto Caravaggio è rimasto circa un anno in Sicilia: perché non tentare di eliminarlo lì? Se il movente era tanto forte da seguirlo per mezza penisola perché risparmiarlo a Napoli, invece di finire il lavoro? Su questo Baglione tace, ma chiude la sua biografia con una sentenza lapidaria e piena di astio: “Morì malamente, così come appunto male havea vivuto.”.
Giovanni Pietro Bellori, paladino del classicismo, com’è noto non amava particolarmente Caravaggio e seppure non potesse negarne il talento, manifestò spesso una tendenza a sminuirne l’arte e la persona. Pubblicò le sue Vite nel 1672, scrivendovi
“Il suo torbido ingegno lo fece cadere da quel prospero stato [di Cavaliere di Malta] e dalla benevolenza del Gran Maestro, poiché venuto egli importunamente a contesa con un cavaliere nobilissimo fu ristretto in carcere […] fuggì sconosciuto in Sicilia […] Navigò di nuovo a Napoli […] e cercando di placare il Gran Maestro gli mandò in dono una mezza figura di Herodiade con la testa di San Giovanni nel bacino. Non gli giovarono queste sue diligenze perché fermatosi egli un giorno su la porta dell’osteria del Ciriglio, preso in mezzo da alcuni con l’armi, fu da essi maltrattato e ferito nel viso.”.
Il Cavaliere evocato da Baglione è citato in Bellori per la fantomatica contesa ma non quale inseguitore e, in tal senso, al suo posto compaiono alcuni armati che aggrediscono il pittore a Napoli e che con Malta non sembrano avere alcun legame, a meno che non si voglia leggere la stretta consequenzialità delle frasi “gli mandò in dono una mezza figura di Herodiade […] Non gli giovarono queste sue diligenze” come un (secondo Bellori) legame diretto tra il presunto scorno del Gran Maestro e l’agguato al Cerriglio.
La Vita di Michel Angelo Maragi da Caravaggio pittore di Jaochim von Sandrart è data alle stampe nel 1675[27]. Come van Mander e Baglione, Sandrart era pittore e per un periodo visse a Roma dove poté vedere dal vivo molte opere di Caravaggio.
La sua versione della morte del genio lombardo si discosta dalle precedenti ed è, se possibile, ancor più colorita:
“Avvenne che Giuseppe d’Arpino [nella cui bottega Caravaggio lavorò appena giunto a Roma] andava a cavallo a palazzo e lo incontrò Michelangelo da Caravaggio; questi lo apostrofò gridando a gran voce che era il momento per chiuder con la spada la loro vecchia lite. Ma Giuseppe rispose che a lui, nominato cavaliere dal papa, non conveniva entrare in lite con uno che non era cavaliere […] Queste parole sconvolsero così tanto Caravaggio che vendette agli ebrei tutte le sue cose e si recò a Malta dal Gran Maestro con il proposito di diventare anch’egli presto cavaliere […] e non appena fu nominato Cavaliere si affrettò verso Roma. Ma questa fretta gli provocò una forte febbre e proprio ad Arpino, dove il suo avversario era nato, arrivò ammalato e morì.”.
A parte l’introduzione degli ebrei, per il tedesco la questione era tutta tra Michelangelo e il suo primo maestro a Roma, quel Giuseppe Cesari poi noto come Cavaliere d’Arpino: Sandrart non cita infatti né Malta né i suoi Cavalieri e nemmeno l’aggressione a Napoli o la morte in Toscana.
Dai primi dispacci alle righe di Sandrart la mistificazione si è già gonfiata all’inverosimile, infiorettata con mirabile fantasia, ma l’acme del travisamento è raggiunta nell’ultima biografia, opera del siciliano Francesco Susinno, pubblicata nel 1724[28].
