di Nica FIORI
“Napoli … è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta …”
Se, come afferma Curzio Malaparte nel suo romanzo “La pelle” (1949), Napoli è una sorta di Pompei rediviva, è pur vero che il pericolo di un’eruzione del Vesuvio è costante e i suoi abitanti si affidano a san Gennaro o alla Madonna dell’Arco per scongiurare questa possibilità.
La mostra “Napoli Ottocento. Degas, Fortuny, Gemito, Mancini, Morelli, Palizzi, Sargent, Turner”, che si tiene nelle Scuderie del Quirinale fino al 16 giugno 2024, ci fa immergere nella grande arte dell’Ottocento di questa città, che è stata a lungo capitale borbonica, partendo proprio dalla visione del Vesuvio in eruzione che accoglie i visitatori già a partire dallo scalone di ingresso. Lo spettacolo della forza terribile della natura ha qualcosa di sublime che si trasforma in bellezza nel paesaggio lavico di una terra straordinaria, nell’azzurro del suo mare, nei chiari di luna immortalati da grandi artisti lungo un racconto che non rinnega “il protagonismo dei simboli basilari dell’immaginario napoletano”, come afferma Mario De Simoni, Direttore generale Scuderie del Quirinale,
“inquadrando però questi simboli in un sistema di storia del gusto che chiama in causa non soltanto le belle arti, ma anche la filosofia, le lettere, la scienza, l’antropologia culturale, il teatro, la musica”.
La mostra, curata da Sylvain Bellenger (già direttore del Museo di Capodimonte), insieme a Jean-Loup Champion, Carmine Romano e Isabella Valente, presenta una selezione di 250 capolavori e un ricco catalogo edito da Electa; è stata organizzata dalle Scuderie del Quirinale e dal Museo e Real Bosco di Capodimonte, in collaborazione con la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, la Direzione Regionale Musei Campania, l’Accademia di Belle Arti di Napoli e la Stazione Zoologica Anton Dohrn.
L’idea fondamentale è stata quella di rendere omaggio al ruolo centrale di Napoli nell’ambito del dibattito europeo sull’arte, abbracciando la creazione artistica nella sua totalità. Come afferma il curatore Sylvain Bellenger:
“Senza l’Ottocento in Italia non esisterebbe la modernità. E l’Ottocento più vivo è senza dubbio quello napoletano”.
Oltre che un’importante capitale scientifica all’avanguardia negli studi mineralogici, ingegneristici e oceanologici, Napoli fu un centro cosmopolita di produzione artistica lungo un secolo che prende le mosse dalla cultura illuminista di fine Settecento e arriva a estendersi fino agli inizi del Novecento: un lungo periodo strettamente connesso alla nascita dell’Italia moderna, eppure ancora non abbastanza conosciuto.
“L’indicibile. Napoli al centro del sublime” è il tema affrontato nella prima sezione espositiva. Grazie a opere spettacolari, tra cui un dipinto di Jakob Philipp Hackert del 1774, appartenuto a Goethe, scopriamo come, alla fine del XVIII secolo, l’ascesa sul Vesuvio e il terribile spettacolo del cratere vulcanico siano divenuti una delle tappe più emozionanti del Grand Tour. Sir William Hamilton, diplomatico, archeologo, antiquario e vulcanologo, salì sulla cima del Vesuvio innumerevoli volte e pubblicò i suoi studi sulle eruzioni del 1767, 1779 e 1794, che contribuirono alla popolarità del vulcano.
L’eruzione prese la forma di un’esperienza metafisica e di un malessere culturale: il pensiero del “sublime”, utilizzato da scrittori e filosofi del Settecento, quali Edmund Burke e Immanuel Kant, infranse l’ottimismo dell’età classica, evidenziando la fragilità dell’uomo davanti allo scatenarsi delle forze della natura, dando l’avvio anche a una linea di poesia che in Italia culminerà nell’Ottocento nella Ginestra di Leopardi.
Gli scavi settecenteschi dell’area vesuviana folgorarono l’Europa e l’attrazione per le rovine divenne per alcuni una vera ossessione. Insieme a innumerevoli dipinti con scorci delle città vesuviane, troviamo in mostra anche il prezioso modello dell’Iseo di Pompei, realizzato con diversi alabastri da Giuseppe Valadier e Carlo Albacini per Maria Carolina d’Austria (1805-06, Museo di Capodimonte).
