di Francesco GUIDI
La Quadreria di Palazzo Magnani a Bologna ha aperto le porte alle visite (ogni mercoledì e il secondo sabato del mese su prenotazione), grazie all’impegno della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna e di UniCredit, rendendo più agevole lo studio diretto di opere di grande rilievo per la storia della pittura italiana.
Il palazzo, affacciato su via Zamboni, l’antica Strada San Donato, fu commissionato da Lorenzo Magnani all’architetto Domenico Tibaldi, di cui si conosce un progetto del 1576 già in collezione Venturoli-Mattei. Sempre dai documenti sappiamo che nel 1578 la costruzione era già avanzata fino al cornicione, ma i lavori si conclusero sotto la direzione di Floriano Ambrosini, che ne aveva assunto la guida alla morte di Tibaldi nel 1583. Qualche anno dopo, attorno al 1589-90, i Carracci iniziavano a metter mano al celebre fregio del salone d’onore del primo piano con le Storie di Romolo e Remo, tratte da Tito Livio e Plutarco. In filigrana ai quattordici riquadri non va più letta la mera volontà di affermazione sociale di Lorenzo Magnani – volontà che pure aveva costituito il movente primo della costruzione del palazzo – ma una dichiarazione di obbedienza e sottomissione di Lorenzo verso papa Sisto V, che nel 1590 ne aveva favorito l’entrata in Senato.
L’opera degli Incamminati, da loro stessi presentata ai contemporanei, secondo Malvasia, con il celebre e orgoglioso «ella è de’ Carracci: l’abbiam fatta tutta noi», contiene già molti aspetti del classicismo che Annibale porterà a maturazione a Roma, dove vivrà a partire dal 1595. Un classicismo che recupera Raffaello e che si sostanzia del longhiano «movente lombardo, inteso a scavalcare il cadavere del manierismo e a comunicare direttamente, ad apertura, non di libro, ma di finestra, con lo spettacolo mutevole della natura». Il classicismo carraccesco inizia qui a venire alla luce e a caricarsi di quella sostanza a cui la pittura del XVII secolo dovrà fare necessario riferimento e attorno a cui ruota la Quadreria.
Il percorso inizia con la Visione di San Vincenzo, opera di Ludovico Carracci (1555-1619) che si data entro il 1586. Il santo avvolto in taglienti panni rossi è immerso in un severo paesaggio padano crepuscolare, dove il cielo è squarciato dall’apparizione di una Vergine con il Bambino ripresa da una stampa di Federico Barocci, copiata anche da Agostino (collezioni Genus Bononiae) e Annibale nel 1582. È dunque in date molto vicine agli affreschi Magnani, nei quali, come detto, si delinea l’argomentazione antimanierista dei Carracci, che Ludovico si rivolge a Barocci, il quale a sua volta cercava una via alternativa rispetto alla maestra Maniera attraverso l’osservazione del dato reale nella sua Urbino.
La Quadreria ospita anche tre tele di Guercino (1591-1666). La solenne Trinità con le figure schiacciate, probabilmente perché in origine dovevano vedersi dal basso; l’Orazione nell’orto, del secondo decennio, dove il tono cupo e monocromo, rotto solo dalla veste di Cristo e di un apostolo addormentato, accompagna l’arrivo di Giuda e della folla che arresterà il figlio di Dio; e la bellissima Lucrezia, la cui storia pure è tramandata da Tito Livio. Il confronto va con le varie versioni del tema dipinte dal tardo Guido Reni (Genus Bononiae, Musei Capitolini) e in particolare con quella bolognese, databile al 1640-41, che condivide con Guercino l’originale scelta iconografica: non il momento del suicidio ma quello della meditazione che precede il gesto fatale. Reni tende alla monocromia, gioca tutto il dipinto sui toni del violetto e dell’avorio, e presenta una Lucrezia quasi a figura intera e stoicamente nuda;
la Lucrezia di Guercino è vista a mezzobusto, vestita, la luce guizza sui capelli biondi che le incorniciano il volto a contrasto con il fondale grigio, da cui emerge lo straordinario viso con gli occhi gonfi di lacrime dell’eroina classica ormai pronta a togliersi la vita.