Susinno narra che
“Michelangelo colla croce [di Malta] in petto non lasciò la torbidezza del suo naturale anzi […] ardì un giorno competerla con alcuni cavalieri, ed affrontatone uno di Giusizia […] fuggì in Sicilia […] Andava perduto nei giorni festivi appresso a un certo maestro di grammatica detto don Pepe: guidava questi li suoi scolari a divertimento verso l’arsenale. In tal luogo Michele andava osservando gli atteggiamenti di que’ ragazzi scherzanti per formarne le sue fantasie [i suoi quadri cioè, ndA]. Indispettitosi di ciò sinistramente quel maestro ispiava perché sempre gli era di attorno. Questa domanda disgustò fieramente il pittore e quindi tal ira e furore trascorse che, per non perdere il nome di folle, die’ a quell’uomo dabbene una ferita in testa; per il che viddesi suo malgrado forzato a partir da Messina […] Di novo andò a Napoli ed ivi inseguito dal suo antagonista offeso fu malamente ferito nel viso.”.
Il cavaliere di Baglione si trasforma, nella penna di Susinno, in un maestro di scuola che da uomo “dabbene” muta in giustiziere pazzo e insegue e sfregia Caravaggio – lui sì abile spadaccino – in quel di Napoli, dove lo ha non è chiaro come inseguito, per poi sparire nel nulla. Del resto Susinno è colui che inventa di sana pianta l’episodio secondo cui, per dipingere la Resurrezione di Lazzaro (1608-9, Messina, Museo Regionale) Caravaggio avrebbe fatto riesumare – con quale autorità non è chiaro – un cadavere imponendo a due aiutanti di sorreggerlo mentre lo ritraeva e poi, insoddisfatto, avrebbe squarciato la tela con un pugnale[29].
Questo breve excursus è indicativo di quanto la corruzione delle fonti possa inquinare la percezione dell’artista e, a volte, come si vedrà, anche della sua opera: è evidente che, seguendo il sentiero di briciole lasciato dai biografi, ci si accorge che molte, troppe di esse si sono perse per strada e che è impossibile ricostruire la verità affidandosi soltanto ai loro in molti casi discutibili scritti.
Anche attorno alla possibile causa per la quale Caravaggio fu espulso dall’Ordine dei Cavalieri di Malta, infatti, si è molto speculato ipotizzando perfino un’improbabile contesa tra il misterioso Cavaliere d’alto rango e il pittore per le grazie del paggetto effigiato nel Ritratto del Gran Maestro Alof de Wignacourt e paggio (1607, Parigi, Musée du Louvre)[30], che in realtà dovrebbe essere Alessandro Costa, figlio del banchiere Ottavio, uno dei primi committenti romani di Caravaggio[31], tanto che solamente una scoperta d’archivio avrebbe potuto spazzare via le illazioni, cosa che avvenne nel 2002 quando lo studioso Keith Sciberras rinvenne i documenti utili a chiarire, finalmente, il vero motivo dell’incarcerazione di Caravaggio a Malta e della conseguente espulsione dall’Ordine: si è trattato di una questione squisitamente politica, una vera e propria rissa tra cavalieri filospagnoli e altri filofrancesi avvenuta la notte del 18 agosto 1608 in casa di Prospero Coppini, organista di San Giovanni Decollato, durante la quale uno di essi, Fra’ Giovanni Rodomonte Roero, rimase ferito[32].
Per statuto dell’Ordine aggredire in qualche modo un confratello era un atto piuttosto grave: dato che Caravaggio fu tradotto a Forte Sant’Angelo (da cui evase, aiutato forse da Fabrizio Sforza Colonna, figlio della marchesa Costanza, nell’ottobre successivo) si deve presumere che abbia partecipato attivamente alla rissa – sebbene non sia stato lui a ferire materialmente Roero[33] –, altrimenti gli sarebbe stato consentito di attendere libero la celebrazione del processo[34].
La fuga dall’isola o anche il solo allontanamento senza il consenso del Gran Maestro comportava la privatio habitus e l’istituzione di una Commissione Criminale che avrebbe aperto un’inchiesta sul caso[35], tuttavia in Sicilia Caravaggio si presentò ovunque come Cavaliere[36] (sconfessando implicitamente Bellori circa una fuga da criminale: “fuggì sconosciuto in Sicilia”) né sembra essersi sentito mai braccato dato che vi è rimasto circa un anno soddisfacendo nel frattempo diverse commissioni[37].
