di Massimo PULINI
Un nuovo Antoon Van Dyck,
un sant’Onofrio del suo periodo palermitano
Il soggiorno di Antoon Van Dyck a Palermo è strettamente legato alla venerazione di Santa Rosalia (Fig. 1) e al ritrovamento delle sue reliquie, avvenuto nel luglio del 1624, proprio nel periodo in cui l’artista fiammingo si trovava a risiedere nel centro siciliano[1]. La riscoperta del sepolcro, sul Monte Pellegrino che domina il golfo di Panormus, avvenne all’apice di una terribile peste che in puntuale coincidenza si placò. Il fatto venne interpretato come segno di esplicita intercessione e mosse un’immediata, profondissima, riconoscenza popolare verso questa vergine anacoreta vissuta tra il 1130 e il 1170, ma che agli inizi del XVII era ormai dimenticata[2].
Vari studiosi hanno indagato il determinante ruolo operato dal pittore nella creazione dei modelli iconografici della santa, oltreché nella diffusione europea del suo culto.
Attraverso una serie di puntuali documenti Fiorenza Rangoni ha in particolare messo a fuoco il rapporto tra Van Dyck e la figura del gesuita padre Giordano Cascini che contribuì non poco a quel successo devozionale[3].
A partire da un dipinto conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna, il Matrimonio mistico di Santa Rosalia (Fig. 2), eseguito dal Van Dyck ad Anversa nel 1629, vale a dire quattro anni dopo aver lasciato Palermo, la studiosa romana ha ricostruito uno spaccato di relazioni e ha messo a punto il coinvolgimento diretto dell’artista nell’esportazione, in terra fiamminga, del culto verso l’eremita siciliana.
La possente pala d’altare era stata voluta dalla Compagnia dei Giovani Celibi, una confraternita gesuita della quale il pittore era divenuto membro, ed era destinata all’allora chiesa gesuita di Sant’Ignazio[4]. Venne eseguita per celebrare l’arrivo ad Anversa di una reliquia di santa Rosalia, compiutosi il 3 agosto 1629, quale voto per una intercessione contro la peste che sul finire degli anni Venti stava flagellando l’Europa. Ne parla lo stesso religioso gesuita palermitano nel testo del 1651 in cui narra le vicende agiografiche di Rosalia tracciando lo sviluppo della sua devozione.
“Un’altra (reliquia) ne mandai in Anversa, dove havea mandato prima la vita disposta in immagini, e fu l’una e l’altra riceuta con tanto amore, e fervore, che ne sperarono, et ottennero indubitato soccorso della peste; laonde non contenta quella divota gente d’haverle fatto una bella solennità con apparato, e pompa divotissima, ristamparono la vita di nuovo con quegl’intagli loro delicatissimi, e famosi in varie guise nel 1629 elegendola per Padrona, con solennigiarla con grande honore.”[5]
Figg. 3 e 4. Antoon Van Dyck, A. van Dyck, Disegni con episodi della di Santa Rosalia, Londra, British Museum
Sono ora sparsi per il mondo i numerosi e bellissimi dipinti e la preziosa serie di disegni[6] (Figg. 3 e 4) che, intorno al tema di Santa Rosalia, Antoon realizzò sia nel suo intenso soggiorno palermitano, che dopo il rientrato in patria. Emerge una sincera elevazione spirituale entro queste opere, segno di una profonda fascinazione esercitata dalla santa sull’artista. Su questo dovette incidere sia il racconto esistenziale di quella giovane vergine e nobile che mezzo millennio prima si era ritirata in eremitaggio sul monte della propria città, ma anche le dirette esperienze di dolore e di morte che il morbo distribuiva su tutto il territorio siciliano.
Santa Rosalia apparteneva alla nobile famiglia Sinibaldi, discendente diretta del casato di Carlo Magno. Era destinata per censo a un matrimonio aristocratico, ma scelse, alla vigilia delle nozze, di raccogliersi in eremitaggio trascorrendo gli ultimi anni di vita in assoluta povertà rinunciando a ogni altro rapporto con la propria nobile famiglia. Il rifiuto di maritarsi e la discendenza dinastica con un regno del nord Europa dovette essere motivi non secondari nelle motivazioni che portarono la Compagnia dei giovani celibi a commissionare al Van Dyck la pala ora a Vienna.