Si salta indietro al Cinquecento. La tela con Giuditta e Oloferne di Lorenzo Sabatini (1530-1576), databile agli anni immediatamente precedenti il 1565, è al contrario dominata dalla tensione dell’atto appena compiuto, che si dispiega nella rarefatta e inquieta atmosfera dalle tinte pallide e raffinate e in un naturalismo che rimane lontano dalla restituzione del vero. Lo Scarsellino (Ippolito Scarsella, 1551-1620) e la sua Adorazione dei Magi non possono capirsi senza i precedenti ferraresi di Dosso e Garofalo e senza pensare al viaggio di formazione di Ippolito a Venezia nel 1570, dove conobbe direttamente Tiziano e soprattutto Veronese, la cui opera influì su di lui tanto da valergli l’appellativo di “Paolo de’ ferraresi”. Il risveglio di Venere di Dosso Dossi (Giovanni Luteri, ca. 1486/1487 – 1542), reso noto nel 1980, è un’opera fondamentale nel percorso del maestro ferrarese da collocarsi alla metà del terzo decennio, negli anni tra la pala di san Sebastiano del Duomo di Modena (1518-21) e la pala con San Giovanni Evangelista, San Bartolomeo e due membri della famiglia Della Sale ora alle Gallerie Nazionali d’arte antica di Palazzo Barberini a Roma, ma dipinta nel 1527 per la Cattedrale di Ferrara.
Momento di passaggio in cui Dosso, trattando per la prima volta il tema veneziano della figura nuda nel paesaggio, si confronta con lo stile del tardo Raffaello e soprattutto con Tiziano, senza dimenticare la lezione di Michelangelo nella grandiosità del nudo della dea. L’ambizione classicista, ma di un classicismo veneziano, vibrante nei preziosissimi campi di colore, non nega spazio alle annotazioni naturalistiche della prima giovinezza dossesca, delineate nelle pieghe della pelle di Venere tra collo e nuca e nell’intenso paesaggio che si apre alle spalle della dea. Ai margini di un bosco punteggiato di isolate architetture e attraversato da un fiume sono due giovani suonatori di flauto, affiancati da un vecchio appoggiato ad un bastone, immobile nell’ascolto; lontana una città fantastica, delineata con pochi tratti argentei, e in alto le nubi, cupi filtri alla luce dorata del sole, con le quali si confonde Cupido che corre a svegliare la madre.
Arriva poi la sala con sole opere di Giuseppe Maria Crespi (detto lo Spagnuolo, 1665-1747), il «solennissimo matto» delle note manoscritte di Zanotti alla sua Storia dell’Accademia Clementina (1739), con le sue pennellate dense di colore e il suo fare semplice che cela il colmo della maestria. Crespi non dimentica la tradizione, ma a Guido Reni privilegia le tinte terrene di Guercino – le Due pastorelle sono quasi un Et in Arcadia Ego alleggerito delle connotazioni allegoriche -, coniugate con le incisioni di soggetto popolare di Giuseppe Maria Mitelli.
Nell’ultima sala è presentata La parabola del ricco Epulone di Luca Giordano (1634-1705), firmata e datata 1669 e ancora lontana delle apoteosi del lume leggero degli affreschi fiorentini degli anni Ottanta in Palazzo Medici Riccardi e poi di quelli napoletani all’aprirsi del nuovo secolo nella Certosa di S. Martino.
Infine, il Settecento. L’Erminia tra i pastori, tela firmata e datata 1729 di Gaetano Cittadini (1713?-1770), pittore ricordato da Luigi Crespi per la qualità dei suoi paesaggi invasi dalla luce solare; la Visione di San Camillo de Lellis di Ubaldo Gandolfi (1728-1781), frammento di una pala tagliata probabilmente al tempo delle soppressioni napoleoniche della quale si può comunque intuire la struttura complessiva grazie a un disegno preparatorio ora in collezione privata e al frammento della parte inferiore passato sul mercato antiquario londinese.
di Francesco GUIDI Bologna luglio 2017