NUMERO SPECIALE la XXXI Biennale di Antiquariato. Le proposte: Galleria BERARDI (e il ‘900 di Ferruccio Ferrazzi)

redazione

Il Novecento di Ferruccio Ferrazzi: la retrospettiva della Galleria Berardi presentata a Firenze. Uno sguardo alla mostra

di Alessandra IMBELLONE

Un gruppo di opere scelte presenta al pubblico della Biennale Antiquaria di Firenze la mostra retrospettiva di Ferruccio Ferrazzi (Roma, 1891-1978), che aprirà i battenti presso la Galleria Berardi di Roma il 10 ottobre prossimo. Attivo sulla scena per oltre settant’anni, dal 1907 al 1978, Ferrazzi fu un artista non facile, solo per ragioni geografiche incluso arbitrariamente a posteriori nell’enclave della Scuola romana, dalla quale invero fu sempre distante. Una tensione interna mai venuta meno caratterizza i diversi appuntamenti del suo percorso stilistico, sostenendo una pittura che spicca per potenza creativa, espressione e un’originalità che non ha eguali nell’arte del Novecento italiano.

La mostra ripercorre per exempla la sua variegata e multidirezionale produzione pittorica, sempre tesa, anche quando negli anni Venti Ferrazzi fu riconosciuto dai contemporanei fra i capiscuola del ritorno all’ordine e alla pittura del Quattrocento, alla conquista della modernità. Dotato di un temperamento introverso e speculativo, idealista e visionario, l’artista visse e operò per necessità in modo appartato, portando avanti una ricerca sempre caratterizzata da forte autonomia. Inesausto sperimentatore, fu attratto dalle avanguardie, in particolare fauves, Futurismo, espressionismo, senza però aderirvi, ma reagendo agli stimoli e ai cambiamenti che queste produssero in maniera originale e personalissima, con delle invenzioni tutte sue. Lo studio critico in catalogo, frutto delle indagini condotte presso l’Archivio Ferrazzi, intende restituire la ricchezza e la complessità del suo percorso umano e artistico. Il regesto illustrato delle opere esposte in vita si offre come strumento per ulteriori approfondimenti.

Fig 1 Ritratto di Casimiro Jodi

L’inedito Ritratto di Casimiro Jodi (fig. 1), pittore modenese attivo a Roma che con Ferrazzi espose nelle Sale della gioventù inter-regionale alla Biennale di Venezia del 1910, ci illumina sui suoi esordi in chiave simbolista, contraddistinti dall’adozione di una tecnica divisionista alla Segantini, maestro che sentiva affine per sensibilità. “È naturale che un’anima simile si aprisse all’arte orientandosi verso la mistica di Segantini e di Pellizza”, avrebbe scritto un decennio più tardi Roberto Papini, presentando la personale di Ferrazzi alla Seconda Biennale Romana (1923). “Ferruccio Ferrazzi ha un’anima vibrante e profonda che si rivela in quel suo sguardo assorto entro le orbite cerchiate d’ombra, sguardo di poeta e di asceta, quasi doloroso, come quello dell’effigie del Nazareno, cui assomiglia anche nel volto affilato e nella barba rossigna (fig. 2). Se parla, è con misurata calma che esprime la luce della sua fede”.

Fig 2 Autoritratto con berretto
Fig 3 Ritratto di Matilde Festa

Alcuni dipinti, seppure rielaborati più tardi come La Pietà o ricostruiti di memoria come la “castigata e lineare” Attesa e il Ritratto di Matilde Festa (fig 3) rievocano la controversa “sala prismatica” che Ferrazzi allestì personalmente alla LXXXV Esposizione della Società Amatori e Cultori nel 1916. Concepita come l’interno di un prisma, la sala presentava pitture dalle sagome irregolari e sghembe, da lui chiamate “frammenti unitari”, le quali, inseguendo complesse ricerche prospettiche, costituivano una novità assoluta sul panorama artistico e furono considerate “scandalose e pazzesche”. “Dio mio perché esser schiavi di un quadro o di qualsiasi altra forma geometrica?”, si chiedeva Ferrazzi nel luglio 1915. Con la “sala prismatica” l’artista intendeva affermare l’indipendenza del proprio pensiero dalla cultura ufficiale, sfidando apertamente il sistema. A costo di realizzarla dovette rinunciare suo malgrado al Pensionato artistico nazionale che aveva vinto nel 1913 e allo studio messogli a disposizione in via di Ripetta, poiché il regolamento del Pensionato vietava di esporre pubblicamente. Ad apprezzare la carica eversiva della sua modernità furono in pochi: l’amico poeta e critico d’arte Gino Luchini, lo scrittore Federigo Tozzi, il medico e collezionista Angelo Signorelli con la sua compagna, la scrittrice russa Olga Resnevic, e, sopra ogni altro, Walter Minnich, medico di Zurigo, amico personale di Max Pechstein e collezionista di dipinti espressionisti. Minnich acquistò diverse opere di Ferrazzi e lo invitò a recarsi suo ospite a Montreux, dove risiedeva, sulle sponde del lago Lemano, salvandolo dal nuovo scenario di povertà che gli si prospettava con la perdita del Pensionato. “Venuto a Roma con la contessa Camerini (fig. 7), volle conoscermi – ricordava Ferrazzi in una lettera a Carlo Ludovico Ragghianti – […] mi acquistò sette opere nello stupore dell’ambiente romano che scrisse tutti i vituperi possibili, e che volevano farmi riportare indietro le opere ritenute di un «pazzo» […] Solo ed ormai bollato, sospesa la pensione […] potei in questo clima ostile accettare l’ospitalità dello svizzero […] ero solo, braccato, insultato, e senza soldi”. Il soggiorno svizzero durato undici mesi, dal 13 maggio 1916 all’11 aprile 1917, fu certamente, come sottolineava Sandra Pinto (1997), “uno dei più ricchi di fermenti, curiosità, irrequieta volontà di aggiornamento”, caratteristiche queste che accompagnarono l’artista lungo l’intero corso della sua carriera.

