di Nica FIORI
Nel Rione Sant’Angelo, là dove un tempo si ergeva la Torre del Melangolo, non lontano da Tor Margana e da Tor de’ Specchi, è situato il Palazzo Patrizi Clementi, attualmente sede della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Roma e per la Provincia di Rieti.
Nel corso della Notte dei Musei dello scorso 14 maggio 2022 il palazzo è stato aperto e illustrato al pubblico con visite guidate: un’occasione che saltuariamente viene offerta per ammirare un interessante isolato a pianta trapezoidale irregolare che, pur con le numerose trasformazioni subite nel tempo, conserva ancora oggi le caratteristiche tipologiche dell’architettura abitativa del Cinquecento di tipo sangallesco con cortile centrale e prestigiosi apparati decorativi secenteschi negli ambienti del piano nobile.
Il prospetto su Via Cavalletti, dove si apre l’ingresso al palazzo, è costituito da una facciata piana, scandita sui fianchi dai cantonali in bugnato piatto e, orizzontalmente, da cornici marca-davanzale e dal cornicione aggettante. Il portale, sormontato da un balcone, è situato in posizione asimmetrica rispetto alla facciata.
È di epoca moderna l’altana superiore, realizzata nel 1924 da Antonio Muňoz.
La facciata più corta, che un tempo era la principale, ha pure un imponente portale coronato da un balcone e si affaccia verso la cinquecentesca chiesa di Santa Caterina dei Funari. Proprio per questo l’edificio veniva chiamato Palazzo Patrizi a Santa Caterina, distinguendolo da altri della stessa famiglia nobiliare.
Su via dei Funari si notano delle colonne in granito inglobate nella muratura, come del resto in altri edifici della zona, perché l’isolato occupa una porzione di quella che un tempo era individuata come la IX Regione Augustea del Circus Flaminius, posta in prossimità del Tevere ai margini del Campo Marzio, tra il Portico d’Ottavia e il Teatro di Marcello da un lato e la Crypta Balbi (un angusto cortile porticato annesso al teatro di Balbo) dall’altro.
Si tratta di una zona monumentale che, nel corso del Medioevo, ha subito profonde trasformazioni, con l’inserimento di una serie di isolati costituiti da case con portici e torri. Proprio a uno di questi edifici medievali, segnato nelle piante come Torre del Melangolo, forse appartenuto ai Frangipane, e ad alcune case a essa addossata, a fianco alla chiesa appena ultimata di S. Caterina dei Funari (1560-1565), è da ricondursi il nucleo originario del Palazzo Patrizi.
La sua costruzione viene avviata da Tiberio Massimo (del ramo detto poi d’Ara Coeli) nel 1565, nell’ambito del processo di rinnovamento e trasformazione della città medievale, a seguito della bolla di Gregorio XIII del 1574, che concedeva benefici ai privati cittadini, purché bonificassero e riqualificassero le aree più malsane della città.
Ma nel 1588, alla morte di Tiberio Massimo, il palazzo è costruito solo in parte: sono ancora in piedi, in effetti, una serie di casupole medievali, che vengono affittate dagli eredi per risanare i debiti della famiglia, finché nel 1605 la proprietà viene venduta a Orazio Savelli. A quest’ultimo si deve il completamento del palazzo, che nel 1626 viene ceduto, per lo stesso prezzo di acquisto, a Francesco Patrizi. Quest’ultimo sposa Caterina Pinelli, che, una volta rimasta vedova, si risposerà con Urbano Mellini, ma la famiglia Patrizi manterrà comunque il possesso dell’edificio. Date le altre proprietà della famiglia, come il palazzo presso San Luigi dei Francesi, quello a Santa Caterina verrà dato in affitto (si ricorda fra gli affittuari il cardinale Benedetto Odescalchi, futuro papa Innocenzo XI).
Nel 1747 si verifica un ulteriore cambio di proprietà con la vendita a mons. Nicola Casoni. Nel 1849 l’immobile risulta essere dei Righetti, nel 1900 di proprietà Ascarelli e nel 1919 è dell’ingegnere Antonio Clementi (il progettista e concessionario della ferrovia Roma-Fiuggi), che fa incidere il suo cognome sull’architrave del portale di ingresso sulla piazzetta di Santa Caterina dei Funari. Viene infine acquistato per prelazione dallo Stato Italiano nel 1968.