Ma è davvero stato un non meglio identificato Cavaliere di Malta ad aver attentato per chissà quale ignoto motivo alla vita di Caravaggio a Napoli nel 1609, contravvenendo tra l’altro al divieto di lasciare l’isola senza il permesso del Gran Maestro e senza che se ne sia mai trovata traccia in qualche documento?
Probabilmente il mandante dell’aggressione e, forse, della morte di Caravaggio è da cercare altrove.
Prima di poter rientrare a Roma, infatti, il pittore e i familiari del defunto Ranuccio (che Baglione, per nulla fazioso, definisce “giovane di molto garbo”[38]!) dovevano pervenire a una sorta di “pace” per procura[39], dunque nel momento in cui Caravaggio era a Napoli i Tomassoni, che avevano un movente e del cui rancore, non essendoci santi in famiglia, non c’è ragione di dubitare, sapevano esattamente dove il pittore si trovasse.
Caravaggio ignorava che Paolo V aveva concesso la grazia ma era consapevole che, una volta rientrato a Roma, sarebbe stato al sicuro da ogni vendetta. Purtroppo, lo erano anche i suoi nemici: quindi chi lo voleva morto doveva provarci prima che rimettesse piede nello Stato Pontificio, sotto l’ala rapace e potentissima del cardinale nipote Scipione Borghese, o mai più. Ed ecco che Caravaggio viene aggredito all’uscita dell’osteria del Cerriglio a Napoli, che per i Tomassoni era abbastanza vicina da fornire l’occasione perfetta per una rivalsa: forse Michelangelo doveva morire lì quella sera, e se ad aggredirlo sono stati dei sicari mandati dai parenti di Ranuccio[40], sono stati talmente abili da non farsi individuare da nessuno, rimanendo nell’ombra del mero sospetto tanto che ancora oggi se ne dibatte.
La morte drammatica e prematura di Ranuccio, per quanto senz’altro non intenzionale, ha avuto ripercussioni a mio avviso anche sull’arte di Caravaggio, anch’essa spesso e volentieri fraintesa se non volutamente travisata: soltanto così trova spiegazione l’insolita mestizia che caratterizza il volto di David nel David e Golia oggi in Galleria Borghese (Fig. 3) la cui datazione, generalmente fissata al 1610, è piuttosto da anticipare al 1606, post 28 maggio.
Non esistono documenti, a parte un pagamento del 1613 per una cornice[41], per questa tela spesso pretesa l’ultima di Caravaggio e considerata una sorta di testamento in cui l’artista avrebbe espresso il suo disagio di reo condannato a morte ritraendosi nel gigante Golia appena decapitato[42].
Iacomo Manilli fu il primo a sostenere che nella testa di Golia Caravaggio “volle ritrarre sé stesso e nel David ritrasse il suo Caravaggino (?)”[43], generando con quest’espressione a dir poco fumosa un’altra infinità di speculazioni spazzate via però dall’accostamento tra il volto di David e il precedente autoritratto che il pittore ha lasciato nel Martirio di san Matteo (1599, Roma, San Luigi dei Francesi – Fig. 4)[44], che dimostra inoppugnabilmente come Caravaggio nel dipinto oggi in Galleria Borghese abbia ritratto sé stesso prima di tutto nel David: i connotati, baffi e barba a parte, combaciano infatti perfettamente (Fig. 5).
Nel David e Golia Borghese Caravaggio si è dunque autoritratto come vittima e come carnefice[45] ma balza all’occhio come, a differenza di altri quadri con lo stesso tema (Vienna e Madrid), qui David abbia un’espressione tutt’altro che fiera; non c’è nulla della soddisfazione che ci si aspetterebbe da un eroe che ha compiuto la propria impresa, anzi sembra rivolgere alla sua vittima uno sguardo compassionevole, tragicamente consapevole che il male a volte si può commettere senza intenzione. Cosa può voler dire un simile duplice autoritratto?