Fig 4 Staccionata alle fosse della calce, 1915

L’assimilazione della pittura espressionista venne a innestarsi su un substrato nordico sempre di marca tedesca assimilato in precedenza nel corso dell’alunnato a Villa Malta presso Max Roeder, uno degli ultimi Deutschrömer, pittore di paesaggio ed incisore monacense di ascendenza boeckliniana, al quale Ferrazzi era stato affidato nel 1908 in seguito alla vittoria del pensionato Catel. L’apporto espressionista è evidente in alcuni Fig 4 dei migliori dipinti in mostra: Staccionata alle fosse della calce (fig. 4), eseguito a Roma nel 1915, ancor prima del soggiorno svizzero; Berthe distesa (fig. 5), un nudo dipinto a Montreux nel 1916;

Fig 5 Berthe distesa

Natura morta con fiore di magnolia, dipinto nello stesso anno a Territet, e il bellissimo La tempesta sul lago di Leman (fig. 6) eseguito nel giugno dello stesso anno.

Fig 6 Tempesta sul lago di Leman

Staccionata alle fosse della calce (fig. 4) ritrae un angolo di uno dei luoghi del cuore di Ferrazzi, centrale per il suo mondo poetico: il grande orto in via delle Sette Sale, tra l’Esquilino e il Colle Oppio, preso in affitto dal padre Stanislao sin dal 1899. L’artista vi stabilì il proprio studio-abitazione dopo la perdita del Pensionato, rimanendovi fino al 1927:

“In questo vastissimo terreno chiuso da alti muraglioni monastici – raccontava lui stesso (1943) -, si erano addensate delle baracche; vi stavano famiglie del popolo, «calciaroli» con i carri e i cavalli, venditori di acqua acetosa, fabbri, segatori di legname, ortolani […] Pareva una piccola repubblica, sembrava di vivere in una grande comunità o in una sola famiglia, io stavo nel suo centro poetico, rispettato ed amato, qui uscivo con le mie tele a dipingere, qui venivano invitati da me gli artigiani a vedere le mie opere, che partivano poi per le esposizioni del mondo […] qui nella mia baracca costruita con fatica e sudori portai la mia Orizia, e nacque la mia prima figliola Fabiola […] In questo antico orto, tra le siepi di sambuchi esuberanti, gli alberi di fichi contorti e architettati, le spianate di fiori, tra quel groviglio di trespoli e di cannate carichi di pomodori roventi, accanto al fontanile barocco, dove l’oleandro vermiglio si specchiava nell’acqua verde e salmastra, si doveva formare il mio spirito d’indipendenza e la grande curiosità di conoscere, di annotare e di provare ogni cosa, fino ad una conclusione, con la pazienza che solo conosco per la pittura”. “Nella mia capanna – avrebbe ricordato ancora nel 1977 – all’orto delle Sette Sale venivano Capogrossi, Ziveri sempre eccitato fin da giovane quando vedeva la pittura, Mazzacurati con l’amico critico Arslan, Stradone allora giovinetto. Ma in realtà sono stato sempre un solitario”.