I rapidi passaggi di proprietà, con il conseguente alternarsi di maestranze diverse, sono evidenziati dalla eterogeneità riscontrata nelle murature e da alcune irregolarità costruttive. Data la complessa e ricca stratificazione dell’area, sono state lasciate integre le tracce di monumenti antichi, non solo il basamento della Torre del Melangolo in corrispondenza dell’angolo nord-est, ma anche il Portico di Filippo, visibile oggi sul fronte lungo via dei Funari, e il fronte ovest del Portico di Ottavia, i cui resti sono stati individuati nel corso dei lavori di restauro condotti nei sotterranei del palazzo dal 1979 al 1989, contribuendo in maniera significativa alla ricomposizione della Forma Urbis di età severiana, che era carente relativamente a questa porzione di area.
Ricordiamo che il Portico d’Ottavia era un ampio porticato che circondava i templi di Giunone Regina e di Giove Statore. Fu costruito, al posto del più antico portico di Metello, da Augusto (tra il 27 e il 23 a.C.) e dedicato alla sorella Ottavia. Fu restaurato da Settimio Severo e Caracalla nel 203 d.C., ed è a questa fase che appartengono la maggior parte dei resti attualmente esistenti. Era una costruzione grandiosa (circa m. 132 di lunghezza e m. 119 di larghezza) che prospettava sul Circo Flaminio e probabilmente costituiva con il contiguo portico di Filippo un insieme unitario. Alla sua costruzione lavorarono due architetti greci: Sauros e Batracos che, essendo schiavi, non potevano firmare l’opera con il loro nome, ma impressero due “stemmi parlanti”: la lucertola (in latino saurus) il primo, la rana (in latino batracus) il secondo, a ricordo del loro operato.
Entrando nel palazzo da via Cavalletti, siamo introdotti in una corte quadrata, abbellita da un sarcofago romano trasformato in fontana. Sui lati sud-est e nord-ovest sono due portici a tre campate e con volte a crociera sorrette da pilastri. Sugli stessi s’immettono le gallerie degli androni con volte a botte, e le due scale (in posizione antitetica ai vertici della diagonale), quella principale a rampe rettilinee voltate, e quella secondaria a rampa elicoidale, entro la cui tromba cilindrica è inserito un ascensore a pianta circolare.
Gli interni sono stati alterati per via degli usi moderni cui è stato adibito l’edificio (uffici e anche appartamenti), ma il piano nobile, costituito da sale e saloni disposti in infilata, ha mantenuto gli apparati decorativi sulle pareti e gli originali soffitti lignei a lacunari. La sala sul fronte settentrionale, oggi adibita a biblioteca, e la piccola galleria che funge da atrio d’accesso dalla scala secondaria a chiocciola, si distinguono per le volte in “incannucciata”, che sono affrescate.
Come si legge nel testo inserito nel sito della Soprintendenza, firmato G. Palandri:
“Lungo le pareti delle sale si susseguono immagini di tema profano, paesaggi campestri e marine, loggiati popolati da putti e soggetti sacri racchiusi all’interno d’elaborate architetture illusive. Il ciclo pittorico appare espressione tipica delle campagne decorative che nella prima metà del XVII secolo hanno coinvolto quasi tutti i palazzi nobiliari romani e che hanno visto attive le botteghe del primo barocco. Tuttavia tale ciclo non sembra rispondere a un programma iconografico unitario se non per quanto presumibilmente discende dalla volontà d’esaltazione delle virtus e delle qualità del committente Francesco Patrizi”.
La realizzazione dei dipinti è da collocare a partire dal 1626, anno di acquisto del palazzo da parte di Francesco Patrizi, perché il suo stemma a bande azzurre e argento e quello con sei pigne di sua moglie Caterina Pinelli sono presenti nelle sale e compaiono anche tra le decorazioni dei cassettonati.
