di Massimo FRANCUCCI
Nuova luce Sul naturalismo lucchese: Pietro Paolini in mostra per Vittorio Sgarbi
L’esposizione che si è aperta lo scorso otto dicembre a Lucca, nella bella sede della Cavallerizza, pone l’accento sui riflessi del caravaggismo in Toscana, focalizzando l’attenzione sul caso lucchese, dominato dal geniale Pietro Paolini, vero protagonista della mostra.
Si tratta di un artista sicuramente in grado di affrontare una mostra monografica, ma altrettanto giustamente l’ambiziosa kermesse curata da Vittorio Sgarbi ha voluto allargare il discorso per contestualizzare meglio la sua arte, dando spazio così a quasi tutti i principali protagonisti della pittura naturalista seicentesca. Che questa avesse avuto in Caravaggio il suo iniziatore nonché il proprio interprete più formidabile è cosa nota e, nonostante gli sforzi per celarne la fama siano stati tanti, riverberi della sua lezione rivoluzionaria si rintracciano con forza anche a notevole distanza dalle città visitate dal pittore milanese, che dopo il lungo soggiorno romano, affrontò una fuga senza meta interrottasi tragicamente proprio in Toscana, a Porto Ercole.
L’eco del naturalismo caravaggesco è tanto potente nelle opere dei pittori che a lui in qualche modo si rifacevano, da rendere la presenza di opere del pittore quasi pleonastica: in mostra vi è il Mondafrutto “inglese” (fig. 1), probabilmente la versione più bella tra quelle note, ma non abbastanza da spegnere le ambizioni di chi speri di trovarne una migliore.
Importante è la presenza del celebre Cavadenti di Palazzo Pitti (fig. 2), sul quale Paolini deve avere meditato a lungo e bene, il dipinto è tanto nelle sue corde da poter quasi sembrare suo: sull’autografia caravaggesca il dibattito è ancora acceso e, nonostante le numerose voci favorevoli, posso dire di non esserne mai stato pienamente convinto, soprattutto per la presenza eccessiva del “grottesco” e di una deformazione quasi caricaturale dei volti che non ha eguali nel resto dell’opera di Michelangelo Merisi, sempre fedele al verosimile, se non al vero.
Si ammira infine il Seppellimento di Santa Lucia di Siracusa (fig. 3), sebbene solo in facsimile, una modalità che, grazie all’illuminazione evocativa, rende il colpo d’occhio della prima sala particolarmente impressionante, soprattutto per l’accostamento della Notte di Rubens a Fermo (fig. 4).
Qui la vera fonte luminosa è miracolosa e tutta all’interno del dipinto: proviene da Gesù Bambino e irradia di nuova luce il mondo circostante, abbagliandolo.
Sono modalità ben diverse da quelle use al Caravaggio, refrattario al miracoloso in quanto tale e più disposto a porre le sorgenti luminose all’esterno del campo visivo della tela, d’altra parte Rubens non poteva che aderire al caravaggismo in maniera personalissima, più vicina alla sensibilità fiamminga e forse francese, come dimostra il caso di Trophime Bigot e del lume di candela. Sono suoi due dipinti provenienti dalla collezione di quell’ottocentista singolare che fu Fortunato Duranti (Montefortino, fig. 5) e dalle raccolte della Pinacoteca Comunale di Teramo, egli troverà un alleato in Italia in quel lucchese girovago di Pietro Ricchi, i cui allestimenti non smettono mai di affascinare, specialmente quelli alimentati dal lume di candela. Tornando a Rubens, si sa che il pittore di Anversa fu un precoce sostenitore dell’arte di Caravaggio, tanto da favorire il passaggio della Morte della Vergine, – una volta negatagli brutalmente la destinazione inizialmente prevista, ossia Santa Maria della Scala, – nelle sale dei Gonzaga a Mantova.
Seguì poi parte delle collezioni ducali a Londra, allorché Carlo I andava arricchendo le raccolte reali inglesi, ma dopo il regicidio il dipinto finì tra le mani di un monarca ancora più assoluto, Luigi XIV, motivo per cui è oggi al Louvre.
Ma è Roma il centro della rivoluzione naturalista ed è proprio qui che Paolini si è formato alla corte di Angelo Caroselli, accostato in mostra al suo geniale sodale, lo pseudo-Caroselli, caratterizzato da una ossessiva predilezione per tematiche stregonesche: a lui spetta, come si limita a suggerire lo studio in catalogo, la Negromante della pinacoteca di Ancona (fig. 6).
Nell’Urbe Paolini avrà ammirato Lanfranco, in mostra con una bella Fuga da Troia, firmata, arricchita dall’analitica presenza di preziosi riverberi luminosi (fig. 7);
avrà poi conosciuto Giovanni Baglione, la cui infatuazione caravaggesca era finita in tribunale, per poi fare capolino di tanto in tanto nel corso della sua lunga carriera (fig. 8).
Molto più deciso e coerente nell’adesione al naturalismo è stato invece Valentin, che ha ricondotto la ricerca del vero sui binari di un amalgama di luce e colore raggiungendo apici strabilianti come nel Battista di Camerino (fig. 9).
Qui si osservano le modalità secondo cui un lume strategicamente orientato può scoprire, analizzando al meglio, l’epidermide del santo, la sua veste, il crine dell’agnello che lo accompagna docilmente. Se il francese non ha più abbandonato Roma fino alla morte, il Fossombrone, del quale tra gli altri è presente in mostra quel capolavoro che è il suo Ercole e Onfale (fig. 10), è invece tornato in patria annacquandovi in breve le tendenze naturaliste acquisite nell’Urbe.