A giudicarlo dai suoi meravigliosi ritratti Antoon Van Dyck si potrebbe definire l’artista più aristocratico e distaccato del suo tempo, li accompagna un’eleganza altera, inarrivabile, che traspare dai gesti dei personaggi in posa, dai costumi che li ricoprono, dalle architetture che ne formano il contesto, ma il combinato composto tra storia e presente, tra privazioni antiche e patimenti contemporanei dovette radicare nell’artista quella che va ritenuta un’intima devozione verso la figura di Santa Rosalia. Se questa relazione merita ulteriori approfondimenti per la sua unicità, è invece ancora interamente da scrivere un altro legame che unisce l’artista alla spiritualità palermitana.
Ritengo infatti debba essere ricondotto al pennello di Antoon Van Dyck un dipinto che è da poco transitato nel mercato antiquario italiano sotto il nome suggestivo, ma incongruo, di Salvator Rosa[7].
Mi riferisco a una tela raffigurante un vecchio eremita che la casa d’aste genovese Cambi segnalava come un San Girolamo nel deserto e che invece va senza esitazione identificato in Sant’Onofrio (Fig. 5).
L’anacoreta, dai capelli incolti e con un’annosa barba che scende a cascata fin oltre il petto, è seduto su un masso naturale nell’antro di una grotta buia, appena rischiarata da un lume che sembra lunare. Le lunghe gambe piegate in torsione e spinte verso il lato destro del quadro, le braccia basse e aperte in un gesto recitativo di grande afflato, contribuiscono a rendere sincero l’atto di lettura orante che l’uomo sta compiendo. Poggiato sulla pietra scorgiamo infatti il libro aperto che raccoglie l’attenzione rituale del santo e la sua ascesi è testimoniata dalle serpentine pieghe e dalle vene scoperte che il corpo nudo ci mostra. La pelle ha la consistenza di un cuoio conciato e lungamente usato, quasi fosse la parannanza di un fabbro, e anche il volto dell’uomo ha l’aspetto di un dio Vulcano al lavoro: le orbite in ombra e il naso lungo che scende a freccia a divaricare i baffi sbuffanti.
Un racemo di foglie d’edera gli ricopre i fianchi e il resto della scena è affidato alle concrezioni della caverna che ne modulano l’ombra profonda. Quel che in origine era uno squarcio di cielo e un paesaggio montano all’orizzonte è ancora in attesa di un restauro che ne ridoni luce, restituendo un’altra e opposta profondità di sguardo.
Credo fermamente che l’opera sia da ascrivere al tempo siciliano di Antoon Van Dyck e che incontri numerose conferme, sia di carattere stilistico e formale che di ordine storico e devozionale.
Quando l’artista giunse nella città siciliana già da una trentina d’anni Palermo conservava una reliquia di Sant’Onofrio; da quando nel 1591 Don Francesco Bisso la donò al monastero e alla chiesa del SS.mo Salvatore. L’arcivescovo Diego Haëdo la fece in seguito traslare solennemente nella sede dell’omonima confraternita e durante la peste del 1624 l’oratorio di Sant’Onofrio era stato trasformato in lazzaretto per tenere i malati vicini alla reliquia del santo, ritenuto un ideale intercessore delle aspirazioni popolari. In quel periodo la devozione a Sant’Onofrio fu seconda solo al risorto culto di Santa Rosalia, ma entrambi gli anacoreti divennero riferimento di preghiera e di voti al punto che i due santi sarebbero stati elevati, dopo qualche anno, a primi protettori della città[8].
Mentre in altre parti della penisola italiana i santi legati alle pestilenze erano, come è noto, Sebastiano, Rocco e Cristoforo, in Sicilia si scelsero due figure di penitenti, di eremiti estremi, esempi di ascesi dalle afflizioni terrene e modelli di pura elevazione spirituale.
Onofrio, detto nell’isola “u’ pelusu”, è talvolta raffigurato come corrispettivo maschile di Santa Maria Egiziaca, ricoperto dai propri capelli lasciati crescere a mantello. In tutte le rappresentazioni, al posto del perizoma, si trovano cinti ai suoi fianchi ramoscelli di foglie e, dopo il diffondersi del culto mariano promosso dai domenicani, appare accanto a lui anche un rosario. Proprio la presenza nel quadro di questo elemento spinge a pensare ad una committenza dell’opera legata all’ordine, come per altro fu per la grande pala della peste con la Madonna del Rosario dipinta da Van Dyck e tutt’ora conservata nell’oratorio palermitano dei domenicani (Fig. 6).