In Svizzera il lago glaciale subalpino e i paesaggi montani offrirono a Ferrazzi l’occasione ideale per una rilettura, allora rara in Italia, di Van Gogh, passata al filtro dell’incontro con Pechstein e con gli altri esponenti della Brucke. Questo mise in luce uno studioso del Novecento purtroppo scomparso, Fabrizio D’Amico (1950-2019), recensendo la “giustissima” mostra sul periodo svizzero di Ferrazzi organizzata nel 1997 da Bruno Mantura in ricordo dell’amico Mario Quesada (1941-1996), storico e critico d’arte venuto a mancare troppo presto, che alla luce di studi approfonditi mise nero su bianco alcune intuizioni su Ferruccio Ferrazzi tutt’oggi insuperate. E il professor D’Amico, con nostalgia, ci piace ricordarlo con le sue parole: ammirato dallo spettacolo di “colori accesi, come vampate stese in affanno da una mano imprudente e felicemente abbandonata all’istinto”, luci accecanti e talora livide e raggelate come sul Lemano.

La vittoria del Pensionato artistico nazionale, assegnato a Ferrazzi il 22 dicembre 1913 in seguito all’espletamento del concorso, si lega alla conoscenza di Matilde Festa (Roma, 1890–1957), pittrice e decoratrice oggi dimenticata che aveva esordito nello stesso anno alla mostra della Secessione romana. Così ricordava l’artista nei suoi Diari:

Conobbi la Festa e mi dettero forza i suoi occhi grandi – Ella mi conosceva già. Arrivai tardi il giorno del bozzetto mi si attese, fu Ella gentilmente che lo volle […] in settembre mi innamorai di Matilde, ero stimolato a far bene, per la lotta, per l’amore”.

Ferrazzi ne dipinse il ritratto (fig. 3) nel 1914, stesso anno in cui Matilde sposò l’architetto Marcello Piacentini: un frammento prismatico, ossia sagomato come se visto attraverso la faccia di un prisma, dove spicca su un blu elettrico di marca futurista un volto da Fayoum. Adele in tre luci (fig. 7), dipinto nel 1918 e poi

Fig 8 Adele in tre luci prima versione
Fig 7 Adele in tre luci

 

 

 

tagliato nel 1922 (anno in cui Ferrazzi eseguì sul retro il bozzetto di una Festa notturna), ci parla del ritorno a Roma dell’artista, che dalla Svizzera fu chiamato alle armi, prestando servizio militare in Sardegna per rientrare nell’Urbe dopo la fine della Grande Guerra. La tavola originaria (fig. 8) di questo ritratto della sorella Adele fu esposta alla Mostra d’arte giovanile organizzata alla Casina Valadier, rassegna che vide allineata l’avanguardia romana non futurista e fu salutata da molti critici come “un significativo ritorno alla tradizione”. “Mentre in Italia dilagava un fervore d’innovazione futurista (che io sentivo come spirito, non come espressione meccanica della forma) – precisava Ferrazzi – cercai l’innesto di una iniziale solennità compositiva, solennità alla quale credevo dai 18 anni, quando credevo di voler seguire Segantini”.

Nel 1896, quando da bambino si era trasferito con la famiglia a Recanati presso i conti Leopardi per i quali il padre Stanislao dipinse ritratti e decorazioni, Ferrazzi era stato colpito da una grave malattia all’orecchio che lo avrebbe condizionato tutta la vita, accentuandone il carattere chiuso e introverso, tendente all’isolamento. Per una sorta di paradosso, questo difetto che lo separava dal mondo fece nascere in lui il desiderio di divenire musicista. Negli anni precedenti alla partenza per la Svizzera s’iscrisse a un corso di composizione, prese lezioni di violino e frequentò all’Augusteo, il teatro allora insediato all’interno del Mausoleo di Augusto, i concerti diretti da Arturo Toscanini per commemorare Wagner, inebriandosi per Strawinskij. Queste frequentazioni musicali sono all’origine di un altro dipinto in mostra, il bellissimo Concerto (fig. 9) scelto per la copertina del catalogo, che reca sul retro della tavola l’iscrizione Concerto all’Augusteo di Roma.

Fig 9 Concerto

Fu proprio all’uscita da uno di questi concerti all’Augusteo che l’artista incontrò la donna della sua vita, la bella e ieratica Horitia Randone, figlia del ceramista Francesco noto come “Maestro delle Mura”. Ferrazzi l’avrebbe sposata nel luglio del 1922, costruendo con lei un’unione spirituale (fig. 10) in cui lui svolgeva il compito di realizzare un mondo di immagini ideali e lei quello di sostenerlo e ispirarne la fatica.

