“Omnia alia sunt”. La ridefinizione della scultura nell’opera di Fabio Bix.

di Luca CALENNE

«È tanto falso che la scultura sia più mirabile della pittura, per la ragione che quella abbia il rilevo e questa no, che per questa medesima ragione viene la pittura a superar di maraviglia la scultura: imperciocchè quel rilevo che, si scorge nella scultura, non lo mostra come scultura, ma come pittura».
fig. 1

Quanto risponda a verità questo passaggio della celebre lettera inviata nel 1612 da Galileo all’amico pittore Ludovico Cigoli, e avente come oggetto l’annoso tema del “paragone” tra pittura e scultura, lo dimostra una piccola ma sofisticata mostra in corso fino al 25 febbraio presso la Gallerja di via della Lupa, dove sono esposte le opere di Fabio Bix.

La mostra ha un titolo latino che incuriosisce: Omnia alia sunt, ossia tutte le cose sono qualcos’altro. Si tratta di sculture, senza dubbio, delle quali però sono esposte le fotografie, scattate dallo stesso artista con il suo smartphone.

fig. 2

In verità, una di esse è esposta in mostra, sopra un piccolo piedistallo al centro della sala: si tratta di un fazzoletto di carta sapientemente stropicciato, in cui ogni visitatore coglierà le affinità con il panneggio di qualche capolavoro ellenistico o barocco [fig. 1, fig. 2].

Tuttavia, non si tratta di un’opera finita; le opere da ammirare infatti sono altre, ossia le grandi foto sulle pareti che ritraggono questo o altri simili fazzoletti stropicciati che si stagliano davanti ad alcuni dei monumenti più iconici del mondo, dal ponte di Brooklyn al Colosseo.

fig 3

In prevalenza si tratta di monumenti romani, come il Foro Romano [fig. 3] o la piazza di San Pietro in Vaticano, ma non mancano luoghi meno ovvi, come il Muro del Pianto a Gerusalemme [fig. 4] o il Guggenheim Museum di Bilbao.

In ogni scatto si vede il solito fazzoletto giganteggiare in primo piano, e assumere – per un calcolato gioco di prospettiva – l’aspetto di un’alta e marmorea statua antropomorfa.

 

fig. 4

In alcune foto, l’illusione spaziale è totalmente riuscita: penso soprattutto alla bianca figura femminile ammantata posta davanti al Palazzo della Civiltà del Lavoro dell’EUR [fig. 5],

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fig. 6

oppure il mendicante straccione seduto davanti alla facciata del Metropolitan Museum di New York [fig. 6], non solo perché le leggi della prospettiva sono state rispettate, ma soprattutto perché l’inserimento di una statua in quel contesto sembra perfettamente plausibile. Insomma, Bix è il promotore di una sorta di innocua statuomanie, che di certo non avrebbe nauseato Sartre come la folla di simulacri tridimensionali di benemeriti connazionali che incontrava nei giardini e nelle piazze francesi.

Ovviamente c’è molta ironia alla base di questa operazione, e Bix non ne fa mistero, tanto da confessare in un’intervista che ambisce ad essere considerato come uno dei più grandi scultori del mondo, ma non si tratta soltanto di un irriverente sberleffo alla concezione hegeliana della statuaria, ovvero all’arte che più di altre ha rappresentato grandi ideali e verità superiori. Si tratta semmai di un tentativo di fare saltare generi e categorie, di mettere in dubbio la loro validità, e di abituarci a pensare che le cose non sono necessariamente quello che sembrano (omnia alia sunt).

Iniziamo, appunto, da cosa sono: davvero si possono considerare foto di statue? Sicuramente sì. Se per statua si intende «L’arte e la tecnica di scolpire, cioè di esprimere l’intuizione artistica per mezzo di pietra, legno o altro materiale opportunamente modellato» (così recita il vocabolario della Treccani), non si può negare che i fazzoletti stropicciati di Bix siano una creazione artistica frutto di una modellazione/manipolazione, e non più un mero oggetto di consumo, sebbene non siano di pietra, legno o di altri materiali più nobili. Ma la scultura da tempo non fa più ricorso esclusivo ai materiali degli antichi greci.

In questo senso – come acutamente hanno colto le due curatrici della mostra, Mariaimma Gozzi e Ofelia Sisca – la statua di carta di Bix, è «la indisponente figlia di un pensiero dadaista», e il suo rapporto con il paesaggio retrostante ricorda «le prospettive verosimili, eppure stravolte del fotografo tedesco Herbert List». In effetti, il debito di Bix con le sperimentazioni artistiche degli anni Trenta (dadaismo, surrealismo, metafisica) è innegabile, così come nei suoi lavori precedenti: le sue passeggiate lungo gli scalini dei marciapiedi alla caccia di qualche scarto dal potere evocativo erano del tutto affini a quelle con cui Kurt Scwitters cercava i materiali per i suoi Merzbau. Proprio durante una di queste cacce fotografiche – racconta l’artista – egli ha visto un fazzoletto di carta modellato dalla pioggia, che da una certa prospettiva poteva ricordare la Pietà di Michelangelo. Così è nata l’idea di realizzare simili opere plastiche, tanto suggestive quanto minimali, che ironicamente poi lui colloca su un pretenzioso basamento in finto marmo venato.