Un ulteriore rilevante aspetto che converge sull’attribuzione a Van Dyck è il parallelo con un altro splendido dipinto raffigurante Santa Rosalia che intercede per la città di Palermo (Fig. 7), ora posseduto dal Museo di Ponce (Puerto Rico), ma di certo proveniente anch’esso dall’isola italiana[9]. L’opera misura cm 172 x 142, dimensioni del tutto analoghe al Sant’Onofrio (cm.174 x 120, dunque identiche in altezza e solo di qualche centimetro più largo risulta il dipinto di Puerto Rico), e mostra sul fondo un magnifico paesaggio con il golfo della città, sovrastato dal Monte Pellegrino, che come si è detto fu sede dell’eremitaggio e dello stesso sepolcro della santa. Ebbene malgrado le attuali condizioni della tela, anche alle spalle del Sant’Onofrio si può scorgere il medesimo profilo del monte che era divenuto sacro per Palermo e pure un accenno di orizzonte marino che rende inequivocabile l’ambientazione della scena (Fig. 8).
Per quanto riguarda i riscontri formali le due opere potrebbero davvero essere state in origine i laterali di uno stesso altare, oltre alle dimensioni, anche la proporzione delle figure e il loro rapporto con la scena risulta imparentato.
Si ritrovano poi figure del tutto simili nell’arco di tutta la produzione dell’artista.
Il San Girolamo di Rotterdam (Fig. 9) e quello di Oldenburg (Fig. 10), che precedono di poco il viaggio italiano, sono un’anticipazione della figura di Sant’Onofrio, una premessa di certo più luminosa, ma sostanzialmente affine nella fisicità e nel pensiero. Oltre ai tempi luttuosi e cupi a Palermo, a metà degli anni Venti, l’artista dovette trovare suggestioni caravaggesche che dovettero incidere su alcune scelte di stile. Basta tuttavia confrontare il Sant’Onofrio con la ritrovata tavola con uno Studio di Vecchio seduto (New York, Albany Institute) (Fig. 11), per comprendere come agli inizi di quel decennio Van Dyck intendesse la rappresentazione carnale dell’ascesi. Non escluderei nemmeno che lo studio sia stato concepito quale prima idea di un Sant’Onofrio, per l’assenza assoluta di panneggio (sempre presente in un San Girolamo) e dato il gesto della mano sinistra predisposto a reggere un oggetto, forse proprio un rosario.
Si dimostrasse plausibile anche questa interpretazione il soggiorno palermitano si arricchirebbe di un ulteriore e importantissimo numero.
Si sommano anche numerosi volti indagati sul medesimo cipiglio caratteriale, uno transitato di recente sul mercato antiquario francese[10] appartiene ancora alla fase rubensiana, a giudicare dalla tipologia delle mani giunte (Fig. 12).
Mentre è di certo già indipendente dal maestro lo Studio di due teste di uomo, passato alla Sotheby’s di New York (Fig. 13) nel 2010[11], splendido abbozzo di una espressività possente e turbata che giunge ad anticipare Géricault.
Il viso del Sant’Onofrio che ho proposto al periodo palermitano ha la medesima fisionomia dei due busti e dello studio a mani giunte, anche se l’uomo appare più anziano e l’espressione risulta più riflessiva e placata, quasi fosse la personificazione di un fiume. Ne offro qui una sintesi in rapida sequenza (Fig. 14).
Il successo che porterà l’artista alla corte d’Inghilterra conterrà un destino ambiguo, risolto entro la gabbia dorata della ritrattistica celebrativa. Del primo soggiorno italiano, che fu fondante per uno dei massimi pittori europei, rimane un taccuino conservato al British Museum che documenta, al pari di un diario muto e affidato al disegno, i viaggi da Venezia a Genova, da Roma a Palermo, così come gli intimi incontri artistici davanti ai dipinti di Tiziano, Raffaello e tanti altri.
Nella prima pagina di quel prezioso quaderno c’è un paesaggio marino tracciato sotto una gigantesca nuvola fatta al pari di un arabesco da calligrafia.
Il museo inglese descrive questo paesaggio come una probabile Veduta dello Stretto di Messina o di Genova, in realtà si tratta di uno schizzo, molto essenziale, del Golfo di Palermo con il profilo del Monte Pellegrino (Figg. 15 e 16).
Massimo PULINI 20 Gennaio 2021
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