Non farà così Paolini, che una volta aver forgiato una sua personalissima “Manfrediana Methodus” l’avrebbe riportata intatta a Lucca, dando vita a una tradizione fortunata che avrebbe avuto in Simone del Tintore un esponente di rilievo e in Gian Domenico Lombardi l’ultimo protagonista.
Oltre al Cantore scelto come immagine della mostra (fig. 11), meritano di certo una menzione speciale, ma è veramente difficile scegliere tra tanti splendidi dipinti, la Madonna del Rosario proveniente da Villa Guinigi, il Negromante quasi inorridito dalle sue stesse arti magiche (fig. 12, collezione Cavallini Sgarbi), la complessa messa in scena dell’Eccidio degli ufficiali del generale Wallestein (fig. 13, Lucca, Palazzo Orsetti) che permette al pittore di testare le proprie capacità scenografiche e teatrali in un concitato episodio di storia a lui contemporanea, nel quale dare sfogo poi alla propria passione per le armi.
Una rimeditazione del dipinto di Rubens e dei suoi precedenti cinquecenteschi è evidente nell’Adorazione dei Pastori della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca (fig. 14), mentre un’incursione nella pittura di genere e nella natura morta, che lo vedrà anche collaborare con Simone del Tintore, è evidente, ai massimi livelli, nel Concerto della collezione Micheli, di provenienza Mansi.
Da Villa Guinigi vengono le due concitate scene di martirio di San Ponziano e di San Bartolomeo, che si appresta a ricevere quale ricompensa per la sua fede, la palma del martirio che in alto (figg. 15-16), un angelo svolazzante si accinge a consegnargli.
A guardarlo bene, l’alato putto ricorda da vicino, sebbene ricondotto a un inusitato nitore forse di derivazione veronesiana, il Cupido dormiente che insieme al pendant con Cupido che forgia le frecce rappresenta l’aggiunta più recente al catalogo di Paolini (fig. 17, Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca)
e che andrà confrontato poi con i giovani presenti nella Nascita del Battista di Villa Guinigi, altro capolavoro ma rimasto nelle sale del museo lucchese la cui visita va necessariamente affiancata a quella della mostra (fig. 19, part.).
Detto questo mi sembra sorprendente il silenzio del catalogo su un altro splendido dipinto di Paolini, riconosciutogli da Marco Ciampolini e che, a causa della sua iconografia, precisata da Daniele Benati in Penelope che mostra la tela ai Proci (fig. 20), ha presenziato alla mostra forlivese dedicata ad Ulisse.
In aggiunta a quanto scritto in quell’occasione posso ora proporre di identificare il dipinto con la Penelope celebrata da Stefano Coli e da Isabetta Coreglia
(P. Giusti Maccari, Pietro Paolini, pittore lucchese 1603 – 1681, Lucca, 1987, p. 186; E. Struhal, Pittura e poesia a Lucca nel Seicento: il caso di Pietro Paolini, in Lucca città d’arte e i suoi archivi, Venezia, 2001, pp. 389-404).
In un sonetto la stessa poetessa ha paragonato Paolini e Coli ad Apelle e Apollo. Infatti Stefano Coli, medico di professione, si dilettava di poesia e Paolini ne realizzò un ritratto che lo immortala assieme al padre Girolamo, medico come lui, (F. Baldassari, Per Pietro Paolini: un importante ritrovamento, in “Paragone”, 1991, 493/495, pp. 73-77; Torino, collezione privata) databile non lontano dalla Penelope che si presenta quindi quale pegno del ruolo giocato dal pittore nell’infinito dibattito del Ut pictura poësis e della gerarchia delle arti.
Massimo FRANCUCCI Lucca 12 dicembre 2021
I due sonetti di Isabetta Coreglia:
Per la Penelope del Sig. Pietro Paulini
Se fea si vaghe la Natura quelle / animate bellezze, e quei splendori / com’il gran’ PIETRO, gl’incorrotti honori, / servato non avria femmina imbelle. / Far scorno à la Natura, onta à le Stelle, / animar l’ombre, inorridir gl’horrori, / di Tebe rinovar gl’altri stupori / son’ del saggio PAULIN’ l’opre men belle. / Basti sol dir, ch’ei, con le fragil tele / del tempo destruttor contrasta à l’onte, /né d’avverso censor teme querele. / E per passar con gloriosa fronte / i mar’, ch’eterna l’huom’, senz’altre vele / sù le tavole sue fabrica un’ Ponte.
Per il conto? Sonetto del Sig. Stefano Coli, fatto al Sig. Pietro Paulini, in lode della sua Penelope
Uno Apollo, uno Apelle uniti veggio / a formar di beltà la vera idea / l’un col dotto pennel l’anima bea, / l’altro, col dolce stil, non ha pareggio. / Stuol di Proci vaneggia, ed io vagheggio / la saggia, ch’emulando il Lin’ tessea, / e, con industre inganno à fren’ tenea, / chi di tanta honestà facea dileggio. / Ma, qual de i due prevaglia, io non discerno; / vivi son i color’, vivi gli inchiostri, / ne si puote già dir, questi è men bello.
STEFANO, a PIETRO egual, parmi, che giostri, / generosa tenzon’, nobil duello, / che rende ambo immortal, con premio eterno.