Oltre alle visioni di Pompei ed Ercolano, è presente anche una grande raffigurazione dei templi di Paestum dell’olandese Anton Sminck van Pitloo, animatore della celebre “scuola di Posillipo”. Con questo nome è conosciuto un gruppo di artisti che si dedicavano alla pittura dal vero, per realizzare quei paesaggi en plein air che soppiantavano le memorie classiche eseguite al chiuso negli studi. Tra i pittori che hanno raffigurato Pompei e le altre città antiche riportate alla luce, troviamo Giacinto Gigante, Michele Cammarano, Filippo Palizzi, autore, tra l’altro, anche della Scavatrice di Pompei, un piccolo dipinto a olio del 1864 ca., che documenta come anche le donne venissero utilizzate all’epoca negli scavi per lavori manuali.
Gli artisti, che giungevano a Napoli con il proposito di studiare e disegnare le rovine delle città vesuviane, scoprirono anche le singolari bellezze della città partenopea aperta sul suo mitico golfo frequentato dalle Sirene (Vedi Napoli e poi muori! si diceva all’epoca), e poi Ischia, Capri, la costiera amalfitana e la natura di una terra a volte idilliaca e altre volte drammatica.
I pittori stranieri, pur lasciandosi suggestionare dai colori del mare, dai paesaggi assolati o dai notturni lunari, portavano ognuno con sé la propria sensibilità e cultura. I paesaggi dipinti in Campania nella prima metà del XIX secolo mostrano, in effetti, la diversa percezione della luce da parte degli artisti inglesi, francesi, danesi, russi o degli stessi italiani. Castel dell’Ovo, Napoli con Capri in lontananza (1819) e Scena costiera vicino Napoli (1828 ca.) sono due dipinti di William Turner, entrambi provenienti dalla Tate Gallery di Londra, che evidenziano la sua personalissima verve romantica, attratta dalle atmosfere brumose e umide più che da quelle solari.
Tra le diverse immagini di Napoli ci colpisce la raffigurazione di una finestra, aperta sul mare presso Castel dell’Ovo, nel dipinto Lo Studio del pittore a Napoli (olio su tela, 1827, Torino, GAM). Si tratta dello studio di Massimo d’Azeglio, più celebre come scrittore e uomo politico, che in questa sua opera sembra sottolineare come l’arte della pittura rappresenti un’apertura sul mondo, una cornice dentro la cornice. Le è accanto un’altra Veduta di Napoli attraverso una finestra, aperta questa volta sulla riviera di Chiaia, un olio del 1824 di Franz Ludwig Catel.
Una piccola suggestiva Veduta di Napoli (1865 ca. Firenze, Gallerie degli Uffizi), che appare avvolta nella penombra, è di Adriano Cecioni, un artista che rappresenta l’anello di congiunzione tra i macchiaioli toscani e i pittori della Scuola di Resìna, che egli fondò assieme a Marco De Gregorio, Federico Rossano e Giuseppe De Nittis, i cui paesaggi presenti in mostra appaiono filtrati da una luce quasi tangibile.
Fra i grandi pittori alla moda dell’Ottocento, troviamo anche lo statunitense John Singer Sargent che nel 1878 soggiornò a Napoli e a Capri, dipingendo nello studio di un amico: sono suoi Ragazza di Capri sulla terrazza e Rosina, entrambi del 1978. Del catalano Mariano Fortuny, uno dei più influenti pittori europei della stessa epoca, ammiriamo I flauti di Pan, un acquerello del 1865 ca. proveniente da Cleveland, che richiama le atmosfere della Grecia arcadica.
Ancora una sala “pompeiana” ci accoglie nella sezione “Viaggiare nel tempo. Pompei rinata” con una serie di dipinti, oggetti e sculture che rievocano l’antichità in modo teatrale e quasi cinematografico.
Si tratta di copie e rielaborazioni in bronzo e ceramica di oggetti provenienti dagli scavi, costosi souvenir che contribuirono all’affermarsi del gusto neopompeiano, e successivamente neogreco, tra gli aristocratici europei.
Questa produzione spesso spettacolare di vasi, candelabri e perfino tavoli, non è altro che la perpetuazione di una cultura decorativa tipicamente napoletana, che è stata a lungo sottovalutata e poco studiata, pur essendo di altissima qualità.