Confrontando i lineamenti di Michelangelo noti da autoritratti e da ritratti certi, come quello nel già ricordato Martirio di San Matteo, e quelli nel Bacchino malato, ne I musici, nel Ragazzo morso da un ramarro[46], nella Presa di Cristo, nel Martirio di Sant’Orsola e, forse, anche nel Nettuno del Casino Del Monte-Ludovisi così come nel bel ritratto lasciato da Ottavio Leoni e in quello recentemente riscoperto di Battistello Caracciolo nell’affresco Incontro di Gonzalo de Cordoba con gli ambasciatori di Napoli al Palazzo Reale di Napoli (Fig. 6), si riscontra una seppur minima differenza col volto di Golia nel dipinto Borghese:
il volto del gigante (Fig. 7), comprensibilmente stravolto dalla evidente ferita alla fronte (non va dimenticato che Caravaggio, nello scontro fatale con Ranuccio, riportò ferite alla testa – cfr. Nota 8), sembra infatti essere qui un autoritratto più rarefatto, edulcorato rispetto ai suddetti; la bocca non presenta, forse perché è aperta, quella carnosità che si nota, ad esempio, nel Bacchino malato e che si ritrova sia nell’autoritratto nel Martirio di san Matteo che nel viso del David, ecc. Se fossero noti i lineamenti di Ranuccio indagherei insomma piuttosto su una sorta di possibile fusione dei due volti, quello dell’(involontario) assassino e quello della (imprevista) vittima. Fondere nel viso dell’ucciso Golia i propri lineamenti con quelli di Ranuccio chiarisce anche perché Michelangelo-David volga lo sguardo in direzione della sua vittima Ranuccio-sé stesso-Golia con un’altrimenti incomprensibile aria dolente (Fig. 8).
L’interpretazione sembra trovare conferma anche nella sigla – H AS OS, da leggere in chiave agostiniana Humilit as occidit superbiam[47] – incisa sulla lama della spada retta da David, che il pittore si premura di porre in bella vista; sigla latrice di un messaggio alludente alla volontà di rimediare all’errore fatto, con la speranza (nel suo caso vana) di poter avere una seconda occasione.
Se la lettura psicologica “precoce” del David e Golia Borghese è, come tutto induce a credere, corretta, c’è da ritenere dunque che il quadro sia stato eseguito “a caldo”, sull’onda emotiva del disastro, ovvero tra la seconda metà del 1606 e il 1607 al massimo[48].
Bellori, che non si sofferma sui lineamenti di David ritenendo che il pittore si fosse autoritratto piuttosto soltanto nella testa mozzata di Golia (“la testa di golia (che è il suo proprio ritratto)”[49]), contribuì all’equivoco sulla datazione del dipinto asserendo che esso era stato eseguito “per il cardinale Borghese” suscitando in tal modo la suggestione di una commissione diretta di Scipione in cambio della sua intercessione per la grazia in vista dell’imminente rientro a Roma nel 1610 del pittore concorrendo tra l’altro anche al rallentamento della comprensione del suo reale significato. Sarebbe d’altro canto difficile credere che nel 1610, a distanza di quattro anni dall’omicidio di Ranuccio, diventato Cavaliere di Malta e praticamente graziato da Paolo V, Caravaggio fosse ancora tanto emotivamente scosso per aver causato la morte del contendente da dipingere un quadro di tale intensità drammatica autoritraendosi come carnefice e vittima, fondendo nel volto di quest’ultima i propri lineamenti con quelli dell’uomo che aveva accidentalmente ucciso.
Probabilmente, dunque, il David e Golia Borghese non è affatto l’ultimo dipinto di Caravaggio ma va ritenuto che l’artista, dopo la precipitosa fuga da Roma, l’abbia realizzato fra Zagarolo, Palestrina e Paliano o forse a Napoli per poi forse prometterlo, in un secondo momento, al cardinal nipote Scipione Borghese (c’è da domandarsi, al limite, perché Caravaggio non gliel’abbia inviato subito: forse perché giunto a Napoli, trovatosi inaspettatamente bene e con un buon numero di commissioni, ha ritenuto di aver abbastanza agio per far passare il tempo necessario a commutare la pena di morte in esilio per poi tornare a Roma e darglielo di persona?).
