di Emilio NEGRO
Il Museo Horne di Firenze è una gloriosa istituzione che dal 1922 testimonia il ruolo fondamentale del collezionismo privato per la salvaguardia e la valorizzazione delle arti figurative.
Nella prima sala al pianoterra del “palagetto” fiorentino che lo ospita, appartenuto anticamente alla nobile famiglia Corsi, a fianco di una delle finestre e dietro al ritratto di Herbert Percy Horne (opera di Henry Harris Brown) (Fig. 1), poliedrico collezionista e fondatore del museo, è esposta una tavola che raffigura la Madonna col Bambino con due anonimi cantori ai lati.
Collocata in una posizione un po’ defilata dell’esposizione museale, l’opera risulta catalogata come di “Baldassarre Carrari (?)/ (Forlì, 1460 ca.-Ravenna 1516)/ seconda metà del secolo XV” (Fig. 2) (n. 1).
L’attribuzione con opportuna riserva al maestro romagnolo risale agli anni Sessanta del secolo scorso e non è affatto impropria: perciò, in assenza di ipotesi alternative più convincenti, sarebbe capzioso metterla in discussione (n. 2). Invece la lettura iconografica e iconologica della composizione può essere meglio approfondita. Per fare ciò va chiarito fin da subito che i caratteri stilistici del dipinto indicano la sua appartenenza al primo decennio del XVI secolo e non alla seconda metà del precedente: numerosi indizi, fra i quali l’impianto formale che rispecchia gli schemi dell’ultima maturità del Perugino, il modo di rendere le pieghe sottili dell’abito di Maria e l’aspetto tendenzialmente eccentrico e quasi caricaturale dei volti dei cantori, testimoniano una cronologia collocabile nella seconda metà del primo decennio del Cinquecento.
A prima vista il soggetto raffigurato sembra coincidere con uno dei temi pittorici più cari alla tradizione facendo ricorso ad una soluzione compositiva antica, schematicamente essenziale e nel contempo efficace: la Vergine e il Bambino sono infatti i protagonisti di questa “sacra conversazione” in cui Gesù benedicente è in piedi sulle ginocchia materne e con il corpo teneramente nudo, laddove Maria ha i capelli lisci, bruni e divisi uniformemente da una scriminatura che valorizza il volto plenilunare, i giovanili lineamenti regolari e il tenero incarnato. La Vergine, seguendo la moda diffusa tra Quattro e Cinquecento, indossa un mantello largo che le copre parte del capo e dell’aderente vestito rosso stretto in vita, mentre dall’ampio scollo finemente plissettato e dalle maniche, lunghe, rastremate ai polsi e divise in due da uno spacco longitudinale con asole e legacci, escono i contorni candidi della camiciola.
Sono però i ritratti dei cosiddetti “cantori” a latere, impegnati ad intonare laudi in onore della Madonna e del piccolo Salvatore, a costituire la parte più interessante del dipinto; ambedue hanno lunghi capelli, bruni, ondulati e ben pettinati, indossano abiti tra loro rassomiglianti e semplici, costituiti da un giubbetto (o “zupparello” imbottito) con il bavero corto rialzato e rivestito di pelliccia, dal cui colletto e dalle estremità delle maniche aperte con asole sbuca il bianco delle camicie; l’atteggiamento distaccato, l’aspetto curato e le finiture dell’abbigliamento indicano che siamo dinanzi a due gentiluomini in tenuta invernale, l’uno effigiato un po’ in tralice mentre è impegnato a suonare il liuto, l’altro ritratto quasi frontalmente con le mani giunte, entrambi coinvolti in un dolce canto a labbra socchiuse.
Tutti i protagonisti della tavola Horne riecheggiano il medesimo atteggiamento di superiorità ostentato, ad esempio, da quelli immortalati da Lorenzo Costa sia nella grande tela raffigurante la Madonna col Bambino in trono con la famiglia di Giovanni II Bentivoglio (Bologna, chiesa di S.Giacomo Maggiore) (Fig. 3)
che nei due “Concerti” (rispettivamente, Londra, National Gallery e Madrid, Thissen Bornemisza Museum) (Figg. 4-5) (n. 3).