Negli anni Venti il prisma divenne il simbolo più compiuto del mondo espressivo di Ferrazzi, che si rappresentò emblematicamente con un prisma in mano nell’Autoritratto come Lazzaro (fig. 11), un’opera programmatica che serviva a legare i “frammenti unitari” del decennio precedente alle opere prismatiche di quello successivo. I dipinti dell’artista romano si costruivano ora come all’interno di spazi pensati alla stregua di cristalli dalle molte facce, creando una complessa simultaneità di visione alternativa a quella proposta dai futuristi. Ha scritto Maurizio Fagiolo Dell’Arco (1991)

“Tutta la pittura di Ferrazzi celebra in questi anni, con la presenza del prisma, l’allegoria della Visione. Lui stesso si presenta alla ribalta con un trasparente cristallo sfaccettato e consacra al prisma il suo Idolo. La visione prismatica è una celebrazione congiunta della luce, della molteplicità della realtà ma soprattutto dell’Oggettività della Visione”.

Il prisma, come intuì Quesada (1992), è anche l’emblema di un metodo di lavoro, in cui ogni piano riflette tutti gli altri: l’emozione riflette la passione per la tecnica, l’antico riflette il presente, la vita privata riflette le ansie universali. “La realtà mia conseguente all’altra della vita che vedo – dichiarava Ferrazzi nel 1924 – può trovare il suo simbolo nei prismi che metto nei quadri. Esiste infatti in quei corpi prediletti, una visione prospettica della luce e profondità di piani che trasforma l’ambiente e le cose in un risultato a sé”.

Una singolare compostezza, congeniale alla sacralità insita nella sua pittura, caratterizza negli anni Venti il ritorno alla tradizione di Ferrazzi, un classismo neo-quattrocentesco – seppur sempre venato da inquietudini neo-secentesche nelle ricerche materico-luministiche – così commentato da Roberto Papini.

“Disegnatore espertissimo, ricercatore della forma e del carattere come un classico, e insieme preciso e fine come se usasse la punta d’argento di un quattrocentista – scriveva presentando la personale dell’artista alla Seconda Biennale Romana (1923) -, egli compone i suoi quadri, talora un poco affollati, con ritmi placidi, con colori limpidi e puri, giocando di masse e di toni in armonie che hanno la dolcezza e la sapienza antica. Egli torna così, naturalmente, alle più pure fonti d’ispirazione, torna come molti giovani d’oggi a guardare con amore i maestri del Quattrocento […] Ma la sensibilità di Ferruccio Ferrazzi è moderna e sottile; se si orienta verso lo spirito degli antenati gloriosi è per affinità di sangue, non per posa; un tale spirito egli risuscita con aspetti nuovi, in pezzi mirabili di pittura che è d’oggi, anzi di domani”.

Alla Seconda Biennale Romana la sua ricerca fu considerata rappresentativa dell’avvenuta transizione tra l’avanguardismo nato precedentemente alla Grande Guerra e il successivo “ritorno all’ordine”.

Tra gli anni Venti e Trenta una sentita poetica ruralista sembra accomunare Ferrazzi a un artista al quale fu spiritualmente vicino, lo scultore Romano Romanelli, nella predilezione per la vita isolata in campagna, per il contatto diretto con la natura e la terra e con un mondo arcaico e primitivo inteso come origine quasi naturale della civiltà italiana. Una serie di temi simboleggianti l’amore per la campagna e per la natura si prestano a farsi allegoria del dissidio interiore fra una straripante forza vitale e il mondo delle idee che a stento la contiene, fra istinto e ragione; un dissidio che come quello fra avanguardia e accademia, rinnovamento dell’arte e ritorno alla tradizione fu alla base della spinta creativa di Ferrazzi. Questo ci sembrano simboleggiare le figure archetipiche più utilizzate quali il bue, il toro e il cavallo e, nei decenni successivi, in piena deflagrazione dei valori, tigri, leoni e leopardi. Alcuni quadri in mostra ci illustrano queste tematiche: Bue alla ferratura o Toro legato (fig. 12)

Fig. 12 Bue alla ferratura

del 1925, il coevo Orizia e Fabiola al Casalaccio, Casalaccio di Tivoli (fig. 13),

Fig 13 Casalaccio di Tivoli

raffigurazione idilliaca del casale di campagna ristrutturato in un ex convento sopra Tivoli con i soldi del prestigioso Premio Carnegie vinto nel 1926.