La datazione del David e Golia Borghese non può essere così estrema da collocarsi tra 1609 e 1610 nemmeno per questioni stilistiche: va rilevato infatti che, graficamente parlando, la posa di David è identica, ma speculare, a quella del boia che esibisce la testa di San Giovanni Battista nel Salomè con la testa del Battista (Londra, National Gallery) che risale al 1607; va quindi ritenuto che il David e Golia sia precedente a questo, essendone la matrice. Che il David e Golia preceda il Salomè con la testa del Battista me lo fa credere una constatazione di tipo squisitamente psicologico: Caravaggio era destrimano, e il David tiene la spada nella mano dx, ovvero un destrimano si autoritrarrebbe (o farebbe mettere in posa un modello) tenendo la spada con la mano che è solito usare; invece nel Salomè con la testa del Battista di Londra il boia esibisce la testa di Giovanni con la dx e impugna l’arma con la sx, cosa abbastanza insolita essendo la maggior parte degli spadaccini destrorsa; quindi qui Caravaggio ha semplicemente, con ogni evidenza, reimpiegato un cartone – il cartone del David e Golia – ribaltandolo[50].
In conclusione la misteriosa morte di Caravaggio è forse stata il probabile compimento del lavoro lasciato a metà al vicolo del Cerrigilio a Napoli eseguito in tale segretezza, favorita dalla nefasta combinazione tra corruzione delle fonti, carenza di documenti e depistaggi, che a tutt’oggi non si sa con certezza né dove sia effettivamente avvenuta né che fine abbia fatto davvero il suo corpo[51] o chi o cosa realmente ne sia stato la causa.
© Claudia RENZI, Roma, 28 gennaio 2024
NOTE
[1] Vincenzo Pacelli, L’ultimo Caravaggio 1606-1610. Il giallo della morte: un omicidio di Stato?, Todi, 2002.
[2] Maurizio Marini, Caravaggio pictor praestantissimus, Roma, 2005, p. 67.
[3] M. Marini, op. cit., 2005, p. 118, n. 333.
[4] Daniele Balduzzi, Via da Roma: l’omicidio e la fuga, in: Michele Di Sivo, Orietta Verdi (a cura di), Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, Roma, 2011, pp. 143-147, p. 146.
[5] Rispettivamente definita come “contesa”, “questione”, “rissa”, in: Biblioteca Apostolica Vaticana (d’ora in poi BAV), Ms. Chig. N.II.36, f. 102v, in Stefania Macioce, Michelangelo Merisi da Caravaggio. Documenti, fonti e inventari 1513-1875, Roma, 2010, p. 202, Doc. 705; Archivio di Stato di Firenze (d’ora in poi ASF), Mediceo, b. 4028, c. 131r, in: S. Macioce, op. cit., p. 204, Doc. 712; Archivio di Stato di Modena (d’ora in poi ASMo), Cancelleria Ducale Estense, Ambasciatori, Roma, b. 195, in: S. Macioce, op. cit., p. 204, Doc. 711.
[6] L’ipotesi di D. Balduzzi, op. cit., p. 146, che il misterioso innominato sia il bolognese Paolo Aldati, amico di Petronio Troppa, non sembra giustificare l’impenetrabile riserbo attorno al suo nome in tutti i documenti noti: allo stato attuale degli studi questo “N.N.” sembra piuttosto essere stato un personaggio altolocato che godeva di ottime protezioni nelle alte sfere.
[7] Giovanni Baglione, Le vite de’ pittori scultori et architetti. Dal pontificato di Gregorio XIII del 1572. In fino a’ tempi di papa Urbano Ottavo nel 1642, Roma, 1642, p. 138, riferisce: “Caduto a terra Ranuccio, Michelangelo gli tirò d’una punta, e nel pesce della coscia feritolo, il diede a morte”; conferma “dentro nella coscia” un anonimo diarista romano, per cui si vedano Maurizio Marini, Nuovi documenti sulla fine di Caravaggio: l’ultima spiaggia, in: «Art & Dossier», 66, 1992, pp. 8-11; Sandro Corradini, Caravaggio. Materiali per un processo, Roma, 1993, pp. 69-70; M. Marini, op. cit., 2005, p. 68.
[8] BAV, Ms. Chig. N.II:36, f. 102v; BAV, Barb. Lat. 6339, Avvisi, c. 18, trascrizione in: S. Macioce, op. cit., 2010, pp. 202; 205, Docc. 705; 713; M. Marini, op. cit., 2005 p. 68; p. 568. Un altro Avviso, BAV, Cod. Urb. Lat. 1074, cc. 279v-280, riporta più genericamente che Caravaggio “è restato malamente ferito”; cfr. M. Marini, op. cit., p. 118, n. 334.