Lo scopo perseguito dall’anonimo autore di questa raffigurazione musicale-religiosa è palesemente celebrativo: non a caso le silhouettes dei due giovani, seppure in secondo piano, sovrastano addirittura quelle della Madonna e del Bambino, la qual cosa fa ritenere che non siano anonimi coristi, quanto piuttosto i committenti della tavola destinata ad ornare credibilmente l’altare di una cappella di famiglia.
E infatti le loro fisionomie compendiarie, rustiche e tuttavia ben caratterizzate, corrispondono perfettamente con quelle di due noti personaggi riminesi vissuti all’epoca del nostro dipinto ed effigiati anche all’interno della nota pala d’altare di Domenico Ghirlandaio e bottega conservata nel Museo della Città di Rimini (Fig. 6) (n. 4).
La sezione principale di quest’ultima opera raffigura i Santi Sebastiano, Vincenzo Ferrer e Rocco tra quattro membri della famiglia Malatesta: Pandolfo IV Signore di Rimini, detto Pandolfaccio per le sue imprese poco edificanti, e il fratello Carlo sono ritratti sulla parte destra, la più importante anche dal punto di vista araldico, entrambi genuflessi con il solo ginocchio destro e il busto orgogliosamente eretto in segno di cosciente sottomissione a Dio. Nel lato opposto compaiono umilmente inginocchiate Elisabetta Aldobrandini, madre dei due rampolli, e Violante Bentivoglio, sposa del sanguinario Pandolfaccio (n. 5).
Sia Pandolfo IV che Carlo erano figli illegittimi (poi beneficiati dalla legittimazione pontificia) del valoroso Roberto Malatesta, detto il Magnifico, e della bella quanto spregiudicata Aldobrandini (n. 6).
La rapace sicumera ostentata tanto da Pandolfaccio (che qui scopriamo nell’insolita veste di suonatore di liuto) – ultimo della sua stirpe ad essere investito del titolo di Signore di Rimini, da dove fu cacciato a furor di popolo nel 1528 -, che dal fratello Carlo, morto in battaglia nel febbraio del 1508, non lasciano dubbi riguardo alla loro identificazione all’interno della tavola devozionale del Museo Horne, in cui non è improbabile che i ritratti della Madonna e del Bambino possano celare quelli di altri membri della famiglia riminese (Figg. 7-8).
Emilio NEGRO Bologna 22 agosto 2021
Note
-
Tempera grassa su tavola, cm 98 x 81, inv. n. 45: E. Nardinocchi, Museo Horne. Guida alla visita del museo, Firenze 2011, p. 59, n. 32.
-
Il nome di Baldassarre Carrari fu avanzato da Carlo Gamba (Il Museo Horne a Firenze, Firenze 1961, p. 37, n. 23), in seguito F. Rossi (Il Museo Horne a Firenze, Milano 1966, p. 145, tav. 61) optò per una definizione più generica (“Scuola romagnola del secolo XV”). Per una biografia di Baldassarre Carrari si rimanda ad A. Tempestini (in Bellini e i belliniani in Romagna, Firenze 1998, pp. 121-142).
-
E. Negro-N. Roio, Lorenzo Costa, Modena 2001, pp. 27-31, 87, 91-93, 101, Cat. nn. 9, 12.a, 23, Tavv. V-VI.
-
R. Bartoli, in Il potere. Le arti. La guerra. Lo splendore dei Malatesta, catalogo della mostra, a cura di R. Bartoli, Milano 2001, pp. 396-397, n. 175.
-
Un probabile ritratto di Pandolfo IV (malgiudicabile a causa del precario stato di conservazione) ed uno ben conservato di Violante Bentivoglio sono stati identificati nel ciclo di affreschi del Palazzo Pretorio di Cittadella (Padova), luogo che con le terre circostanti era stato dato dai veneziani a Pandolfaccio Malatesta con l’impegno che sarebbe stato trasmesso agli eredi maschi, sostituibili in caso di estinzione del suo ramo, dai successori di Carlo (G. Ericani, Cittadella. Palazzo Pretorio, Cittadella, 2002; R. Bragantini, “Il ciclo di ritratti affrescati di Cittadella: appunti sulle fonti letterarie”, in “MLN”, 119/ 1, 2004, pp. 1-39).
-
A. Falcioni, Malatesta, Pandolfo, in Dizionario biografico degli italiani, 68, Roma 2007, ad vocem; La signoria di Pandolfo IV Malatesti, a cura di G. L. Masetti Zannini-A. Falcioni, Rimini, 2003.