Lavorando e vivendo piuttosto appartato – scriveva nell’autopresentazione della propria sala personale alla I Quadriennale di Roma (1931) -, non ho ingombrato il proscenio […] Io appartengo a me stesso; e l’evoluzione che può essere notata nell’opera mia avviene per mia intima necessità. La via me l’apro con le fatiche e le esperienze mie, ricavando dai miei errori buon insegnamento non meno che dalla natura e dai maestri antichi. Mi sono costruito una vita come m’era necessaria: libera e serena e semplice. Dalla mia origine familiare ho tratto il gusto per la terra e per i lunghi periodi di isolamento e di tenace lavoro. Questa sana indipendenza mi permette d’esporre per tappe, quando, in rapporto alla mia evoluzione, mi sembra d’averne raggiunta una”. Le parole dell’artista esprimevano compiutamente la sua adesione al ritorno all’ordine e alla semplicità dei grandi maestri del Quattrocento italiano, riletti in chiave moderna. “Cerco di rendere nella mia pittura – aggiungeva – […] la realtà che diventa simbolo, nella sua espressione di bellezza forte e calma, aliena da ogni dolcezza o violenza o curiosità ma sintetica e semplice”. “Ho inteso e voluto rendere le mie visioni, sempre più aperte al Mito della Vita umana”, concludeva parlando del proprio lavoro al Mausoleo Ottolenghi di Monterosso presso Acqui, lavoro che costituì la summa pittorica del suo mondo poetico, oggi documentato in mostra dal bellissimo cartone degli Amanti (fig. 14).

Fig 14 Gli Amanti
Fig 15 Cartone Agricoltura

Il cartone in formato ridotto per l’arazzo della Corporazione dell’Agricoltura (fig. 15) documenta la prima commissione pubblica di Ferrazzi: l’incarico, assegnatogli nel 1931, di predisporre i bozzetti per sette arazzi di grandi dimensioni (435 x 250 cadauno) da collocarsi sopra le porte del Salone del Consiglio del nuovo palazzo del ministero delle Corporazioni progettato da Marcello Piacentini in via Veneto. Gli arazzi realizzati su suoi cartoni dal laboratorio dei fratelli Eroli (ogni arazzo richiese otto mesi di tessitura) raffigurano le sette Corporazioni: Commercio, Comunicazioni marittime e aeree, Comunicazioni terrestri, Agricoltura, Professioni liberali, Professionisti e Artisti, Assicurazioni e Credito. “Le figure agiscono entro lo spazio che le racchiude con gesti sicuri e sereni, come in una perfetta visione di ordine”, dichiarava Ferrazzi nella Presentazione dei bozzetti (1931). Essi sono immaginati come “vasti labari di legioni inquadrate”, realizzati “con senso di semplicità, ma fuori della simbolica comune […] per raggiungere ampiezza d’espressione mitica, viva ed umana”. Per l’Agricoltura il motivo è tratto dal

“modo primitivo e tuttora usato di trebbiare il grano. Una fanciulla lieta nell’opra agreste conduce il gruppo dei cavalli sui covoni. Nel tutto è il vortice dell’azione ed un fuoco sembra alitare da la nostra terra italica. Nella predella un animale si disseta dalle vene del suolo, nell’aspetto primordiale dell’atto immutato”.

L’arazzo, che fu esposto alla XIX Biennale di Venezia nel 1934, raffigurava agli occhi dei contemporanei la “gioia della campagna; gioia luminosa e solare […] dove la giovanetta che lascia scoperto il seno, nell’accompagnare il moto dei cavalli alla trita del grano, sembra accennare un canto, con arguta movenza, gridato coraggiosamente a piena gola dal ragazzotto in giacchetta blu, diritto a spaventare i puledri, mentre dietro biancheggiano le nevi e piove, dall’aureola solare”.

L’idea degli arazzi fu di Piacentini, che voleva “far risorgere tutte le gloriose arti italiane”, come scrisse a Ferrazzi l’11 agosto 1931, rettificando la primitiva commissione di cartoni per mosaico in cartoni per arazzi: “L’idea è piaciuta immensamente a S.E. Bottai. Faremo la grande sala moderna degli Arazzi! Cosa che nessuno ha!”. Gli arazzi però furono giudicati “mancanti d’espressione e di contenuto fasciste”, nel gennaio 1933 scesi dalle pareti e conservati nei depositi fino al 1951 quando vennero infine ricollocati. Il fatto, assai doloroso per l’artista, causò la rottura dell’amicizia con Marcello Piacentini e l’inizio di una polemica con Ojetti. Così gli scriveva Ferrazzi il 14 marzo 1933