Una scultura in bronzo del fiorentino Emilio Franceschi, intitolata Ad bestias (1883, Napoli – Galleria dell’Accademia di Belle Arti) ci colpisce particolarmente per il realismo del volto smunto e atterrito del vecchio incatenato che attende di essere consegnato alle belve dell’arena.
Tra le altre opere che richiamano l’antichità notiamo Prima ebbrezza, un bronzo di Giuseppe Renda (1895, Museo di Capodimonte) che raffigura un fanciullo nudo, più efebico rispetto al suo “scugnizzo” ridente nel gesso Le Voilà, collocato all’inizio della mostra; altri nudi giovanili sono raffigurati nelle fotografie scattate a Capri dal barone Wilhelm von Gloeden (1856-1931), un artista tedesco che vedeva nell’Italia meridionale il mito di un’ideale Grecia perduta, libera da ogni tabù. Pubblicate sulla rivista The Studio a partire dal 1893, le sue foto ebbero grande successo, sia per il tema omoerotico, sia per l’ambientazione all’aperto con pose che sembrano rifarsi ai miti antichi, come quelli di Andromeda e di Apollo e Dafne.
Il percorso del primo piano si conclude con la spettacolare videoinstallazione “Affreschi digitali” dell’artista napoletano Stefano Gargiulo (Kaos Produzioni), che restituisce la peculiarità della Stazione Zoologica (SZN) ideata dal tedesco Anton Dohrn, che fu il primo centro di studio oceanografico in Italia. Raffigurazioni scientifiche si sovrappongono alle decorazioni di Hans Von Marées e Adolf Hildebrandt (ancora visibili nell’attuale biblioteca). Al centro dell’installazione è la gioiosa Ondina di Giuseppe Renda, un grande bronzo del 1898 della Galleria Nazionale d’Arte moderna e contemporanea di Roma.
Al piano superiore nella sezione “Orientalismo, verismo e spiritualità”, ci lasciamo ammaliare dal dipinto di Pasquale Liotta L’effetto dell’hashish (1875, Catania, Museo civico castello Ursino), dalla scultura bronzea di Achille d’Orsi La religione nel deserto (L’idolo), proveniente dalla Certosa di San Martino, e soprattutto dai dipinti di Domenico Morelli, il grande pittore napoletano che, pur non avendo mai lasciato l’Italia, era particolarmente attratto dalle atmosfere e dalle tradizioni orientali, apprese da molte letture, tanto da indurlo a orientalizzare i suoi soggetti religiosi, sia musulmani sia cattolici. La ragione va ricercata forse in questo suo pensiero che scrisse in una lettera indirizzata a Pasquale Villari nel 1872: “Il Vangelo mi seduce con la calma e l’umiltà, e nell’Oriente trovo più arte e meno artifizio”.
Sono presenti in mostra anche sue rappresentazioni a sfondo storico, come Gli Iconoclasti (1855) e I Vespri siciliani, nelle due versioni del 1859 e del 1867, che riscoprono i sentimenti risorgimentali contemporanei nella storia medievale.
Il verismo napoletano trovò spazio pure in rappresentazioni sentimentali, sensuali o spirituali, che esaltavano una fede vicina a posizioni anticlericali. La società napoletana dell’Ottocento è ampiamente descritta nelle sezioni “Verismo. Terra, mare e lavoro” e “La società moderna”, ovvero quella che, dopo l’Unità d’Italia, vede la nascita della prima borghesia italiana moderna.
Tra i pittori veristi, ricordiamo Gioacchino Toma, autore del capolavoro del 1874 Luisa Sanfelice in carcere. La nobildonna, coinvolta nelle vicende della Repubblica Napoletana e nota anche per un celebre romanzo di Alessandro Dumas padre, è raffigurata mentre, in attesa dell’esecuzione capitale, cuce un abitino per il bimbo che deve nascere di lì a poco. Proprio per la sua gravidanza, l’esecuzione venne rinviata, ma non soppressa.