[9] Ipotesi ventilata da una frase in BAV, Urb. Lat. 1074, cc. 279v-280, in: S. Macioce, op. cit., p. 204, Doc. 709.
[10] G. Baglione, op. cit., p. 138, “Per certa differenza di giuoco di palla a corda”. A un fallo di gioco allude anche una relazione in ASMo, Cancelleria Ducale Estense, Ambasciatori, Roma, b. 168, in: S. Macioce, op. cit., p. 204, Doc. 711.
[11] Stefania Macioce, Caravaggio: il pittore “colla croce in petto”, in: Stefania Macioce (a cura di), I Cavalieri di Malta e Caravaggio. La storia, gli Artisti, i committenti, Roma, 2010, pp. 96-122, p. 97; Phillip Farrugia Radon, Caravaggio, Knight of Malta, Malta, 2004, pp. 24-27.
[12] Maurizio Marini, L’ospite inquieto. Le residenze romane del Caravaggio, in: «Art & Dossier», 42, 1990, pp. 8-9, p. 9.
[13] Così secondo Giulio Mancini, per cui si veda Adriana Marucchi, Luigi Salerno (a cura di), Giulio Mancini. Considerazioni sulla Pittura, 1617-21, Roma, 1956-57, 2 voll., I, p. 225; II, pp. 123-4, nn. 900-901, e secondo Giovanni Pietro Bellori, Le vite de’pittori, scultori et architetti moderni, Roma 1672, p. 208.
[14] G. Baglione, op. cit., p. 138.
[15] Secondo l’ambasciatore estense a Roma Fabio Masetti, lettera del 23 settembre 1606 al duca di Modena, per cui si veda Maurizio Marini (a cura di), Michelangelo da Caravaggio: la Maddalena di Paliano, Roma, 2006, pp. 18-19.
[16] Irene Fosi (a cura di), Tribunali, giustizia e società nella Roma del Cinque e Seicento, collana «Roma moderna e contemporanea», V, 1, Roma, 1997.
[17] Archives of the Order of Malta (d’ora in poi AOM), La Valletta, Arch. Vol. 1386, Registro delle lettere Italiane spedite a vari Sovrani, ambasciatori e altri personaggi da Alof de Wignacourt, 1607, cc. 232r-324v (lettera del 29 dicembre 1607), in Stefania Macioce, Caravaggio a Malta e i suoi referenti: notizie dall’archivio, in: «Storia dell’arte», n. 80, 1994, pp. 207-228; poi in S. Macioce, op. cit., 2010, Doc. 823.
[18] S. Macioce, op. cit., 1994; Keith Sciberras, Roman baroque sculpture for the Knights of Malta, La Valletta, 2004; Keith Sciberras, David M. Stone, Caravaggio in bianco e nero: arte, cavalierato e l’ordine di Malta (1607-1608), in: Nicola Spinosa (a cura di), Caravaggio. L’ultimo tempo 1606-1610, Napoli, 2004, pp. 61-79.
[19] AOM, Liber Conciliorum, vol. 103, cc. 33v-34r, pubblicato per primo da Edward Sammut, Caravaggio in Malta, Malta, 1951, p. 174; trascritto poi in S. Macioce, op. cit., 2010, Doc. 859.
[20] L’aggressione dovrebbe collocarsi attorno al 20 ottobre 1609 (M. Marini, op. cit., p. 96), essendo l’Avviso (Biblioteca Apostolica Vaticana – d’ora in poi BAV –, Cod. Urb. Lat. 1077, c. 259r) che riporta la notizia datato al 24 ottobre 1609: “Si ha di Napoli avviso che fosse stato ammazzato il Caravaggio, pittore celebre, et altri dicono sfregiato”, cfr. Johannes Albertus Franciscus Orbaan, Documenti sul Barocco in Roma, Roma, 1920, 2 voll., II, p. 157. Anche Giulio Mancini in una lettera del 7 novembre 1609 al fratello Deifebo, per la quale si veda Michele Maccherini, Caravaggio nel carteggio di Giulio Mancini, in: «Prospettiva», 86, 1997, pp. 71-92, p. 71; 83, Doc. 15, riportò la notizia dello sfregio.