“Caro Oietti (SIC) – – i miei arazzi […] sono stati fatti discendere dalle mura della grande sala e gettati in magazzino: e che proprio ora il Genio civile (ironia d’una denominazione) sta disponendo per troncare la prosecuzione del lavoro presso gli Eroli. Eppure alla vigilia dell’inaugurazione il Capo del Governo, che già dall’agosto conosceva gli arazzi attraverso ampie fotografie e che vide sul posto l’opera d’arte, aveva mostrato d’esserne soddisfatto. E all’inaugurazione per quanto io so il giudizio della critica è stato lusinghiero. Io sono stato tenuto all’oscuro di tutto. D’un provvedimento così grave che mi schianta in pieno, m’era riservato d’aver la notizia solo cinque o sei giorni fa, per la strada, da uno dei tanti che sapevano e che ne godono tra sé, se non apertamente. Anche gli Eroli sapevano qualche cosa. Dunque verso di me neppur quel poco di riguardo usato verso i miei esecutori. Che fine è riservata ai miei lavori che mi hanno costati mesi e mesi di fatica, che m’hanno tenuto desto tante notti e con tanta febbre? Io sento in tutto questo un’opera di perfidia oscura, che muove da quelli della mia stessa arte e non sanno perdonarmi quel poco d’ingegno che io ho. L’ingiustizia si compie così in silenzio e in fretta […] Sarà taciuto di questo incredibile modo d’agire verso un artista?”.
Fig 16 Re Dario che libera Daniele dalla fossa dei leoni

La polemica con Ojetti infuriò anche pochi anni più tardi, quando l’affresco di Re Dario che libera Daniele dalla fossa dei leoni (fig. 16), eseguito nel 1939 da Ferrazzi nel Palazzo di Giustizia di Milano, fu ricoperto su richiesta del Presidente della Corte d’Appello di Milano, che lo accusò di “giudaismo”, ritenendolo un soggetto “non ariano” e quindi sconveniente all’indomani della proclamazione delle leggi razziali antiebraiche. In risposta a un articolo di Ojetti sul “Corriere della Sera”, l’artista pubblicò una lettera aperta sul «Meridiano di Roma» (1942): “Noi oggi, «pittori di muraglie» – dichiarava – non chiediamo di meglio che il silenzio dei dottori della critica d’arte, tanto e lodevolmente occupata alla luce artificiale, di stabilire la densità e la purezza emotiva della distillata pittura di un ceruleo vanto francese. Noi vorremmo infatti, solo il rispetto tacito del nostro lavoro, da chi, orecchiante del nostro antico, non può giudicare dell’arte attuale, perché è nostra viva ambizione, soprattutto, di comunicare, alla naturale luce del sole, direttamente con il pubblico sulle vaste pareti: nelle chiese, nelle scuole, nelle palestre, per le vie, come nei centri di Bonifica, con un’arte nata dalla fede e dai miti, per la bellezza del Popolo e per la gioia del nostro Popolo”.

I torti subiti dal regime furono sempre rinfacciati da Ferrazzi a chi, nel dopoguerra, avrebbe potuto accusarlo di collaborazione. In particolare, l’occultamento degli arazzi delle Corporazioni fu additato come motivo per rifiutare di esporre alla Mostra della rivoluzione fascista alla quale era stato invitato.

Risposi che non potevo accettare questo incarico – annotò in data imprecisata sul cartoncino d’invito del 1932 -: gli arazzi delle corporazioni discussi e buttati nelle casse…”.

Accademico d’Italia dal 20 aprile 1933, Ferrazzi non aveva mai richiesto la tessera del partito. Alla fine del 1939 però il Direttore della Reale Accademia d’Italia, Luigi Federzoni, ovviò a quest’inconveniente chiedendola d’ufficio per lui.

Fig 17 Ritratto del padre Stanislao, encausto, 64,5 x 50,5

Ritratto di papà (fig. 17) documenta il primato di Ferrazzi nella riscoperta dell’encausto, tecnica che riteneva strumento dello splendore della pittura pompeiana, ammirata e studiata dal vero nel 1927, quando si recò a Napoli per il conferimento della cattedra di pittura presso l’Accademia di Belle Arti, un incarico subito abbandonato. Le sue ricerche in questo campo iniziarono intorno al 1930 e furono caratterizzate da molte prove con verifiche di resistenza a distanza di tempo, descritte dettagliatamente negli inediti Quaderni della tecnica. La sua ricerca fu fondamentalmente intuitiva, ossia non finalizzata a un recupero filologico e archeologico dell’antica tecnica esecutiva bensì alla messa a punto di uno strumento utile alla propria ricerca stilistica ed espressiva.

“Ho […] affrontato il problema dal punto di vista del tutto intuitivo – dichiarava lui stesso – puramente pittorico e sperimentale, non archeologico, senza voler credere di aver scoperto il perduto segreto, ma contento dei risultati che non si discostano da quelli antichi”.