Dunque, si potrebbe parlare di un ready-made modificato, che però è concepito come parte integrante di una foto. Infatti, i paesaggi urbani e i monumenti su cui si stagliano le statuine di carta di Bix fanno parte dell’operazione artistica, tanto che sono scelti con la stessa cura di uno scultore tradizionale che deve inserire una statua di cinque metri in una piazza. Rifiutando qualsiasi tecnica di fotomontaggio, Bix ogni volta si reca di persona sul posto, guarda, studia, e infine sceglie la giusta veduta. La Gallerja ci propone così un anamorfico giro del mondo, di foto in foto, sulle tracce del fazzoletto di Bix come se fosse il guanto di Klinger.

Che il risultato dell’operazione artistica di Bix sia bidimensionale, ossia che non si possa girare intorno al fazzoletto messo da lui in posa (né tantomeno alla sua foto), non è sufficiente per fare deporre a questo lo status di scultura. Chi vede la Sfinge di El-Giza dai libri pensa per caso che sia piatta? Del resto, come diceva Baudelaire in un famoso saggio (Perché la scultura è noiosa, 1846), la molteplicità di punti di vista può perfino nuocere allo scultore, perché uno spettatore girando intorno alla statua può trovare casualmente una veduta interessante a cui l’artefice non aveva minimamente pensato.

Per fare una scultura non può bastare il compiacimento di avere a che fare con tre dimensioni, altrimenti – come disse Arturo Martini – sarebbe sufficiente illuminare un sasso per fare una scultura (e c’è però chi lo ha fatto). Vengono in mente a tale proposito i rimproveri mossi dall’impressionista Medardo Rosso mosse al più famoso collega (ed ex amico) Rodin, che accusa di essere ancora schiavo della concezione accademica del tutto tondo. In effetti, come si legge nella lettera di Galileo sopra citata, pur essendo dotata di tre dimensioni, una scultura ne offre alla vista sempre solo due, come una foto; le eccezionali fotografie che Medardo produsse delle sue opere possono senza dubbio considerarsi come lontane parenti delle foto scattate da Bix.

Le foto di Bix inverano tutti questi discorsi, ossia ci confermano che la scultura vale soprattutto in quanto immagine, e non in quanto marmo o carta. Le sue dimensioni sono da valutare in relazione con l’ambiente in cui essa è inserita (seppure virtualmente), e non in assoluto. Del resto, abbiamo forse bisogno di toccare con mano una statua per poterla considerare tale, ovvero per godere del suo potenziale estetico?

Nel Settecento Johann Gottfried Herder pensava di sì, tanto da scrivere:

«Ci venga in aiuto il sentire tattile e la notte oscura che con la sua spugna cancella via tutti i colori delle cose e ci costringe esclusivamente a possedere e stringere un qualcosa!» (Plastik, 1778),

ma ben pochi gli hanno creduto, e forse pure lui parlava di una sorta di tatto visivo, una carezza fatta con gli occhi. Ma pure gli occhi possono sbagliare, pure di questi è bene diffidare. Nel caso delle creazioni di Bix lo sbaglio è duplice: sbagliamo non solo a calcolare le dimensioni reali dell’opera (come nel racconto La Sfinge di Poe, in cui il protagonista crede di avere visto alla finestra un orribile mostro che scende la collina, che poi si rivela essere una piccolissima falena a pochi centimetri dal suo occhio) ma pure a riconoscere in quella carta stropicciata la figura di una donna con il bambino oppure di un fantasma. In verità, non sono altro che immagini casuali, pareidolia, come le chimere che Leonardo da Vinci – quattro secoli prima di Ernst e Dalì – vedeva nelle nuvole, e le ispirazioni che Piero di Cosimo cercava sui muri degli ospedali ricoperti dagli sputi dei pazienti.

fig. 7

Mentre mi allontano da Via della Lupa, ripenso alle sculture di Bix, soprattutto a quella ambientata a Gerusalemme, e mi chiedo dove ho già visto qualcosa di simile a quella gigantesca Gradiva che incede. Melchiorre Cafà? Kallimachos? Niccolò dell’Arca? Tornato a casa, nella libreria trovo una soluzione plausibile: la penultima tavola del surrealista Poema a fumetti di Dino Buzzati (1969), che reca la scritta “GLI ULTIMI RE DELLE FAVOLE SI INCAMMINAVANO ALL’ESILIO”. [fig. 7].

Non è necessario che anche Bix abbia questo testo nella sua libreria, anzi direi che per me sarebbe una delusione scoprirlo: mi piace pensare che quei re metafisici e patafisici, nonché un poco burloni, dopo tanto tempo in esilio, siano tornati subdolamente ad aggirarsi su questo mondo, reificati in un fazzoletto di carta.

Luca CALENNE  Roma 5 Febbraio 2023