[21] Come riporta il carteggio tra Deodato Gentile, nunzio apostolico a Napoli, e il cardinale Scipione Borghese per il quale si rimanda a Vincenzo Pacelli, L’ultimo Caravaggio – dalla «Maddalena a mezza figura» ai due «San Giovanni», Todi, 1994.
[22] Karel van Mander, Het Scilder-Boeck, Harlem, 1604 (La vita di altri pittori italiani i quali si trovano attualmente a Roma).
[23] Riccardo Gandolfi, La biografia di Michelangelo da Caravaggio nelle Vite di Gaspare Celio, in: «Storia dell’Arte», n. 151-152, Nuova Serie, 1-2, 2019, pp. 137-151; R. Gandolfi, Le vite degli artisti di Gaspare Celio. «Compendio delle Vite di Vasari con alcune altre aggiunte», Firenze, 2021.
[24] M. Maccherini, op. cit., pp. 71; 83, Doc. 17 (Lettera del 25 dicembre 1609).
[25] G. Macini, op. cit., I, p. 225.
[26] G. Baglione, op. cit., p. 138.
[27] Joachim von Sandrart, Teutsche Academie der edlen Bau, Bild und Mahlerey-Künste (Vita di Michel Angelo Maragi da Caravaggio pittore), Norimberga, 1675.
[28] Francesco Susinno, Le vite de’ pittori messinesi e di altri che fiorirono in Messina, Messina, 1724, in: Francesca Valdinoci (a cura di), Vite di Caravaggio, Limena, 2010.
[29] F. Susinno, op. cit., ff. 119v; 120v.
[30] Peter Robb, L’enigma Caravaggio, Milano, 2001 [1998], p. 463.
[31] Per Ottavio Costa Caravaggio dipinse Giuditta e Oloferne oggi a Palazzo Barberini, e rimase in ottimi rapporti con il mecenate. L’identificazione del paggio con Alessandro, undicenne, è avanzata da John T. Spike, Caravaggio, New York-Londra, 2001, p. 206, nn. 682, 683. Per la nomina di Costa a paggio cfr S. Macioce, op. cit., 1994, p. 227.
[32] Keith Sciberras, ‘Frater Michael Angelus in tumultus’: the cause of Caravaggio’s Imprisonment in Malta, in: «The Burlington Magazine», CLXIV, 2002, pp. 229-232.
[33] A ferire materialmente la vittima fu fra’ Giovanni Pietro De Ponte, privato dell’abito insieme a Caravaggio (contumace) il 1° dicembre 1608. Cfr K. Sciberras, op. cit., 2002, pp. 230-31; K. Sciberras, D. M. Stone, op. cit., 2004, p. 65.
[34] Keith Sciberras, David M. Stone, op. cit., 2004, p. 76, n. 30.
[35] K. Sciberras, D. M. Stone, op. cit., 2004, p. 76, n. 33.
[36] Nel contratto del 6 dicembre 1608 per la Resurrezione di Lazzaro, 1608-9, Messina, Museo Regionale, si legge “dipitturas manu fra Michelangelo Caravaggio militis gerosolimitanus…”; contratto già Messina, Archivio Storico, Atti del Notaio Giuseppe Plutino, 6 dic., 7° ind., 1608, reso noto da Virgilio Saccà, Michelangelo da Caravaggio pittore. Studi e ricerche, in: «Archivio Storico Messinese», VII, 1906-7, pp. 40-69, pp. 66-69.
[37] Sembra comunque che non si sia intentata una causa civile a Malta nei suoi confronti e perciò il suo caso potrebbe essere stato archiviato senza procedere ulteriormente. Nel frattempo la vittima, fra’ Giovanni Rodomonte Roero, aveva lasciato l’isola. Cfr K. Sciberras, D. M. Stone, op. cit., 2004, p. 76, n. 43.
[38] G. Baglione, op. cit., p. 138.