Mi rivolsi, attorno al trenta, alla ricerca di una materia levigata e smagliante all’opposto dell’aspetto ‘calcinoso’ degli affreschi ottocenteschi – riportava nel suo scritto Dell’encausto (1971) -. Sul dipinto ancora umido dell’intonaco, distendevo il velo di una cera disciolta e liquida, da penetrare con la fiamma, e dopo averla lucidata con ferri, ottenevo la materia ‘simile a pietra’, fissando i valori dei toni del colore bagnato. Era questo un lontano spunto da un antico mestiere ormai decaduto, all’uso dei cosiddetti ‘marmorini’. Ma i frequenti colloqui con la pittura di Pompei e del Museo di Napoli ed in quello di Roma alle Terme dal quale il direttore Prof. Aurigemma volle affidarmi dei grandi frammenti di nature morte con pesci, che rigenerai da guasti di ossidazione […] mi portarono alla convinzione di diverso procedimento dell’affresco, cioè a una pittura che partendo da quella tecnica, si svolgesse con altro sistema anche su pitture mobili, in supporti di terracotta o di lavagna e sulle tavole […] Delle mie realizzazioni, o sconfitte, ho riempito 15 fitti quaderni-diario, e due rubriche di voci, oltre a fogli, a pezzi di supporti con le notazioni, macchie di  colore, ghirigori di pennello, spatolature ecc.: infinite prove «gestuali» di quelle sostane composite, affinché la tecnica con la materie che la componevano venissero a far parte di uno stile”.

Molti suoi frammenti “all’encausto e all’affresco bruciato” furono esposti nella sala personale allestita alla Terza Quadriennale (1939), ottenendo stupore e successo. “Caro Ferrazzi, hai foto dei tuoi encausti e di quei frammenti chiusi sotto vetro? – gli chiedeva Gio Ponti, di ritorno dall’esposizione romana – Me ne sono innamorato”.

“Ho ripercorso le esperienze di un linguaggio pittorico più confacente a un respiro virile, quale considero la pittura murale, che ha in sé dignità costruttiva e plastica – dichiarava nel 1943 -. A queste ricerche ho dedicato del tempo non breve […] Ho passato molte notti nello scantinato a lambiccare combinazioni di smalti, di vernici, di supporti, di imprimiture, di resistenze al calore, perché tutto sta nel rapporto del mezzo pittorico con qualche cosa che si muove nella mano dell’artista, quale rispondenza assoluta a una sapienza guadagnata con amore e studio […] Bisogna risalire dall’immanenza impressionista, dal frammento di oggi e di ieri, verso un linguaggio nuovo di parole e di tecnica, da servire ad una nuova classicità, a una religiosità ferma dell’opera, per aspirare alla creazione di un poema del nostro tempo […] Vorrei arrivare ad essere un pittore, un pittore poeta tragico, degno di questo tempo drammatico ed eroico”.

L’affresco, affermava più tardi in una lettera a Renato Guttuso, non è solo tecnica ma “radice profonda nella nostra anima”.

La Scuola (fig. 18), un bozzetto per encausto in mostra, documenta una delle maggiori imprese murali compiute da Ferrazzi,

Fig 18 Sala di Galilei

la decorazione ad affresco della sala delle lauree della facoltà di scienze fisiche, matematiche e naturali dell’Ateneo di Padova, in Palazzo del Bo, nota come Sala di Galilei. La corrispondenza inedita fra l‘artista e il Rettore Carlo Anti, archeologo illuminato e amante delle arti, consente di ricostruire nei dettagli la lunga elaborazione di quest’opera capitale e il rapporto di stima reciproca nato fra i due uomini, proseguito anche dopo la fine del mandato di Anti e la sua sostituzione con Concetto Marchesi. “Il Bo e il Liviano rimangono un documento unico delle possibilità ‘murali’ dell’arte italiana intorno al 1940 – scrisse all’artista il 4 agosto 1953 – […] Ed io sono sempre grato a te di aver accettato – con spirito della massima generosità – di partecipare all’impresa”.

Fra i vari episodi proposti Ferrazzi scelse quello di Galilei che nel 1609 costruì a Padova il primo cannocchiale. La sua composizione (fig. 19) raffigura in alto al centro Galileo intento a studiare il cielo con un cannocchiale.

Fig 19

Nella stanza sotto di lui sono figure che dialogano, disposte attorno a un tavolo; a sinistra due figure femminili, un’anziana e una giovane, allegorie dell’Astrologia e dell’Astronomia; sopra di esse una sfera armillare. A destra si distingue la cupola del nuovissimo Osservatorio astrofisico di Asiago, inaugurato il 27 maggio 1942 con la messa in funzione del telescopio Galileo, che, costruito dalle Officine Galileo di Firenze fra il 1940 e il 1942, era all’epoca il più grande in Europa. Varie figure osservano il cielo, mentre in primo piano in basso sono uomini e donne, una mamma con bambino, un cane e due figure maschili abbracciate a monocromo. A sinistra Prometeo cade dal cielo lasciando alle sue spalle una scia di fuoco. In cielo sono la luna, un’eclissi di sole, segni zodiacali (ariete, toro, bilancia) e un centauro che rapisce una figura femminile nuda, mentre un’altra assiste sollevando le braccia impaurita. Sullo sfondo si riconoscono le cupole della Basilica del Santo e il tetto di Palazzo della Ragione.