Il cosiddetto Salone maggiore con affaccio su via Cavalletti presenta un fregio con quattro scene tratte dal Vecchio Testamento, relative ad Abramo: L’apparizione dei tre angeli ad Abramo, Il ripudio di Agar, Agar nel deserto, Il sacrificio di Isacco. Le figure appaiono di manierata eleganza, con le teste piccole e gli arti eccessivamente lunghi; le vesti ricadono morbidamente togliendo pesantezza all’insieme, che nei dettagli mostra qualche bizzarria, come la smorfia grottesca di Sara (la moglie di Abramo che fa cacciare la schiava Agar con il figlio Ismaele nel deserto).
Le scene sono disposte all’interno di un’articolata architettura illusionistica con putti, telamoni e figure allegoriche relative a quattro emblematiche virtù: Intelligenza, Lealtà, Benignità e Perfezione.
L’Intelligenza è raffigurata come una donna vestita d’oro con una sfera dorata nella mano destra e una serpe nella sinistra (rettile che, secondo l’Iconologia di Cesare Ripa, vuole significare che bisogna partire da terra per intendere le cose sublimi, simboleggiate dall’oro); la Lealtà è una donna con la lanterna, la cui luce allude alla chiarezza; la Benignità è la donna che porge i seni per donare il latte; la Perfezione è la donna con il cerchio dorato dello zodiaco e con il compasso, che traccia un cerchio (figura perfetta per antonomasia).
Le scene narrative sono state attribuite da Susanne Neuberger al pittore toscano Giovanni Mannozzi, detto Giovanni da San Giovanni (1592-1636), apprezzato per un linguaggio pittorico spigliato e narrativo, reso più aggraziato da una notevole sensibilità cromatica. Data tale attribuzione, le pitture devono essere state realizzate tra il 1626 e il 1628, anno in cui Giovanni da San Giovanni lascia Roma per tornare a Firenze.
Le figure allegoriche e le architetture illusionistiche dovrebbero essere di un anonimo pittore della cerchia di Agostino Tassi, forse il cognato e collaboratore Filippo Franchini, autore probabilmente anche delle cariatidi e dell’affresco con i “putti che giocano su di un parapetto contro lo sfondo del cielo” (nella saletta adiacente, attualmente adibita a segreteria).
E potrebbero essere dello stesso artista anche gli affreschi di paesaggi presenti in altre sale, perché mostrano significativi legami con le decorazioni realizzate da Tassi in altri palazzi romani. Si tratta di pitture di genere sullo sfondo di borghi e rovine e paesaggi marini.
Nella sala d’angolo tra via Cavalletti e via dei Delfini le scene vengono svelate da Amorini che tolgono dei drappi rossi come se si trattasse di sipari teatrali.
Questi putti richiamano in particolare quelli dipinti da Tassi a palazzo Borghese, mentre le scene di pesca e di paesaggio con barche trovano confronti con quelle di palazzo Lancellotti. Anche il soffitto con figure di uccelli del cosiddetto I Salone potrebbe contenere un riferimento all’Uccelliera dipinta da Agostino Tassi nel palazzo di Piazza Mattei, un ambiente perduto forse in seguito alle modifiche apportate dai successivi proprietari Costaguti.
Nel bordo di uno dei riquadri dello stesso salone compare la pigna, simbolo della famiglia Pinelli, mentre in un altro bordo troviamo la torre, che allude alla torre del Melangolo, un emblema del palazzo ricorrente anche nelle cancellate in ferro battuto del cortile.
Non può essere stato Agostino Tassi l’artista che ha lavorato nel palazzo, sia perché le pitture appaiono di fattura non eccelsa, sia perché nel 1624 il pittore aveva citato in giudizio mons. Costantino Patrizi, del quale Francesco Patrizi era erede, per il mancato pagamento per la decorazione del palazzo Patrizi (poi Costaguti) in piazza Mattei e quindi non avrebbe certo acconsentito a lavorare ancora per la famiglia Patrizi.