[39] Per l’instrumentum pacis tra i fratelli di Ranuccio, Giovanni Francesco e Mario, e Caravaggio, si veda Giulia Cocconi, Caravaggio in exile: new documents, in: «The Burlington Magazine», CLXIII, 1414, 2021, pp. 34-39.
[40] Ipotesi di cui è convinto M. Marini, op. cit., pp. 68; 97, e pienamente condivisa dalla scrivente.
[41] Il dipinto risulta nella collezione del cardinale Scipione Borghese almeno dal 1613, anno in cui compare, nei conti della Casa, il pagamento per la cornice all’ebanista Annibale Durante. Nello stesso anno Scipione Francucci, nella sua La Galleria dell’Illustrissimo e Reverendissimo Signor Scipione Cardinale Borghese cantata in versi, Arezzo, 1613, ne dà descrizione nel Casino della Villa Pinciana, dove ancora oggi si trova.
[42] Fuori dal coro Giuseppe De Logu, Caravaggio, Milano, 1962, che non accoglie l’identificazione.
[43] Iacomo Manilli, Villa Borghese fuori porta Pinciana, Roma, 1650, p. 67.
[44] Il primo a cogliere l’identità dei due autoritratti fu Matteo Marangoni, Il Caravaggio, Firenze, 1922.
[45] Ipotesi avanzata per primo da Herwarth Röttgen, Il Caravaggio. Ricerche e interpretazioni, Roma, 1974, in seguito ripresa da Sergio Rossi, Un doppio autoritratto del Caravaggio, in: Caravaggio Nuove riflessioni, Quaderni di Palazzo Venezia, Roma, 6, 1989, pp. 149-155.
[46] Per il carattere di questo cripto-autoritratto rimando al mio Da Caravaggio a Bernini: influenze, convergenze e un’antica allegoria moraleggiante, https://www.aboutartonline.com/da-caravaggio-a-bernini-influenze-convergenze-e-unantica-allegoria-moraleggiante/ su «About Art on line» del 10.12.2023.
[47] Sant’Agostino, Enarrationes in Psalmos, XXXIII, 4. Fu Maurizio Marini nel 1987 a sciogliere esattamente l’iscrizione, prima scambiata prima per una firma del pittore da Hugo Wagner, Michelangelo da Caravaggio, Berna, 1958, se non per il marchio dell’armaiolo da Desmond Macrae, Observations on the Sword in Caravaggio, in: «The Burlington Magazine», CVI, 106, 1964, pp. 412-16, seguito da Mina Gregori, Caravaggio, oggi, in: AA. VV., Caravaggio e il suo tempo, Napoli, 1985, pp. 28-47.
[48] Dello stesso avviso Nikolaus Pevsner, Eine Revision der Caravaggio-Daten, in: «Zeitschrift für bildende Kunst», n. 390, 1927-8, pp. 386-92; Lionello Venturi, Il Caravaggio, Roma, 1921 [1951] e Denis Mahon, Addenda to Caravaggio, in «The Burlington Magazine», XCIV, n. 586, 1952, pp. 3-23. Vincenzo Pacelli, New documents concerning Caravaggio in Naples, in: «The Burlington Magazine», CXIX, 897, 1977, pp. 819-829, colloca il David e Golia in Galleria Borghese più o meno al tempo delle Sette opere di misericordia (1607), nonché Rossella Vodret, Caravaggio 1571-1610, Milano, 2021.
[49] G. P. Bellori, op. cit., p. 208.
[50] Roberto Longhi, Un’opera estrema del Caravaggio, in: «Paragone», X, 121, 1959, pp. 23-36, fu il primo a cogliere un’analogia stilistica tra i due dipinti, tuttavia datava il David e Golia Borghese al 1609, né fece il collegamento tra le pose di David e del boia del dipinto di Londra, convinto com’era che Caravaggio non disegnasse, e di conseguenza non usasse e conservasse cartoni, com’è invece evidente dal ricorrere di diverse sagome ribaltate in diversi dipinti anche a distanza di anni.
[51] Desta infatti ancor oggi scetticismo il ritrovamento di alcune ossa attribuite al pittore – inservibili per una moderna ricostruzione facciale – oggi custodite nel cimitero di Porto Ercole.
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