L’esecuzione del Galileo fu particolarmente travagliata a causa della guerra, le cui devastazioni si riflettono nelle serie allucinate del Grido e delle Apocalissi, quando, sulla soglia degli anni Quaranta, Ferrazzi liberò l’espressione dagli ultimi lacci del proprio, personale idealismo estetico. Durante l’occupazione nazista dell’Urbe, rifugiatosi con la famiglia al Casalaccio, l’artista dipinse una fitta serie di quadri “apocalittici” e “sconvolti”, incendi, eruzioni, scheletri, che rielaboravano anche le recenti immagini del disastro atomico di Hiroshima. La visione prismatica si trasformò in visione vorticosa in cui il dipinto non era più il cuore di un prisma bensì il centro di un vortice. La materia lievitante da se stessa, i colori eccitati l’uno dall’altro vennero a comporre un’iconografia irreale, sconvolta, allucinata. Al centro di questo capitolo s’impone La Stanza (fig. 20), tela che sul retro reca l’iscrizione Gli anni dell’orrore, nella quale Ferrazzi mise in scena la violenza dell’occupazione tedesca dell’Urbe.

Fig 20 La Stanza, 1943-46, 121 x 151, coll. privata

Il soggetto è infatti ispirato da un attentato partigiano davanti l’Hotel Flora, del quale l’artista fu casualmente testimone. Nel quadro la guerra, incarnata da uno scheletro di cavallo, spazza via la sicurezza della vita quotidiana, mandandola in frantumi, in un’esplosione dello spazio.

“Nella ‘Stanza’dichiarava l’artista (1975) – […] è il riferimento a un turbine di angoscia collettivo che mi pervase quando con molte altre persone fui ammassato nell’atrio dell’Hotel Flora in Roma, allora sede del comando tedesco, in seguito ad un attentato compiuto con una bomba. Vi era rimasto ferito un impiegato italiano, tutto era in disordine, sul pavimento una larga chiazza di sangue: a quella angosciosa, sconvolgente emozione sono legate la figura proiettata in aria, la testa rossa riversa su un piano prospettico”.

Abbandonata Roma nel 1959, Ferrazzi si fece costruire una casa a picco sul mare sul poggio di S. Liberata, all’Argentario, incastonata tra le rocce e immersa nella macchia mediterranea. Sul promontorio toscano, eletto a luogo di villeggiatura con la famiglia sin dagli anni Trenta, l’artista ritrovò se stesso, la speranza di vivere, la fede cristiana nel contatto vivo con la terra e con la natura. Le parole più significative sul suo ultimo periodo di attività le scrisse nell’autopresentazione in catalogo dell’VIII Quadriennale, in quel medesimo 1959 nel quale lasciò Roma per coltivare un’aspirazione universale alla felicità che intendeva tradursi in una visione perspicua delle cose.

Con l’età subentra una calma meditazione su tutto quello che si è fatto e pensato – dichiarava -; come in un rallentato corso piace starsene ai confini di un nostro pezzo di terra, dove vi sono piante care e lontane nel tempo, cresciute come dentro di noi, alle quali ogni anno potiamo i rami e inumidiamo il terreno durante la siccità. A quelle piante abbiamo, in certo modo, donato la nostra paternità e fisionomia. Nell’orto immaginario della pittura mi è caro riandare a quelle piante cresciute lentamente in arsura e fatica, per averle infine condotte ad una loro certa linea precisa ed ambientate in un loro spazio con prospettive e rapporti, proprio come ho fatto per il mio rifugio a S. Liberata, sul mare”.

Al Casalaccio di Tivoli – avrebbe ricordato nel 1977 –, ancora al fianco di mio padre, sentii un giorno il respiro ampio verso l’eternità panica che mi sconvolge tuttora lo spirito tra il divino e l’umano […] l’innato desiderio di contemplazione, di silenzio, di meditazione, di misura dell’uomo in rapporto con le cose mi hanno spinto qui all’Argentario”.

La mia solitudine

Nel dipinto conclusivo della mostra, l’inedito La mia solitudine (fig. 21) eseguito nel 1977, Ferrazzi si autorappresenta al centro di quel Teatro della vita scolpito nel giardino del suo studio-abitazione che costituisce la celebrazione del proprio mondo poetico e dei valori nei quali aveva sempre creduto.

L’artista vi rielaborò i temi affrontati in ottant’anni di pittura, soffermandosi su quelli più importanti dell’esistenza umana: la nascita, l’amore, la morte.

Alessandra IMBELLONE 17 Settembre 2019