Di un periodo successivo (seconda metà del Seicento) dovrebbe essere la decorazione della volta dell’attuale biblioteca, di attribuzione ancora incerta. In questo ambiente, che si affaccia verso la chiesa di Santa Caterina, artisti della cerchia cortonesca hanno delineato le personificazioni delle arti liberali intorno all’ovale centrale raffigurante “La Verità svelata dal Tempo”, un’allegoria molto frequente in epoca barocca, a partire dalla statua berniniana della Galleria Borghese.
La Verità è rappresentata da sempre come una figura nuda, senza orpelli e abbellimenti (la nuda veritas di Orazio) e concorda col termine che le assegnavano i Greci, Aletheia, ossia “disvelamento”, poiché deve essere chiara e visibile; si appoggia al globo, a simboleggiare il suo dominio sul mondo e il fatto che si tratta di un valore universale. La mano sinistra è illuminata da una corona di raggi (allusione al Sole), perché ormai la Verità è stata rivelata ed è amica della luce. Nell’altra mano ha una foglia di palma: un attributo questo che allude al trionfo sul falso. Quanto al Tempo, è raffigurato come un vecchio alato, corrispondente al dio greco Crono (Saturno per i Romani) e ha come attributi la falce e la clessidra, sostenuti da puttini.
Il pavimento della Biblioteca, di grande pregio, è composto da un campo centrale in lastre intarsiate di marmo di Chio (detto Portasanta) con fascia irregolare a chiusura in bianco di Carrara, con al centro una stella in giallo antico e pavonazzetto.
Nel corso dei secoli i dipinti del palazzo hanno subito aggiustamenti o totali risistemazioni, ad esempio nella sala dei “Vecchi barbuti”, dalla quale sono state eliminate alcune porzioni, verosimilmente relative a stemmi, o nella grande sala di passaggio (I Salone), con la tarda ricopertura di scorci paesaggistici, sostituiti da nuovi paesaggi di gusto più aggiornato.
La decorazione novecentesca del palazzo e il completamento in stile delle parti più rovinate del piano nobile, adibito a sede di rappresentanza della società immobiliare Clementi, si deve probabilmente a Eugenio Cisterna (1862-1933), visto che alcuni cartoni preparatori di mano dell’artista (conservati nell’archivio degli eredi) appaiono sovrapponibili ai soggetti raffigurati. Questo pittore, noto all’inizio per le decorazioni religiose, aveva esteso il proprio raggio d’azione ai soggetti profani in diversi palazzi romani (Senatorio, Madama, Giustiniani, Venezia, Quirinale) e nelle ville urbane ed extraurbane (Aldobrandini a Frascati, Torre in Pietra, Villa Lusa). Proprio a Villa Lusa ai Parioli in via San Valentino (in origine villa del conte Giovanni Emanuele Elia) si ispira il soggetto del fregio ispirato al paesaggio della campagna romana con butteri, pastori con le greggi e scene di genere sullo sfondo di borghi e rovine, che denotano il suo legame con il paesaggio dei Castelli romani e della natia Genzano. Lo stesso Cisterna deve essere intervenuto nella risistemazione dei soffitti lignei a cassettoni (tra cui quello già citato con gli uccelli e altri animali), che comunque conservano gli stemmi Patrizi e Pinelli.
Antonio Muňoz, l’architetto cui si deve la sopraelevazione del palazzo dal lato di via Cavalletti, scrisse in un articolo del 1924 intitolato “Il pittore Eugenio Cisterna” (su Arte cristiana), che questo artista seppe interpretare
“con sicuro gusto lo stile dei nostri maestri del Sei e Settecento e in forma moderna imprimere nobile suggello a dimore signorili riattaccandosi in questo alla gloriosa tradizione italiana dei secoli passati”.
Del resto quella di riprendere in stile il decoro antico era una prassi che all’epoca andava per la maggiore, basata su una concezione del restauro che prediligeva il ripristino e l’unità di lettura dell’insieme, piuttosto che la conservazione e la filologica distinzione tra antico e moderno.
Nica FIORI Roma 22 Maggio 2022
Palazzo Patrizi Clementi
SABAP per l’area metropolitana di Roma e per la provincia di Rieti
Via Cavalletti 2, Roma
Per eventuali iniziative di visita e per conferenze: http://www.sabap-rm-met.beniculturali.it/