Il messaggio di libertà, democrazia e progresso erano evidenti nella Napoli “verista” che, per controbilanciare la perdita del suo ruolo di capitale, ristabiliva un rapporto più stretto con Parigi, come testimoniano i numerosi artisti del Real Istituto di Belle Arti e i membri dell’élite cittadina che si trasferirono nella Ville Lumière. Nel clima politico ed economico dell’epoca va inquadrata l’abbondanza di progetti e di programmi di trasformazione urbanistica della città. Sempre più europea, Napoli alla fine del secolo dialogava ancora direttamente con Parigi: venne eretta in soli tre anni la Galleria Umberto I, furono costruiti nuovi quartieri borghesi, grandi alberghi e luoghi di ritrovo (celebre è il Caffè Gambrinus, che divenne in breve tempo un salotto letterario) e persino viali in stile parigino, come viale Elena a Mergellina e via Scarlatti al Vomero.
Nell’ampia sezione “Ritratti d’artista”, vediamo come l’artista viene raffigurato come il rappresentante di uno status antiborghese, almeno a partire dal romanzo Scènes de la vie de bohème di Henry Murger, pubblicato nel 1851, e soprattutto dal 1896, quando La Bohème di Giacomo Puccini divenne una delle opere liriche più famose al mondo. I giovani artisti, dei quali vediamo le fattezze, sembrano rivendicare il loro verismo sociale e professionale, e perfino la loro presunta stranezza o pazzia. Lo evidenziano anche nei loro autoritratti, come nel caso di Francesco Paolo Michetti, che si ritrae con un cappello a punta e un turbante, e Antonio Mancini nel curioso autoritratto con un cesto capovolto sulla testa.
Il maestro Domenico Morelli è stato ritratto da Vincenzo Gemito con un berretto da studio e da Bernardo Celentano in maniche di camicia.
Mentre la maggior parte degli artisti si mostravano poveri e posseduti dall’arte, il giovane Edgar Degas si è autoritratto nel 1855 come giovane e ricco borghese.
Grande rilevanza ha nella mostra proprio la figura di Degas, un artista che ha sempre rivendicato la sua appartenenza al movimento realista, rifiutando l’etichetta di impressionista dato alla sua pittura. Di origini napoletane per parte paterna, Degas parlava correntemente il napoletano imparato da giovane a Napoli ed è stato indagato dai curatori dal punto di vista della sua familiarità con l’ambiente napoletano, ipotizzando che questa sua particolarità sia un tassello di lettura utile per capire la sua posizione nell’ambito della scuola francese.
I visitatori potranno ammirare ben sette capolavori del “Degas napoletano”, tra cui i ritratti di alcuni componenti della sua famiglia, in particolare Thérèse de Gas, un ritratto a olio del 1863 proveniente dal Musée d’Orsay di Parigi, scelto come immagine guida della mostra, e l’emblematica Veduta di Castel Sant’Elmo da Capodimonte (olio su carta applicata su tela, 1856 ca., Fitzwilliam Museum di Cambridge), rarissimamente esposta.
Un grandissimo pittore è stato indubbiamente anche Mancini, che in mostra è giustamente accostato allo scultore coetaneo Gemito (entrambi erano nati nel 1852), con il quale condivise un iniziale periodo di amicizia, un viaggio a Parigi e una vita segnata da problemi psicologici. Tutti e due hanno lasciato un segno nella loro epoca e a un certo punto hanno rivoluzionato la loro arte. Gemito lo fece introducendo il verismo e la “bruttezza” nel suo Pescatore esposto a Parigi nel 1877, e proiettandosi ben oltre il XX secolo con i suoi disegni all’avanguardia, che conquistarono anche Giorgio De Chirico e Alberto Savinio.
Mancini, da parte sua, dopo aver prodotto mirabili ritratti che gli valsero l’ammirazione di una clientela in gran parte internazionale, all’apice della fama decise di inserire la materia grezza nei suoi dipinti; la materia prorompente, invasiva e quasi privata di forma, divenne così vera protagonista dell’opera, sostituendosi al soggetto raffigurato. Una scelta che venne esaltata alla Biennale di Venezia del 1926 da Carlo Carrà, che definì la Dama in rosso di Mancini “un vero capolavoro di potenza plastica e di armonia cromatica”.
Furono proprio i suoi audaci esperimenti materici ad aprire le porte all’arte informale di Lucio Fontana, Alberto Burri e del pittore vesuviano Salvatore Emblema, che crea le sue opere con materiale lavico.
Nica FIORI Roma 14 Aprile 2024
Info: www.scuderiequirinale.it